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manifesto

Tornare al welfare, ma non siamo negli anni '50

Enzo Modugno

fabbrica4C'è una questione teorica dietro l'esperienza della sinistra al governo che riguarda il passaggio dal welfare al neoliberismo. Il '68-'77 aveva capito che il declino della fabbrica fordista aveva ampliato il numero dei lavoratori non-garantiti rendendo il welfare un'istituzione impraticabile, e che perciò il valore della forza-lavoro si doveva difendere con lo scontro sociale.

La sinistra invece - quella di allora pensò solo alla difesa istituzionale dei garantiti superstiti scaricando gli altri - è andata ora al governo pensando non solo che si potesse tornare al welfare come se ci fosse ancora la fabbrica fordista, ma che lo si potesse fare ancora per via istituzionale, interpretando il neoliberismo come un attacco politico che poteva essere battuto sul suo stesso terreno, politicamente.

Secondo Bertinotti - si riveda ora la sua prefazione al libro di Serge Halimi, Il grande balzo all'indietro, pubblicata agli inizi dell'esperienza governativa - il neoliberismo è stato un'operazione eminentemente politica, dovuta al «potente apparato ideologico» dei pensatori neoliberisti sostenuto da un «poderoso sistema di controllo politico». E pertanto, così come era stato costruito, il neoliberismo poteva essere demolito con un'azione politica uguale e contraria che coinvolgesse i governi di sinistra per riportare al welfare il capitalismo.

Era questa la strategia della sinistra al governo. Ma non ha avuto successo e c'è da chiedersi quindi se questa interpretazione del neoliberismo fosse corretta. Se cioè si possa sostenere che la trasformazione del capitalismo sia dovuta all'anticipatio mentis di von Hayek, un professore viennese riscoperto a Chicago. Se si possa sostenere insomma che il cambiamento della forma della produzione sia il risultato del cambiamento del metodo di pensiero, come credeva Bacone.

La tradizione materialista invece ha sempre sostenuto che le idee si muovono sulle linee tracciate dalle strutture economiche: Galilei sarebbe stato impensabile senza l'arsenale veneziano, il cartesianesimo senza i banchieri del capitale mercantile, il kantismo senza gli uomini universali dell'industrializzazione. E così di seguito sino al keynesismo, praticato prima che Keynes concedesse questo nome, per finire col neoliberismo che si afferma quando il capitale informazionale ha già colonizzato il mondo.

Va detto che anche il keynesismo ebbe una lettura «politica», fu presentato cioè dalle socialdemocrazie - e da qualche partito comunista - come una «vittoria» dei lavoratori, e che è proprio questa interpretazione che poi si rovescia nella lettura del neoliberismo come «sconfitta» politica.

Le cose invece stavano diversamente, perché erano state le trasformazioni produttive del fordismo a rendere necessario il keynesismo. E sono state altre trasformazioni produttive a renderlo inutile. Cambia non solo la fabbrica ma tutta la società, aveva detto Gramsci. Le nazionalizzazioni erano necessarie alla fabbrica fordista per far funzionare settori strategici che non davano profitti: ma sono diventate inutili quando, con le nuove tecnologie, si fanno profitti anche con le autostrade. Il welfare era necessario alla fabbrica fordista per la gestione della domanda globale e per non disperdere nelle recessioni i team di operai e tecnici difficilmente sostituibili: ma è diventato inutile quando le nuove macchine hanno incorporato i saperi di operai e tecnici e i nuovi lavoratori sono diventati facilmente sostituibili. Era in atto un processo storico di grandi proporzioni. Il lavoro scientifico e l'applicazione tecnologica della scienza stavano riducendo il lavoro operaio sia quantitativamente che qualitativamente ad un momento subalterno. Per questo il capitale non poteva continuare a porre il tempo di lavoro operaio come unica misura e fonte della ricchezza: doveva impadronirsi anche del lavoro tecnico-scientifico. E come la macchina per filare senza dita aveva incorporato la virtuosità degli artigiani riducendoli ad operai ed avviando la grande industria, così questa volta è stata la macchina per pensare senza cervello ad incorporare la virtuosità dei lavoratori tecnico-scientifici riducendoli a lavoratori mentali dequalificati. Ormai in ogni ramo d'industria qualunque addetto alle nuove macchine a mala pena diplomato, sostituibile, delocalizzabile, senza diritti, opera con un grado di facilità, rapidità e precisione che nessun sapere accumulato avrebbe potuto dare alla mente dello scienziato più abile. Come sempre il capitale ha usato le macchine consapevolmente per ridurre il valore della forza-lavoro e per spezzare la resistenza dei lavoratori.

La gestione della domanda globale invece, nonostante il ripudio ufficiale del keynesismo, è rimasta al centro delle politiche economiche col riemergere della spesa pubblica come spesa militare. Che lo stesso Reagan ha aumentato come nessun altro in tempo di pace. Le nuove tecnologie hanno consentito un più accelerato ricambio degli arsenali militari, e la guerra permanente con le sue colossali esigenze è diventata lo stimolo permanente di ogni attività in ogni recesso del sistema economico.Era mai possibile dunque che al governo di un capitalismo così trasformato ci fosse ancora chi mostrava insufficiente entusiasmo per i pilastri della ricchezza capitalistica come l'economia di guerra e la precarietà del lavoro, riproponendo la spesa pubblica civile? hanno mandato a dire. Finisce così la via istituzionale al welfare.

Tuttavia, per non far torto a Lenin, forse qualche astensionista potrebbe ancora ritenere utile un riferimento decente nelle istituzioni. Ma non si possono chiedere voti con una sindrome da partner abbandonato: il Pd ormai sta col neoliberismo. E questo significa che il valore della forza-lavoro, cessata ogni garanzia, è ora determinato dall'incontro del compratore e del venditore entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. E tra diritti eguali - scrive Marx - decide la forza. Quindi aveva ragione il '68-'77, meglio zappare nell'orto pietroso dello scontro sociale.

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