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Di percorsi abbreviati, alunni competenti e insegnanti efficaci

Cosa significa educare oggi?

di Rossella Latempa

scuola dammilviaLa vecchia Scuola fa acqua da tutte le parti. E’ lontana dal mondo dell’impresa, ha gli insegnanti più vecchi d’Europa, è fondata su saperi teorici e astratti, è sostanzialmente “analogica e cartacea”. Per fortuna, le competenze, il digitale e l’innovazione la salveranno. Attorno alle competenze e alla necessità di innovare si è costruito un vero e proprio racconto. Bisogna garantire un set di “saperi utili per la vita” (competenze di cittadinanza), che assicurino flessibilità ed employability. Ciò che conta è imparare ad imparare, saper apprendere sempre, per risultare vincitori nello struggle for life. Cosa e come si insegnerà nella scuola del XXI secolo? Le distinzioni disciplinari perderanno significato. Basterà fornire i saperi essenziali e sviluppare le giuste skills per ricercare e selezionare informazioni in rete. Eppure, problem solving and finding, Inquiry based learning, sono maquillages anglofili su pratiche che risalgono all’Accademia di Atene e che qualsiasi insegnante consapevole utilizza con gli obiettivi e i linguaggi specifici della propria disciplina. La pedagogia “del successo” è quella che crea ambienti, attività, metodi di apprendimento focalizzati su competenze utili per la vita. Da questa visione fluida e protesa al futuro scompare l’orizzonte di senso. Perché, a quale scopo tutto questo, qual è la nostra destinazione. L’educazione è innanzitutto una pratica morale e politica. E come tale necessita di una definizione delle sue finalità, prima che della sua efficacia. Efficace per cosa?

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Il tema del tempo-scuola e quello delle pratiche didattiche “innovative” sono tornati al centro del dibattito pubblico in occasione della recente firma del decreto che dà il via alla sperimentazione di diplomi quadriennali, da parte del MIUR. Tempo e innovazione sono strettamente connessi nell’esperienza dei percorsi abbreviati, dichiaratamente possibili grazie all’ adozione di una didattica non tradizionale e flessibile. L’innovazione, le competenze e la “tecnopedagogia” rappresentano il fil rouge di tutta la nuova narrazione della buonascuola, della scuola più efficiente. L’efficienza, valore economico per eccellenza, è oramai il cuore della questione pedagogica. Ma quali sono i nessi tra nuove metodologie didattiche ed apprendimento? Da quali istanze nasce l’urgenza riformatrice e cosa comporta aderire ai nuovi paradigmi pedagogici e diventare “effective teachers”?

 

Il nuovo “storytelling”

L’innovazione didattica chiama in causa le competenze: nuovo principio di realtà e interfaccia tra la Scuola e il Mondo esterno, interconnesso e in perpetua evoluzione. Attorno alle competenze e alla necessità di innovare si è costruito un vero e proprio racconto, che recita più o meno così. Nella società cognitiva, dominata dalla rete e dai rapporti immateriali, la vecchia Scuola non ha più diritto di cittadinanza. ”Riuscita di tutti”, lotta contro la dispersione scolastica, basso posizionamento nelle classifiche internazionali, alto tasso di NEET e drop-out, la crisi. Sono queste le motivazioni, dal carattere apparentemente progressista all’origine della spinta rinnovatrice. Bisogna garantire un set di “saperi utili per la vita” (competenze di cittadinanza), che assicurino flessibilità ed employability. Mettere nelle condizioni di apprendere anche strada facendo (life long learning), attraverso connessioni con il mondo della formazione al di fuori della scuola, con quello che oggi viene definito apprendimento non formale e informale. Ciò che conta è imparare ad imparare, saper apprendere sempre, per risultare vincitori nello struggle for life. “Il capitale umano non coincide con il bagaglio conoscitivo e non è legato alle conoscenze scolastiche [.. quanto alle] competenze, ossia le capacità di mobilitare in maniera integrata risorse interne (saperi, saper fare, atteggiamenti) ed esterne per far fronte in modo efficace a situazioni spesso inedite e certamente non di routine”, questo afferma il Governatore della Banca d’Italia Visco, in tema di “Capitale umano e crescita“. A sigillo e sintesi della narrazione.

 

Il ruolo dell’innovazione didattica: no teacher left behind

Oggi Innovare è diventato un imperativo categorico. Si innovano prodotti, mezzi di comunicazione e di trasporto, linguaggi, immagini, contatti, relazioni. Si innova dappertutto, costantemente. La creazione del nuovo è un mezzo di sopravvivenza nell’instabilità permanente in cui abitiamo. Innovazione e competenze sembrano saldate a doppio filo. Una persona competente è duttile, adattabile a situazioni sempre nuove e problemi sempre diversi. I due documenti fondanti della buonascuola parlano chiaro: il Piano Nazionale della Scuola Digitale ha il compito di diffondere in modo capillare il germe dell’innovazione; il Piano di Formazione degli insegnanti di plasmare le pratiche dei docenti. Obiettivo (o minaccia?): portare l’innovazione in ogni classe. Cosa e come si insegnerà nella scuola del XXI secolo? Le distinzioni disciplinari perderanno significato. Basterà fornire i saperi essenziali e sviluppare le giuste skills per ricercare e selezionare informazioni in rete, senza necessità di tenere costantemente conoscenze in memoria. Via le interrogazioni, via le verifiche alienanti modello “allievo-penna-foglio”. Le parole d’ordine cambiano: Unità didattiche di apprendimento-aggregate attorno alle competenze chiave – al posto dei vecchi programmi; rubriche valutative e tassonomie di indicatori, al posto dei voti, “compiti autentici o di realtà” al posto dei compiti in classe. E la vecchia e tanto vituperata “lezione frontale”? Al suo posto: flipped classroom, cooperative learning e tanta, tanta “azione”: realizzazione di un prodotto, costruzione di un manufatto, redazione di una brochure, organizzazione di un evento.

 

Da insegnante a tecnico dell’apprendimento

Lo scenario futuribile sembra prospettare l’evaporazione della figura insegnante. Non più esperto e riferimento della sua disciplina, si prefigura il suo progressivo depotenziamento, la sua mutazione in “tecnico di classe”. In un ambiente dematerializzato (ad es. la classe “scomposta” ) e privo di libri di testo (sostituiti da risorse open source, eventualmente autoprodotte) l’apprendimento degli allievi diventa evidence -based e, tramite esso, lo diventa l’attività dell’ insegnante. Raccolta di evidenze, grado di raggiungimento dei traguardi di competenza richiesti, comparazione, valutazione del grado di efficacia. L’insegnamento, è concepito come un processo, i cui esiti sono confrontabili. Strumento di “misura” nazionale: il test INVALSI. “Sterilizzate” dal contesto socio-economico (una cosa è il mitico eldorado del Nord Est, altra il Sud che arranca), dal cosiddetto “effetto classe” (l’ingombro della comunità), differenziate per categorie (autoctoni-immigrati; maschi-femmine; Liceo-Professionale), le risposte ai test generano anno dopo anno tabelle e istogrammi, inducono a confronti, producono indignazione e commenti. Chi di noi non ha mai sentito imputare i risultati dei test ad una imprecisata “mancanza di equità” della nostra Scuola? Chi non si è mai soffermato a scorrere le classifiche regionali per chiosare sempre e irrimediabilmente allo stesso modo (ah, il mitico Nord Est..)? Come se il “controllo qualità” del test, disegnato sul profilo dello “studente medio” potesse considerarsi “disinfettato” – come si conviene ad una prova scientifica – dalle disuguaglianze storiche, sociali, culturali stratificate nel tempo, nei luoghi e nelle vite reali. Disuguaglianze politiche.

 

L’altra faccia della narrazione

Ricapitolando: la vecchia Scuola fa acqua da tutte le parti. E’ lontana dal mondo dell’impresa, ha gli insegnanti più vecchi d’Europa, è fondata su saperi teorici e astratti, è sostanzialmente “analogica e cartacea”. Per fortuna, le competenze, il digitale e l’innovazione la salveranno. Basta piegare la resistenza, vincere l’inerzia e l’arretratezza degli insegnanti. Gli strumenti della buonascuola sono tutti in campo. Ma siamo proprio sicuri che la narrazione in cui viviamo non abbia altre chiavi di lettura? Spesso la distorsione linguistica nasconde precise scelte politiche e orientamenti ideologici prevalenti. E’ proprio quando tutto sembra lampante e “scientificamente” evidente che diventa essenziale sottrarsi dal discorso ordinario, dal chiacchiericcio opaco del fallimento e interrogarsi su questioni di “significato”. Stop and Think (H. Arendt): fermati e pensa.

Sull’ambiguità del termine competenza, sul fatto che più che un costrutto scientifico debba considerarsi una “metafora” dell’apprendimento è stato ampiamente dibattuto a livello internazionale e nazionale. Le principali criticità legate ad un’applicazione del concetto di competenza in campo educativo riguardano soprattutto la concezione funzionalista e utilitarista del sapere che da esso scaturisce, la distinzione tra saperi utili e inutili; la marginalizzazione delle discipline e dei loro percorsi storiografici; la parcellizzazione e frammentazione dei contenuti; la formattazione e normalizzazione delle pratiche di insegnamento in un quadro tecnicista ed efficientista.

Proviamo, però, qui, a fare luce su altri aspetti critici dell’attuale narrazione sulla scuola. In particolare su quelli che riguardano il nesso competenza/innovazione/apprendimento.

E’ una semplificazione, una parodia, quella che contrappone sapere inerte (=vecchio modello di insegnamento) a sapere vivo (=approccio per competenze). Il modello di insegnamento/apprendimento “attivo” dei recenti “compiti autentici” e delle rubriche di competenza, così come spesso vengono adoperati da chi corre ad innovare, si traduce in una caricatura della pedagogia attiva di lungo corso. Esattamente come è caricaturale la descrizione della “classica” lezione frontale -con l’insegnante che “trasmette” ad una certa frequenza e gli allievi sintonizzati altrove – rispetto a ciò che realmente è già oggi un’ora di lezione “tradizionale”. Sono anni che l’insegnamento è riflessione sulla costruzione della conoscenza, sulla sua attualizzazione nel vissuto, coinvolgimento critico dell’allievo e contaminazione tra discipline e con il reale. Problem solving and finding, Inquiry based learning, sono maquillages anglofili su pratiche che risalgono all’Accademia di Atene e che qualsiasi insegnante consapevole utilizza con gli obiettivi e i linguaggi specifici della propria disciplina, declinati a seconda della propria indole, del contesto e dei tempi ritenuti adatti. Le pratiche di rendicontazione e capitalizzazione dell’attività svolta rappresentano l’unico vero dato di novità introdotto dalla logica riformatrice.

“La didattica innovativa è più efficiente”. Essa consentirebbe, stando al punto di partenza della nostra digressione, di abbreviare i percorsi scolastici di un anno, a parità di traguardi formativi. Se è vero che l’educazione libresca e ripetitiva dà luogo ad un apprendimento passivo e transitorio, è vero anche che una “educazione della mente” necessita di un tempo quieto per pensare, non economizzato, sottratto alla logica del prodotto. Quella postura e quella distensione “alleggerite” dall’ansia dell’esito, libere di giungere anche all’insuccesso e da questo imparare a battere strade nuove. L’insegnamento è significativo quando attiva percorsi non logori, pensieri non standardizzati, risposte non automatiche. Per questo è necessario non lasciarsi andare a sperimentalismi impazienti, a semplificazioni dal sapore innovativo, a costruzioni artificiose di attività da svolgersi nell’arco di un paio d’ore che “mimano” situazioni realistiche e interdisciplinari. Di esempi di attività ritenute “autentiche” che iniziano con: “sei un giornalista che intervista tre personaggi dell’antica Roma..” o “sei il titolare di un’agenzia di viaggio che deve promuovere una famosa località turistica..” per costruire competenze interdisciplinari di storia-geografia-italiano, è pieno il web. Ma svolgere compiti apparentemente meno astratti non aiuta a difendersi dalla complessità ed orientarsi nella varietà del reale, le cui chiavi di lettura restano, a maggior ragione, di ordine concettuale e critico.

Il forte potere simbolico e retorico di documenti ufficiali in tema di Scuola rischia di costruire un nuovo “senso comune”, un punto di riferimento orientante. La sensazione di “restare indietro”, di “finire in fondo alle classifiche INVALSI”, se non si modificano le proprie pratiche di insegnamento, inducono a comportamenti adattivi. Attenzione a non sottovalutare il rischio di un vero e proprio “riciclaggio”, in stile copia-incolla, da una classe ad un’altra, da una scuola all’altra di attività o proposte educative (avete mai provato a scorrere le unità didattiche e le rubriche di competenza dei vari istituti scolastici?). Quando un discorso diventa dominante è facile sviluppare quell’attitudine costante e impercettibile ad “aggiustare” le proprie idee e i propri comportamenti in funzione di esso. Rimettere in gioco paradigmi, modelli e sistemi di riferimento in un orizzonte incerto e opaco come quello dell’innovazione didattica, debole sul piano della consistenza scientifica, produce opportunismi, che ricerca pedagogica sta già denunciando[1]. E’ proprio in ambito accademico che si cominciano a registrare quell’ “accomodamento” su pratiche conformi ai dispositivi valutativi recentemente introdotti (ANVUR e criteri bibliometrici di valutazione della ricerca) e quella “curvatura” dei percorsi su tematiche che danno risposte rapide e “alla moda”. Il valore che si perde è quello della biodiversità culturale, ossia “una delle risorse più forti che la specie umana possegga. Non sappiamo oggi cosa servirà domani, non abbiamo idea di come sarà il mondo tra un secolo ..e dovremmo conservare la miriade di anticorpi latenti che ci proteggeranno da complessità ancora sconosciute[2].

Gert Biesta[3], ha coniato un termine molto evocativo per identificare il recente scivolamento nel linguaggio dell’educazione da insegnamento ad apprendimento: la learnification. Gli studenti sono “apprendisti”, l’attività di insegnamento è “facilitazione dell’apprendimento”, le lezioni sono “opportunità di apprendimento”, la classe è “ambiente di apprendimento”. L’apparente conquista della nuova enfasi sul soggetto che apprende, piuttosto che su colui che insegna, nasconde due difficoltà. La prima è lo spostamento dell’attenzione sul processo (e dunque sull’esito), più che sul contenuto e sullo scopo di ciò che si apprende. (Apprendere che cosa? La seconda legge della dinamica o ad andare in bicicletta?) La seconda è la marginalizzazione della figura dell’insegnante e dell’insegnamento formale e scolastico. L’emergere di nuovi attori e mercati che propongono processi di formazione e pratiche di apprendimento inconsuete e quasi sempre di natura individuale (esplosione dei MOOC con i badge di competenza, dell’internet learning) rispetto alle forme tradizionali influenzano e trasformano in maniera silente linguaggio e ruoli dell’educazione scolastica. A fronte delle opportunità enormi di diffusione e di informazione disponibili spesso in forma aperta, il rischio è quello di “schiacciare” la Scuola e la cultura su valori e pratiche dell’informalità, su logiche di transazione. In un rapporto educativo lo studente non è un utente in cerca di una prestazione, non gli si fornisce semplicemente un “servizio”. La pratica educativa contribuisce a definire i bisogni educativi degli studenti stessi. Insomma, non si va a Scuola come si va dal medico per curarsi. Insegnare è muovere al di là di ciò che lo studente immagina di volere, è anche aprire nuovi orizzonti, concorrere a costruire il desiderio di ciò che è desiderabile.

 

Cosa significa educare oggi?

Oggi l’idea comune è che la formazione più efficace sia rapida, innovativa e flessibile. Il miglior insegnante è quello che muove i suoi allievi verso pochi e utili obiettivi, verso quell’identità (duttile) del life long learner. La pedagogia “del successo” è quella che crea ambienti, attività, metodi di apprendimento focalizzati su competenze utili per la vita. Da questa visione fluida e protesa al futuro scompare l’orizzonte di senso. Perché, a quale scopo tutto questo, qual è la nostra destinazione. L’educazione è innanzitutto una pratica morale e politica. E come tale necessita di una definizione delle sue finalità, prima che della sua efficacia. Efficace per cosa? L’apparente ineluttabilità della learning society dipinta dall’attuale agenda politica ed economica – che, dunque, serve ad un particolare segmento dominante della società – descrive l’apprendimento come un atto di adattamento alla complessità. Adattamento che deve avvenire senza nemmeno decidere se e perché ci si debba adattare. L’idea che la Scuola debba connettersi con il mondo esterno, non essere un luogo “altro” e appartato, può essere condivisa nella misura in cui la Scuola non si limiti ad assumere la struttura del mondo, ma a metterla in discussione. Gli studenti, ancorché “apprendisti” devono essere “attrezzati” ad agire in base alle proprie idee, a contestare responsabilmente lo stato di cose, a saper intervenire sulla società per cambiarla, non per riprodurne logiche e dinamiche. L’educazione non è una questione individuale. La conoscenza nasce dalla “perturbazione” provocata dall’Altro (l’adulto, il Maestro) in un contesto collettivo (la classe) e sociale (il territorio). Non si apprende solo per lavorare. Si impara a diventare qualcos’altro. Per questo gli insegnanti pubblici devono resistere e continuare ad affermare il diritto dei giovani di sognare.


Note
[1] Vedi contributi di G. Sandrone, R. Sani e N. Paparella in “La Nuova Secondaria”, Maggio 2017.
[2] R.Casati, in “La cultura in trasformazione”- Minimum fax, 2016.
[3] Gert Biesta è Professor of Education presso la Brunel University di Londra. In uno dei suoi ultimi lavori, “The rediscovery of teaching” ed. Routledge, 2017- tra le altre cose- denuncia la scomparsa dal discorso educativo della figura dell’insegnante, di cui rivendica la funzione politica e la necessaria espressione di giudizio autonomo e di natura morale, non semplicemente tecnica.
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