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Discussioni su globalizzazione, Unione Europea e destino nazionale

di Alessandro Visalli

dscn0932Su Sinistrainrete è stato pubblicato un interessante dibattito a distanza tra Franco Russo, autore di un articolo dal titolo “L’Unione Europea nella globalizzazione” e Mimmo Porcaro, che replica con “La UE e l’Italia dentro la ‘fine’ della globalizzazione”.

Il saggio di Franco Russo cerca di esaminare le reazioni di organi della Ue, e suoi rappresentanti, alla sbandierata politica americana all’insediarsi di Trump. La tesi alla quale reagisce è quella (certamente prematura) che il ciclo della globalizzazione si sia chiuso, e si stia affacciando una nuova fase di protezionismo e difesa degli interessi nazionali. Secondo Russo questa idea nasconde in seno quella che il commercio senza protezioni, il “libero commercio” (sul quale abbiamo letto la posizione di Engels nel 1888), sia in sè portatore di pace e relazioni armoniche. Invece per l’autore, ma evidentemente anche per il “generale” (come era soprannominato Engels), nel mercato mondiale si svolgono sempre scontri egemonici: il libero commercio è intrecciato con i poteri imperiali, politici e militari (all’epoca inglesi) e con la competizione, non meno del protezionismo. Ma per Russo la particolarità contemporanea è che questa costante competizione, nelle attuali condizioni, avviene tra “grandi spazi economico-politici”. Ne segue, logicamente ma non in via espressa, dato che l’articolo di Franco Russo non ha una vera e propria conclusione, che l’Italia comunque non potrebbe esimersi da partecipare al vicino “grande spazio” europeo a trazione franco-tedesca, anche se ne trae pochi vantaggi e notevole subalternità. L’esponente di Rifondazione Comunista sembra dire che siamo in qualche modo in trappola.

Si tratta di uno snodo cruciale, che infatti, sarà espressamente attaccato da Porcaro il quale, in effetti, mutando le condizioni, compie una mossa più vicina a quella del “generale”: la globalizzazione e gli scontri intercapitale che ne comportano, come anche la hybis imperiale che gli è connaturata, non riguarda i lavoratori; l’unica cosa che conta è cosa aiuta ad organizzarli. Dal punto di osservazione del 1888 se ne ricavava l’espansione della capacità produttiva e dei mercati di sbocco che avrebbe contribuito indirettamente ad aumentare il saggio di sfruttamento in Inghilterra e con ciò accelerato l’inevitabile rivoluzione; per l’imprenditore manchesteriano convertito alla rivoluzione questa era quindi la ragione per accettare “in ultima istanza” il “libero commercio”. Per Porcaro la ragione di una scelta opposta è ora la possibile creazione di alleanze internazionali tra paesi disobbedienti (una sorta di versione XXI secolo della strategia dei “non allineati” durante la guerra fredda), che quindi in primo luogo devono recuperare la propria autonomia, facendo leva sull’orgoglio popolare.

Insomma, per dirla con il vecchio linguaggio: all’industrialismo ed al macchinismo manchesteriano (rovesciato da Engels) si oppone la lotta antimperialista e anticoloniale (che pure fu frequentata e rivalutata nell’ultima riflessione dei due filosofi).

Di seguito, nello sviluppare il suo argomento, Russo evoca un autore di chiarissima marca liberista come Richard Baldwin, autore di un libro recente sulla “terza globalizzazione” (“La grande convergenza”), e lo fa per sostenere che questa mondializzazione è diversa da quella di Engels. Secondo il nostro, Baldwin sostiene che mentre la vecchia riguardava “prodotti finiti che attraversavano i confini” (in realtà era uno scambio dominato politicamente, finanziariamente e militarmente tra paesi produttori di materie prime, come l’India, e i paesi industriali, in cui i primi cedevano ob torto collo le loro risorse e compravano i prodotti finiti di ritorno, spesso grazie al credito), questa “non è semplicemente un settore ad essere sfidato dalla concorrenza straniera, ma è una singola fase della produzione, che infatti viene spostata all’estero. A varcare i confini è il know how non il prodotto”. Questa in parte oscura frase in realtà poggia originariamente sulla filosofia della storia dell’economista inglese, che nel suo libro attribuisce alla tecnologia la qualità di essere motore di un progresso inarrestabile tramite processi di “unbuilding” aventi carattere intrinsecamente progressista. La globalizzazione in corso per Baldwin è infatti guidata dalla tecnologia dell’informazione, per cui si può produrre in un luogo e controllare da un altro, ma nel farlo trasferisce anche know how. La “terza” invece sarà guidata da una più pronunciata individualizzazione e messa in contatto che obbliga a maggiore flessibilità, creando il lavoro come merce indefinitamente scambiabile senza attrito, potenziando il controllo a distanza sia di uomini da parte di macchine, sia di macchine da parte di uomini, rendendo alla fine non necessaria la presenza fisica, ma indispensabile la mediazione dell’infrastruttura del capitale e delle “piattaforme” di scambio. Avremo alla fine una società del tutto priva di classe media (e qui sorge la possibilità di una controalleanza egemonica per Porcaro) e fatta da una parte di rentier ed ereditieri, in possesso delle macchine, delle piattaforme e delle infrastrutture di comunicazione, dall’altra ‘contenitori di lavoro’ (astratto) del tutto interscambiabili.

Riportando attraverso una recente conferenza la proposta di questo autore (che non ricostruisce nella sua interezza), Russo ricorda che per Baldwin se Trump alza le barriere tariffarie (come probabilmente vedremo tra breve) rende con ciò anche e soprattutto più costose le merci americane prodotte all’estero dalle stesse multinazionali a stelle e strisce. La risposta dovrebbe essere quindi di dividere nuovamente le produzioni, costruendo in patria per il mercato interno e in Cina per quello cinese (o in Europa per quello europeo, se questa ne seguisse l’esempio).

Non è chiaro, e l’autore non lo chiarisce, passando subito ad altro, in che modo questo sarebbe un male (dal punto di Baldwin non è necessario farlo perché, seguendo un’antica tradizione, consolidata dai dibattiti tra Ricardo e Malthus, per lui l’interconnessione è bene in sé). Leggeremo un altro autore liberale, Mevyn King, che guardando la cosa con occhi agli squilibri finanziari introduce qualche indizio che può portare ad avere un’altra opinione.

Ma di seguito viene anche presentata una ragione pragmatica, di completamente altro tenore: è difficile in pratica ottenere questo risultato, data l’estensione e la complessità delle reti logistiche e di produzione delle aziende globali (responsabili di due terzi dei flussi di merci a lunga percorrenza mondiali). A questa obiezione pratica si può rispondere che non c’è dubbio: la regolazione è sempre difficile, ed è un esercizio continuo di prova ed errore; la mancanza di regolazione è più facile, basta lasciare che le cose vadano (anche se ne burrone). Dal 2008, del resto, in particolare USA e Cina hanno messo mano a 3.500 misure protezionistiche nuove.

Quindi, anche se Trump ha annunciato un programma di “acceso protezionismo”, per Russo avrà difficoltà ad eseguirlo per effetto dello “Stato profondo”, ovvero della voce del capitalismo americano e delle sue istituzioni. Inoltre avrà difficoltà a evitare le regole imposta dal WTO, al quale “tutti devono sottostare”.

Una delle cose più singolari del pezzo di Russo è quando cita l’intervista del 4 maggio a “The Economist” (che avevamo letto qui), traendone la conclusione che in essa Trump abbia fatto un passo indietro sull’abolizione del Nafta. In effetti dalla lettura del testo non risulta affatto ciò, anzi Trump ribadisce con decisione la volontà di riportare in equilibrio gli scambi con Messico e Canada, ma di aver avviato le procedure (della cui lentezza si lamenta contestualmente). In altre parole se “dà” sei mesi è perché così dice il Trattato. Gli USA, racconta il Presidente in tale occasione, hanno peraltro ben 70 miliardi di deficit commerciale con il Messico, che vanno “portati a zero” (complessivamente hanno 650 miliardi di deficit su 2.000 miliardi di importazioni). Nella stessa intervista (famosa per l’annuncio di “attivare la pompa” keynesiana) annuncia dazi fino al 35% sulle merci in arrivo. Indiscrezioni direbbero che sono in emanazione dazi medi del 20% verso la Cina (104 Mld di esportazioni da USA e 450 Mld di importazioni) che potrebbe fruttare fino a 90 Mld all’anno di tassazione al governo Federale (il gettito federale è circa il 15% del Pil, quindi al 2015 è stimabile in 2.500 mld).

Ci sono anche altre considerazioni in favore della tesi che la globalizzazione non sia terminata, ad esempio il fatto che il 12 maggio sia stato siglato un accordo commerciale in dieci punti, su base bilaterale con la Cina, ma non si comprende bene come questo episodio (in perfetta linea con l’annunciata politica di avviare scambi bilaterali simmetrici) sia un segno di favor verso il “libero commercio” (che Trump a parole accetta, a patto di cambiare il senso delle parole). D’altra parte in questo momento un cacciatorpediniere americano sta andando a sfidare le isole galleggianti e nell’ultima riunione di gabinetto sarebbero stati decisi dazi. Insomma, gli episodi sono molti e non vanno tutti nella stessa direzione, se non sono letti con le giuste lenti.

Certo, gli USA non si isolano dal mondo, né in alcun modo potrebbero. Una “Nato araba” non cambia la politica americana, ma al contrario implementa esattamente quella logica di controllo indiretto, restrizione dei costi di protezione, riaffermazione della priorità dell’interesse nazionale, che sembra di vedere in Trump (e di cui abbiamo fatto cenno in “La grande partita”). La priorità all’interesse nazionale significa anche evitare il saldarsi della Cina con la Russia, e di entrambe con l’Europa (si può leggere Nye su questo), e i Trattati commerciali erano a ciò preordinati (il TTP contro la Cina e il TTIP contro la Russia, non a caso con molti dubbi tedeschi). Insomma, la “cool war” è certamente in corso.

Non è del resto molto chiaro chi, a parte qualche giornalista particolarmente naif, può aver mai pensato che gli Stati Uniti potessero, o volessero, isolarsi dal mondo tornando all’inizio del 1800, quando avevano scelto di crescere all’ombra senza sfidare l’allora egemone impero inglese. Al contrario è del tutto evidente che se anche la tattica dovesse spingere verso una riconfigurazione dei rapporti mondiali, commerciali e politici, sarebbe sempre per difendere e non per abbandonare l’ambizione egemonica (messa in crisi proprio dalla mondializzazione e dall’immane deficit commerciale che porta con sé).

Né si comprende in che senso il fatto, questo sì, che la Cina difenda la globalizzazione (dato il suo squilibrio commerciale e dipendenza dai capitali esteri, oltre che dalla tenuta del valore delle sue ingenti riserve) e, d’altra parte, promuova una linea logistica proprietaria e controllata come la “via della seta” (che al più manifesta la volontà di crearsi una sua rete imperiale) sia un argomento in favore della permanenza dell’assetto di squilibri e sfruttamenti nel quale siamo vissuti all’ombra calante del potere americano negli ultimi trenta anni. La cosa si può leggere in modo diverso, come aurora di una fase di multilateralismo, nel quale potrà esserci un’unica mondializzazione solo se il potere del capitale e della tecnica prevarrà su quello territoriale, liquidando tra le altre cose anche la democrazia. Leggeremo Parag Khanna che enfatizza con passione il valore di tali investimenti, sottotraccia in chiave antiamericana ed accettando questa conclusione (scrivendo, non a caso, lui che è indiano ed è cresciuto negli emirati, da Singapore).

Sulla base di questi discutibili esempi, per lo più leggibili in chiave opposta, la conclusione di Russo è che “la globalizzazione lungi dall’approssimarsi alla sua fine, diviene sempre di più il terreno di un’aspra competizione economica innanzitutto, che può tuttavia giungere al confronto militare come nei mari asiatici, e in guerra come nel caso del Medio Oriente. La globalizzazione non ha istituito spazi aperti per il libero e pacifico commercio, sono spazi in cui si svolgono competizioni economiche e conflitti politici, e quando necessari militari. Per essere attori sulla scena globale occorrono sistemi capitalistici che dominino grandi spazi – USA, Cina, UE – o siano in possesso di potenti apparati militari come la Russia”.

Ecco dunque il classico argomento in favore della logica imperiale del progetto Europeo: servono grandi poteri nazionali, per “essere attori”, ovvero per partecipare alla competizione capitalistica mondiale, eventualmente militare, sempre politica.

In sostanza secondo questa visione si confrontano quattro nazionalismi: quello USA, quello Cinese, Russo e quello Europeo. Tra questi quattro si gioca la partita del dominio del mondo.

Ma c’è un aspetto da considerare: come diceva il vecchio Engels, “la questione del libero scambio e del protezionismo su muove interamente entro i confini del sistema attuale della produzione capitalista e non ha, perciò, alcun interesse diretto per i socialisti, i quali chiedono l’abolizione di tale sistema”.

Secondo il giudizio di Porcaro: “In realtà nel testo che esamino si insiste nel dire che il severo confronto tra entità politiche capitalistiche non è tanto un confronto fra Stati, quanto fra ‘grandi spazi’ (ed è chiaro che qui si suggerisce, per contrasto, che essendo l’Italia per definizione un ‘piccolo spazio’ ogni progetto di autonomia nazionale le è precluso). Va però detto che questi ‘grandi spazi’ sono tutti spazi statuali, dotati per di più di una spiccata identità nazionale: Usa, Russia, Cina, ecc. . La stessa Unione europea, se vuole contare qualcosa, deve presentarsi come vero e proprio stato unitario ed inventarsi una qualche ‘identità nazional-continentale’. E se non dovesse riuscire a farlo ciò avverrebbe a causa dell’incapacità di una determinata nazione ad esercitare la necessaria egemonia. Insomma: nation matters, lo dice anche il meno nazionalista tra noi”.

Concordo con questo giudizio, trovo paradossale che quando un internazionalista anti-statalista si rivolge a fare il cinico (o il “realista”, nel gergo geopolitico) finisca per ritornare all’inevitabilità della politica di potenza statuale. Ovvero all’inevitabilità della logica imperialista, sia pure attribuendola all’Europa.

È abbastanza facile, quindi, per Porcaro ricordare che su questo piano, entro i confini della produzione capitalista attuale, un paese che si staccasse dalla Unione Europea a guida tedesca, avrebbe solo da scegliere un altro protettore (ovviamente, nell’attuale quadro di scontro egemonico USA vs Germania e vs Cina, sarebbero gli americani). Parlano in questa direzione proprio le caratteristiche dematerializzate della piattaforma produttiva del nuovo capitalismo (di cui Baldwin nella seconda parte del suo libro), che rendono la vicinanza geografica meno pressante. Anche se “la questione delle dimensioni ha il suo peso”, in altre parole, ciò non implica che il vicino debba stare con il vicino.

Ha buon gioco, nel seguito, Porcaro a ricordare che l’interconnessione non implica il destino di essere irreversibile e progressiva (che le due guerre mondiali sono lì a dimostrarlo), e che anche l’esternalizzazione delle catene produttive non è, secondo il desiderio di Baldwin, irreversibile; tanto che non sono affatto infrequenti i fenomeni di reshoring (alcuni sotto pressione politica, ma altri spontanei per lo spostamento dei punti di convenienza industriali).

La questione, insomma, non si risolve facilmente moltiplicando dubbi esempi, ma richiede una teoria. Engels scelse ai suoi tempi il “libero mercato” sulla base di una potente euristica, da più parti e versi oggi problematica: l’inevitabile vittoria proletaria all’estendersi della forza del capitalismo, per effetto della meccanica del sistema di produzione industriale. Porcaro invece propone di guardare allo schema di Arrighi (che abbia visto in “Il lungo XX secolo” e in “Caos e governo del mondo”) che vede fasi di “finanziarizzazione” seguire ed essere precedute da fasi di espansione della logica “territoriale”. Da questa ottica (che fa leva sul concetto di “ciclo egemonico”) la globalizzazione è un sintomo di un esaurimento di un ciclo di accumulazione e sta producendo le contraddizioni che riportano (ancora per una sovraccumulazione, ma questa volta di capitale liquido, come a suo modo riconosce anche Mervyn King) al protagonismo statuale. In particolare emerge la contraddizione tra Stati specializzati nella creazione di crediti esteri (la Germania e la Cina in primis) e in deficit commerciale e debitorio (gli stessi USA, che ribilanciano con il potere di controllo della moneta fino a che dura, e i paesi del sud Europa, privi di moneta). Con le parole di Porcaro: “a mio avviso sono questi gli elementi macroeconomici e geopolitici che devono essere soprattutto considerati quando si valuta il rapporto tra regolazione ‘economico-politica’ (quella della c.d. globalizzazione) e regolazione ‘politico-economica’ (quella verso cui tendiamo oggi). Se è vero che oggi la forma dominante del capitale è quella bancario-finanziaria e che la sopravvivenza di questa (in costante minaccia di crisi di solvibilità) in ultima istanza dipende direttamente dalle decisioni politiche degli Stati, ne discende che è l’intreccio tra Stato e capitale finanziario a dettare la musica, ben più delle dinamiche capitale-merce e del capitale produttivo. Ed in particolare sono soprattutto i rapporti credito/debito a dettare, a volte esplicitamente, a volte sottotraccia, la trama delle relazioni attuali. Da qui nascono le diverse guerre valutarie. Da qui l’ostilità strutturale degli Usa contro la Cina. Da qui il conflitto latente Usa/Germania, da qui le difficoltà dei Brics, da qui la gracilità dell’Unione europea, ecc. .”

Come cade tutto questo discorso, nel quale a mio parere ha del tutto ragione Mimmo Porcaro, sulla vicenda dell’Unione Europea?

Per Russo la Ue e le sue oligarchie si sono ormai liberate dal dominio USA, e da “alcuni decenni”, operano in chiave controegemonica. Addirittura dalla rottura di Nixon nel 1971, quindi dal Serpente Monetario, poi dallo Sme e quindi dall’Euro, tutte operazioni costruite non solo per difendersi dalla volatilità, ma proprio contro il dollaro. E in questa fase cercando di produrre una capacità di difesa in proprio (operazione appena avviata e del tutto da vedere, per la verità), inevitabile perché “la UE non può sottrarsi a questi compiti militari se vuole competere sull’arena globale”.

Viene citato il “Libro bianco sul futuro dell’Europa” del marzo 2017, nel quale il progetto imperiale europeo è annunciato senza alcun infingimento. L’autore ricorda il poco specifico riferimento al peso demografico proporzionalmente calante come ragione per abbandonare “l’ingenuo” affidamento sul “soft power” in vista di una capacità militare in grado di difendere “un commercio libero e sempre più aperto” e di “orientale la globalizzazione in modo che sia vantaggiosa per tutti”. Insomma, dobbiamo armarci per fare gli interessi di coloro che bombarderemo, una classica affermazione imperialista in chiave dell’universalismo europeo.

Stupisce che una frase così grondante non sia riportata con qualche avvertenza di lettura. Ma forse è ancora il potere dell’internazionalismo nella linea fossile della vecchia filosofia della storia, progressista ed industrialista al contempo, del “generale” (ma in lui comunque ben più complessa a ancora più nel suo vecchio amico).

Quel che mi pare si possa dire da questo discorso, è l’argomento che la globalizzazione non finirà perché due attori preminenti (Europa e Cina) vogliono dominarla è curioso a ben vedere. Se due Stati imperiali (il primo ancora da fare) intendono proiettare potenza (il primo, che non è Stato anche militare, il secondo, che lo è, solo economica) per costruire una globalizzazione nell’interesse “di tutti” non per questo se ne può trarre che questa sopravvivrà alle tensioni degli Stati. Ovvero allo scontro degli opposti imperialismi.

Qualsiasi, anche rapida lettura dell’immensa letteratura geopolitica mostrerebbe che queste tensioni a riscrivere le regole pro-domo propria (dal tempo del “generale”, che però non ci credeva, sempre affermando che è “per tutti”) sono proprio il motore della propensione a far esplodere l’egemonia in un multilateralismo foriero di grandi rischi.

In sostanza si può dire, correndo il rischio della semplificazione, che la globalizzazione è sinonimo di ordine mondiale, e questo di egemonia di un principio di ordine gerarchicamente sovraordinato agli altri. O questo è statuale (e abbiamo avuto le mondializzazioni commerciali delle repubbliche marinare italiane, intrecciate al capitale finanziario e industriale toscano e milanese; poi quella spagnola e genovese; quindi quella olandese e poi industriale inglese; infine quella americana) o è un ordine economico dettato dal capitale (e abbiamo l’ultima fase dagli anni novanta ad oggi, sempre più turbolenta, segnata dalla battuta attribuita a Clinton che ad un giornalista che gli chiedeva come ci si sentiva ad essere l’uomo più potente del mondo rispose di chiederlo alla moglie del Presidente della Fed che lo aveva sposato), come espressamente propongono dia Baldwin sia Khanna.

Certo, di seguito Russo ricorda a più riprese il “cinismo” delle élite europee, che declinano questa logica di potenza competitiva in direzione della necessità di indebolire il lavoro, renderlo ancora più flessibile, e smontare i sistemi di welfare universalisti. È questa la “terza mondializzazione” di cui parla Baldwin nel suo libro, l’era del dominio astratto ed impersonale del sistema automatico del capitale e della sua tecnica e di disattivazione della democrazia. Come dice giustamente Russo: “al lavoratore impaurito e indebitato della Grande Recessione segue il lavoratore colpevolizzato in quanto unico responsabile della sua disoccupazione, precarietà, povertà”.

Dunque, in sostanza, grazie anche ad un interessante richiamo di dichiarazioni di vari attori europei, da Mario Draghi (con la sua teoria della post-democrazia continuamente reiterata), a Merkel (con il suo muscolare esibizionismo antiamericano a difesa del sistema finanziario-industriale suo mandante), l’Unione Europea fa secondo Russo ormai “sul serio” nel contrapporsi alla declinante egemonia americana.

Porcaro la deve diversamente: il segno di debolezza non è, come pensano le élite europee nel tentativo di riaddomesticare la globalizzazione, riportandola nei confini di una logica statuale, ma è in queste reazioni muscolari europee, mentre nessuno dei problemi strutturali viene risolto, non la debolezza bancaria, non gli scontri latenti tra Francia e Germania, non il “regolamento dei conti” con il Sud Europa. Ma certo questa debolezza mostra anche una volontà del capitale europeo, in tutte le sue frazioni, di fare quadrato.

La conclusione di Mimmo Porcaro è politica. Secondo lui “da quanto sopra discende che la questione della nazione non è questione immediatamente interclassista, che noi dobbiamo obtorto collo fare nostra, ma è oggi questione immediatamente classista (della nostra classe) che noi dobbiamo imporre alle classi esitanti”.

Infatti le tensioni che si accumulano inevitabilmente, sotto la doppia catena del debito e della moneta (che impone alle strutture economiche e sociali delle periferie interne della UE, in perfetta logica imperiale, di conservare a qualunque costo un avanzo per ripagare il debito che la dinamica degli squilibri commerciali cresciuti e alimentati dalla rigidità della moneta, crea), sono ormai tenute fuori della scena decisionale solo grazie al meccanismo maggioritario, nel quale una piccola minoranza può eleggere Macron, se le maggioranze si frammentano e scoraggiano. Questa è la ragione che impedisce la formazione di “un soggetto popolare capace di rompere il gioco”.

L’ipotesi di Porcaro, come è noto, è dunque che “la fine (assai probabile anche in Italia) del primo ciclo del populismo antiunionista di destra (fine che non avverrà senza sussulti e ripensamenti e che non esclude un secondo ciclo, magari assai più pericoloso) e la contemporanea crisi verticale del socialismo europeo, aprono lo spazio non già per una forza ‘di sinistra’, ma per una forza democratico-costituzionale che sappia unire tutti i lavoratori, anche facendo appello ad un semplice e sobrio (ma potenzialmente dirompente) sentimento di appartenenza nazionale, inteso come richiamo alle lotte popolari che hanno prodotto, difeso e tentato di attuare la nostra Costituzione”. Una sorta di “patriottismo costituzionale” di nuovo conio, insomma (si può leggere anche questo testo di Mac Intyre).

Insomma, la strada è di unificare chi viene danneggiato inesorabilmente da questa dinamica degli opposti imperialismi, travestita come sempre da internazionalismo e universalismo, e dalla gerarchia degli interessi che implica necessariamente, intorno ad un progetto nazionale in forma “populista”.

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