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Riflessioni su un’intervista a Olin Wright

Capitalismo, classi, lotta di classe

di Mauro Poggi

zodc3adacoSu Micromega e qui un’intervista al sociologo Erik Olin Wright. Nella prima parte analizza i concetti di classe e lotta di classe, che oggi è di moda ritenere superati per prossima estinzione di uno dei contendenti, il ceto operaio; nella seconda spiega la sua visione strategica per “la democratizzazione e il controllo del capitalismo”.

Condivisibile la prima parte dell’intervista, meno la seconda.

Fino al secolo scorso l’identificazione del ceto operaio con la classe subordinata era giustificata dal fatto che esso ne costituiva la parte prevalente e trainante. Omogeneità (socio-economica) e aggregazione (nei luoghi di lavoro) erano i fattori che agevolavano il discorso identitario.

Oggi è vero che il ceto operaio è in fase di forte regressione, sia numericamente che dal punto di vista politico; ma ciò non significa che altrettanto stia succedendo alla classe subordinata, la quale è anzi in aumento a causa del progressivo smottamento dei ceti intermedi. Il problema, semmai, è che a questo aumento quantitativo (la classe “in sé” marxiana) non ne corrisponde ancora uno qualitativo (la classe “per sé”): manca cioè della consapevolezza necessaria a trasformarla in classe dal punto di vista politico, a causa della sua disomogeneità e grazie alla manipolazione culturale della narrazione di sistema (1).

Questa nuova e fluida classe subordinata comprende ciò che resta del vecchio ceto operaio, i lavoratori cognitivi, gli artigiani, la legione dei precari e quella dei disoccupati, piccoli imprenditori, agricoltori, immigrati, popolo delle partite IVA, i sotto-occupati delle nuove attività di sharing e gig economy (altri modi di chiamare il lavoro a cottimo, secondo il collaudato metodo della mistificazione semantica).

Comprende insomma il popolo dolente di tutti coloro che la crisi ha emarginato e continua a emarginare.

Secondo la definizione marxiana, infatti, a definire una classe (cioè un gruppo di individui che condividono un’analoga situazione politico-economica) è lo specifico tipo di relazione sociale all’interno di una particolare struttura economica: “la classe a cui appartieni – dice Wright – non è determinata dal tipo di occupazione/attività produttiva che svolgi, ma dal tipo di relazione sociale” che ti trovi a interpretare all’interno della struttura economica data.

Dal punto di vista economico ciò che caratterizza e prevale nella relazione sociale sono i rapporti di potere; e nella struttura economica capitalistica il potere si avvera attraverso il tipo e la quantità di risorse possedute e/o controllate.

È questo criterio chiave a collocare oggettivamente gli individui nella classe dominante o nella classe subordinata (classi in sé), a prescindere da quanto ne siano consapevoli; ed è la relazione a determinare il conflitto, dato lo squilibrio di potere fra le due classi.

Nella società capitalistica il conflitto è sempre presente, per quanto latente o sedato possa apparire oggi.

Se poi si accetta la bella definizione di democrazia data da Jacques Rancière (ispirata credo da Tocqueville), secondo il quale essa “non è un regime di governo, ma la manifestazione conflittuale del principio egualitario“, si può affermare che il conflitto di classe altro non è che conflitto per la democrazia; e in tempi di conflitto latente o sedato abbiamo una latenza o sedazione della democrazia.

Dal momento che i rapporti di potere capitalistici sono il problema, la soluzione è loro democratizzazione, intesa come controllo del capitalismo e redistribuzione del potere.

Il primo scoglio da superare è di nuovo la trasformazione dei ceti subordinati da classe in sé a classe per sé. Ciascuno dei componenti vive il proprio disagio sociale in termini individuali – o al più cetuali o corporativi; questo, insieme alla narrazione di sistema, impedisce il processo aggregativo, identitario, necessario all’azione collettiva da cui partire per affrontare il secondo scoglio, l’avveramento della democratizzazione.

L’orizzonte temporale che Wright immagina è di lungo periodo, tanto lungo che al termine “transizione” preferisce quello geologico di “erosione”. “Preferisco parlare di un orizzonte temporale imprecisato, ma che punta nella giusta direzione, che abbia dinamiche che generino nel tempo più solidarietà e non meno, più democrazia e non meno, più uguaglianze e non meno. Il termine “transizione” tende a dare l’idea che ciò possa avvenire in un lasso di tempo breve, e credo che invece ci dobbiamo immaginare un processo di erosione, questo è il termine geologico che uso: un processo che eroda il capitalismo“.

Qui il sociologo ipotizza una cauta strategia riformista di piccoli passi, in merito alla quale mi sento scettico. Si ama ripetere che il socialismo reale ha perso, ma ci si dimentica ogni volta che anche la socialdemocrazia riformista è stato sconfitta. Se c’è qualcosa che gli ultimi quarant’anni hanno dimostrato è che scendere a patti con il neoliberismo capitalistico comporta alla lunga esserne sopraffatti, data la straordinaria reattività di cui ha dato prova.

Mentre si negoziano dinamiche che vadano nella direzione della solidarietà, della democrazia e dell’uguaglianza, il sistema, nelle cui mani nel frattempo rimane il potere, ha buon gioco ogni volta a dotarsi di tutti gli strumenti – culturali, politici ed economici – per sedare il conflitto, inficiare il processo e disfare quanto è stato fatto.

La classe dominante, fra gli altri lussi, può permettersi anche quello della pazienza e della tolleranza democratica se il contesto, come quello oligarchico delle democrazie occidentali, le è favorevole (in caso contrario, come i paesi latino-americani insegnano da sempre e il Venezuela dimostra oggi, non esita ad adottare sistemi più sbrigativi).

Perfino le Costituzioni nazionali sono insufficienti a garantire stabilmente gli onorevoli compromessi che esse stabiliscono, perché è la classe dominante a gestirle, interpretarle, e se necessario “riformarle” quando diventano troppo ingombranti: a volte con successo, vedi articolo 81, altre volte fallendo – vedi il referendum del 4 dicembre 2016.

I tentativi infruttuosi, tuttavia, vengono letti non come sconfitte definitive ma come prove generali per aggiustare il tiro in vista di successivi colpi di mano, lasciando all’intellettualità compradora il compito di preparare opportunamente il terreno.

È solo di un mese fa la pubblicazione di un articolo sul Corsera etichettato “proposte per il futuro” [sic], in cui l’autore si interroga retoricamente se non è arrivato il momento di “intervenire col bisturi sulla prima parte della Costituzione, sui famosi principi” (notare il linguaggio sprezzante), visto che i tanti falliti tentativi di riforma “hanno sempre puntato a cambiare solo la seconda parte, quella che riguarda l’assetto dei poteri dello Stato“.

Per non dare adito a equivoci sul suo orientamento, l’autore non esita a riprendere un concetto, “ideologie socialisteggianti“, già espresso da JP Morgan in una sua famosa analisi del 2013, in cui le costituzioni dei paesi europei periferici sono indicate come elemento di disturbo alle riforme perché “The political systems in the periphery were established in the aftermath of dictatorship, and were defined by that experience. Constitutions tend to show a strong socialist influence…“.

Purtroppo stiamo parlando di un signore, Angelo Panebianco, il quale – oltre che rinomato politologo e opinion maker su titolati quotidiani – è docente di Scienze politiche all’Università di Bologna, dove dal 1989 ha il compito di formare le giovani menti che da lì hanno la (s)ventura di passare prima di assurgere a nuovo ceto dirigente. (Va detto se non altro che l’articolo ha l’involontario merito di rendere giustizia a chi veniva gabellato di complottismo perché sosteneva che le riforme costituzionali alla seconda parte erano mirate in realtà a vanificare la prima).

In linea con la sua visione riformistica, alla domanda sulla democratizzazione dell’Unione Europea, Olin Wright risponde che “Uscire dall’Europa renderebbe le cose ancora peggiori:avremmo più possibilità di controllare il capitalismo se democratizzassimo l’Unione Europea che se semplicemente democratizzassimo gli stati membri e ci liberassimo dell’UE. Abbiamo bisogno di istituzioni politiche sovranazionali che rispondano democraticamente alle persone per risolvere davvero il problema di come limitare il potere del capitalismo“.

Anche qui non mi trova d’accordo. L’idea per cui è più efficiente lavorare sul tutto anziché sulle parti, per quanto possa apparire lapalissiana, è una fallacia dovuta all’equivoco di considerare l’Unione europea alla stregua di uno Stato-nazione a tutti gli effetti.

Non è così. Per cambiare anche solo un articolo dei Trattati che reggono l’Unione, costruiti intorno all’ideologia ordoliberista tedesca, occorre l’adesione di tutti gli ormai 27 Stati membri. Bisognerebbe quindi in ogni caso passare dalla democratizzazione di TUTTI quei paesi, compresa la Germania e i suoi satelliti, che per un fenomeno di osmosi culturale spesso si rivelano più teutonici degli stessi tedeschi: auguri.

(D’altra parte, il sociologo si smentisce poco dopo affermando giustamente che “l’idea che non si possa trasformare nessun luogo finché non li si sono trasformati tutti è una ricetta per non trasformare nulla“).

In un libro-intervista del 2001 (2) Ralf Dahrendorf spiega che “Ci sono pochi dubbi che quando la Comunità Economica Europea […] fu costruita, la democrazia non costituì la prima preoccupazione di coloro che progettarono ed edificarono il nuovo edificio. […] Due categorie di interessi dovevano essere conciliate, quello europeo da un lato, quelle nazionale dall’altro. Dunque c’era il bisogno di due istituzioni, una che rappresentasse l’interesse europeo, incaricata di avanzare proposte; l’altra che rappresentasse gli interessi nazionali, incaricata di decidere. Perciò furono inventati la Commissione e il Consiglio. Un’idea alquanto brillante ma non certo democratica. L’Europa fu costruita in modo tale che gli interessi europei potessero trovare una sede per il compromesso nella Commissione, ma che le decisioni fossero prese alla fine nel rispetto degli interessi nazionali, comunque prevalenti; e questo era garantito dal ruolo del Consiglio. Ecco perché fin dall’inizio, ha sempre funzionato la regola dell’unanimità, e tuttora la mancanza di unanimità resta un trauma“.

Aggiungerei che all’interno del Consiglio il peso politico-economico dei diversi componenti non è esattamente uguale, e che l’unanimità – quando accade – si realizza sempre e invariabilmente intorno alla linea propugnata dalla Nazione di maggiore stazza. Se vi viene in mente la Germania non è per caso.

Stupisce poi, per la sua ingenuità, l’auspicio di Wright di “Istituzioni politiche sovranazionali che rispondano democraticamente alle persone per risolvere davvero il problema di come limitare il potere del capitalismo“. L’esperienza dimostra che quanto più le istituzioni si allontanano dai territori tanto più la delega di potere è ampia e non controllabile; tanto più inoltre sono portate ad adottare dispositivi autoreferenziali che le mettano “al riparo dal processo elettorale” (cfr Mario Monti), con la conseguenza di aprirsi a canali di influenza del tutto estranei alla dialettica democratica.

Gli esempi sono tanti e palesi: dall’ONU al FMI alla Banca Mondiale.

Ma per restare nel nostro cortile, l’esempio migliore è proprio l’Unione Europea, dove tutte le istituzioni sono al riparo dal processo elettorale salvo una, il Parlamento europeo, che non a caso è investito di poteri assolutamente risibili.

Non per niente Mario Draghi, a chi nel 2013 gli chiedeva un commento sulle incombenti elezioni in Italia dopo l’esperienza Monti, aveva risposto che il risultato non era importante perché esiste (testuale) “un pilota automatico” che impedisce a qualunque governo, quale che sia l’orientamento, di adottare politiche economiche in contrasto con quelle stabilite a livello sovranazionale.

E un anno prima, maggio 2012, Mario Monti confessava candidamente alla CNN che “We’re actually destroying domestic demand through fiscal consolidation”, cioè la politica economica del suo governo era finalizzata all’abbattimento della domanda interna attraverso la svalutazione del potere acquisto dei consumatori italiani. Non credo si possa discutere il fatto che Monti agisse su mandato europeo anziché del popolo italiano.

Concludo citando di nuovo Dahrendorf, quando nel libro menzionato ricorda una battuta che circolava all’epoca dell’allargamento all’est: se l’Unione Europea chiedesse di diventare essa stessa membro dell’Unione non potrebbe essere ammessa, perché la sua struttura non corrisponde ai criteri basilari di democrazia che l’Unione impone per l’adesione di un paese.

Ma era solo una battuta…


Nota (1)
Il sistema tende a mantenere la frammentazione della classe subordinata attraverso un’ampia gamma di narrazioni distraenti e/o divisive:
a) Alimentazione del conflitto orizzontale (pensionati/lavoratori, lavoratori/disoccupati, autoctoni/immigrati, conflitto di genere…)
b) Spostamento del dibattito politico sui diritti civili (gratuiti per il sistema) a scapito di quelli sociali (onerosi per il sistema)
c) Promozione dei contratti di lavoro aziendali o individuali a sfavore di quelli nazionali
d) Criminalizzazione del sindacalismo di base
d) Esaltazione del mito dell’auto-imprenditorialità
e) Colpevolizzazione dei perdenti
f) Promozione del tele-lavoro
g) Screditamento morale del conflitto, svilito a “invidia sociale”
… Aggiungere a piacere qualunque altro esempio fra gli ancora tanti a disposizione.
Nota (2)
Ralf Dahrendorf: Dopo la democrazia (Economica Laterza, 2003 – pag 34).
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