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aprileonline

Lehman ovvero il collasso del parassita

Domenico Moro

L'economia Usa sta rivelando con le crepe sempre più vistose che appaiono in superficie la fragilità di fondo che la caratterizza da tempo. Quella di una economia e di un paese che hanno vissuto fino ad ora a credito sulle spalle del mondo intero

Come quasi sempre accade, quasi tutti i quotidiani, compresi quelli economici, fino a qualche giorno fa erano pronti a scambiare un timido raggio di sole per la fine della tempesta. La stessa Marcegaglia preconizzava in una intervista sul Corriere una imminente ripresa Usa sulla base di una più che precaria rivalutazione del dollaro sulle altre valute. La realtà si è premurata di smentire i facili ottimismi e di ricordarci che la crisi dei mutui non è terminata, e che anzi i suoi effetti si fanno più manifesti. Del resto, si sapeva benissimo che la crisi immobiliare aveva tramutato le cartolarizzazioni dei mutui in carta straccia e, anche se l'entità delle perdite subite da tutto il sistema bancario Usa(e non solo) era incerta, si era però certi che fosse enorme. Infatti, da diversi mesi, mano a mano che le perdite emergevano, è iniziato uno stillicidio di fallimenti bancari che, evidentemente, costituivano solo l'avanguardia che quello che sta accadendo ora.

Subito dopo il salvataggio dei due istituti di assicurazione dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac, che a detta di molti avrebbe dovuto salvare il sistema finanziario Usa, si è avuto il fallimento di una della quattro principali banche d'affari Usa, Lehman Brothers, che martedì aveva perso il 45% del valore delle sue azioni, denunciando perdite per un valore di 15 miliardi di dollari a causa della crisi dei mutui. Contemporaneamente, Merrill Lynch, un altro storico colosso di Wall Street, è sparito, travolto dalle perdite ed assorbito da Bank of America. Ma non basta, Aig, il colosso statunitense delle assicurazioni, è in grave crisi di liquidità ed è arrivato a perdere ieri il 60%. Dopo aver richiesto a lungo un'àncora di salvataggio alla Banca centrale Usa (Fed), finalmente ha ottenuto una linea di finanziamento di 25 miliardi dal governatore dello Stato di New York e, soprattutto, 75 miliardi da una cordata di salvataggio composta da alcune banche sollecitate dalla stessa Fed.

Le conseguenze del crollo di Lehman sono state pesanti, con i mercati mondiali strascinati al ribasso. A Wall street sono stati bruciati 700 miliardi di dollari di capitalizzazione, mentre in Europa se ne sono persi 125. Un segnale particolarmente inquietante è quello proveniente dalla Cina, dove per la prima volta da sei anni il costo del denaro è stato tagliato dello 0,27% al 7,20%, segno che alla preoccupazione dell'inflazione si sta sostituendo quella del rallentamento economico, dovuto al crollo della Borsa cinese, che dall'ottobre scorso ha perso il 65% e al cedimento del mercato immobiliare. Ma la preoccupazione maggiore sta nel rallentamento delle importazioni dagli Usa, proprio a causa della difficoltà di questi ultimi a mantenere l'elevato livello di spesa per il crollo del mercato immobiliare e dei muti che permetteva di finanziare l'indebitamento delle famiglie.

Le esportazioni in Usa rappresentano, infatti, una quota importante del Pil cinese e la crisi Usa (ricordiamo fra l'altro il calo in agosto della produzione industriale dell'1,1%), non può non avere contraccolpi anche nella "fabbrica del mondo" cinese.

Di fronte a questa situazione Bush e Paulson, il ministro del Tesoro, continuano a sostenere imperterriti che l'economia americana è robusta e sosterrà l'impatto. Fanno il loro mestiere. Ma la realtà è diversa. L'economia Usa sta rivelando con le crepe sempre più vistose che appaiono in superficie la fragilità di fondo che la caratterizza da tempo. Quella di una economia e di un paese che hanno vissuto fino ad ora a credito sulle spalle del mondo intero. Gli Usa hanno un enorme debito delle famiglie, delle imprese, e soprattutto del commercio estero, che è in assoluto il più grande del mondo.
Se gli Usa sono riusciti a reggere è stato solo perché hanno ricevuto continue immissioni di liquidità dall'estero, soprattutto da parte di paesi come la Cina che reinvestono i loro forti surplus commerciali in obbligazioni sui mutui e specialmente in buoni del Tesoro Usa. Ultimamente, però, proprio per l'evolversi della crisi dei mutui si sono avuti segnali di ritiro da parte di alcune banche cinesi dalle obbligazioni di Fannie Mae e Freddie Mac, il cui compito era proprio quello di assicurare i mutui e rivendere le cartolarizzazioni soprattutto all'estero. La Cina dovrebbe detenere circa il 30% delle obbligazioni dei due istituti, seguita dal Giappone con una quota di poco inferiore.

E' proprio per poter garantire questo meccanismo di finanziamento che il governo ha nazionalizzato i due istituti. L'operazione del governo protegge, infatti, le obbligazioni, che sono in mano ad investitori esteri, mentre penalizza le azioni ordinarie e privilegiate, in mano a banche Usa ed in parte europee, che invece, dopo il salvataggio, sono diventate carta straccia, aggravando le perdite bancarie.

Esiste, però, un risvolto della medaglia. Neanche Paulson è a conoscenza di quanto costerà allo Stato (al contribuente) la socializzazione delle perdite di Fannie e Freddie. Si parla di cifre iniziali enormi, tra i 200 ed i 500 miliardi di dollari. Inoltre Bernanke, presidente della Fed, ha iniettato nel sistema bancario, dopo il crack di Lehman, riserve per 70 miliardi dollari, il maggior intervento dal settembre 2001, seguito dalla Banca centrale europea con 30 miliardi di euro (ne erano stati richiesti dalle banche 90). La Fed, poi, ha deciso di accettare come garanzia dei prestiti d'emergenza anche azioni, scambiando titoli a rischio con buoni del tesoro, cioè con asset sicuri. Del resto, secondo un'altra fonte, in un anno la Fed ha ridotto all'interno dei suoi asset la quota di buoni del tesoro dal 91% al 53%, peggiorando così la qualità del suo credito.

La questione principale è però il rigonfiamento abnorme del debito pubblico (già sollecitato dalle ingenti spese militari) il cui peso viene ad aggiungersi a quello del debito del commercio estero, rendendo ancora maggiore la necessità di finanziamento dall'estero e il collocamento di buoni del Tesoro. A questo proposito sorge, però, una difficoltà. Infatti, il prezzo dei credit default swaps, cioè in parole semplici dell'assicurazione all'insolvenza del debito Usa, è cresciuto, subito dopo la nazionalizzazione di Fannie e Freddie, di 17.5 punti base. Ciò significa che, a giudizio del mercato finanziario, il pericolo di insolvenza del debito del governo Usa è più alto di quello della maggior parte dei paesi industrializzati. Ora, visto anche che ad acquistare i buoni del Tesoro Usa nelle ultime aste sono rimaste quasi solo le Banche centrali, c'è la possibilità concreta che, a causa dell'accrescimento del rischio di insolvenza, queste decidano di uscire dai titoli di Stato Usa per rifugiarsi magari verso i bond tedeschi. Nel frattempo il dollaro, confermando di essere stato sostanzialmente sopravvalutato, è, a seguito del crack di Lehman, di nuovo crollato soprattutto rispetto allo yen giapponese ed al franco svizzero.

In sintesi l'economia Usa è tutt'altro che solida e il tentativo di puntellare l'edificio che crolla rischia di creare altre difficoltà, senza neanche tentare di risolvere quello squilibrio nel credito mondiale che è la vera ragione di quanto accade oggi. Inoltre, le ripercussioni a livello mondiale di quanto accade in quello che continua a rimanere il centro finanziario mondiale, nonostante la sua evidente decadenza economica e monetaria, saranno sicuramente rilevanti.

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