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 nel merito

Anatomia della crisi I

Dalle cartolarizzazioni ai toxic assets

di Emilio Barucci    

La drammatica crisi del sistema finanziario sta suscitando molte considerazioni sulle colpe del libero mercato e i benefici della regolamentazione. Tuttavia se si cerca di analizzare, fuori da ogni ideologia, quanto è successo negli ultimi anni, le conclusioni appaiono meno ovvie. Tutti riconoscono che all’origine della crisi ci sia l’introduzione su scala macroscopica di derivati di credito quali i famigerati CDO nell’ambito della "securitization" ovvero la prassi di accorpare, impacchettare e rivendere agli investitori rischi finanziari di vario tipi, e in particolare il rischio mutui.

Questa idea non è nata a fini speculativi. Il suo primo motore è stata la reazione all’introduzione di una più stretta regolamentazione per le banche. Nell’analisi dell’origine di questo mercato fatta da Moody’s ben prima dell’inizio della crisi (Debuysscher, 2005), leggiamo che fondamentale per la nascita della securitization e in generale della finanza strutturata fu l’accordo di Basilea del 1988. In questo accordo, i regulators introdussero norme più rigide per garantire maggiore stabilità del sistema bancario, tra cui la norma secondo cui per un miliardo di euro investiti da una banca in un’attività rischiosa, ad esempio mutui, le banche dovessero mettere da parte in forma di capitale una frazione del miliardo, in cui la frazione era specifica per l’attività "mutui". Come può una norma così ragionevole essere la causa di una prassi che ha portato alla maggiore crisi del sistema bancario dal 1929?

 

La norma venne considerata dalla maggioranza delle banche troppo rigida, in particolare per il fatto di non fare distinzione tra mutui buoni e mutui cattivi. Per guadagnare maggior flessibilità pur nel rispetto delle regole, inventarono la securitization. Nell’esempio più classico, un portafoglio di mutui viene diviso in differenti prodotti finanziari, tranches, caratterizzati da rischi differenti. La prima tranche è un prodotto destinato a coloro che si impegnano a coprire il primo 10% delle perdite sul miliardo di mutui. Un prodotto molto rischioso, con un valore nominale di 100 milioni e destinato a perdere tutto non nel caso di fallimento di tutti i mutuatari (come era per il portafoglio iniziale), ma già al fallimento di uno su dieci tra i mutuatari. La seconda tranche si riferisce invece alle perdite dal 10% al 20%, e così via salendo fino a tranches che non subiscono perdite nemmeno in caso di fallimento di metà dei mutuatari. Le tranches più alte sono state percepite dagli investitori come sicure, di modo che la banca poteva venderle facilmente pur garantendo un basso interesse come remunerazione del rischio insito nel prodotto. L’unica difficile da vendere era la prima tranche, che infatti la banca si teneva. Tutto il resto del portafoglio era stato invece esternalizzato senza aver dovuto rinunciare a granchè degli interessi sui mutui. D’altronde, la prima tranche che la banca si è tenuta contiene ancora la gran parte del rischio. Dal punto di vista reale non è cambiato molto per la banca.

Allora perché questa crisi? Perché la prima tranche, per quanto sopporti perdite che si riferiscono a un miliardo di mutui, ha un valore nominale di 100 milioni e dunque, secondo le nuove regole, conta per solo 100 milioni investiti in mutui. Poco importa che siano di fatto tutti mutui ‘‘cattivi’’ (i primi a fallire). Dunque, prima di raggiungere un ammontare di investimento in mutui formalmente pari al miliardo iniziale, la banca può ripetere questa operazione dieci volte fino ad arrivare ad avere un’esposizione sostanziale su dieci miliardi di mutui. E questo cambia, e di molto, la solidità della banca e anche la qualità degli agenti a cui i mutui vengono concessi: facendo l’operazione dieci volte la banca non solo assume più rischi sotto il profilo della quantità, anche la qualità degli assets nel suo bilancio è significativamente peggiore.

Alla fine le nuove norme hanno creato un incentivo per molte banche, soprattutto negli Stati Uniti ed in Inghilterra, ad aumentare enormemente, invece che a ridurre, la loro leva e la massa di credito. Questo spiega perché sono bastate poche notizie negative sul mercato immobiliare, nel Luglio 2007, per gettare nel panico il sistema e spiega le pesanti perdite nei bilanci delle banche.

E’ stato un fallimento del mercato o dei regulators?

Il mercato ha fallito di sicuro: troppe banche si sono entusiasmate per l’astuto meccanismo e l’hanno applicato su larghissima scala. Era chiaro che un simile sistema sarebbe funzionato solo se il mercato immobiliare continuava a crescere.

Perché il mercato ha sottovalutato il rischio enorme insito in una simile scommessa? Un primo punto da ricordare è che il mercato di cui parliamo non è il mercato dei libri di scuola, dove chi prende le decisioni è sempre chi rischia il capitale. Se le remunerazioni di chi prende le decisioni si basano sui risultati di breve termine senza grosse conseguenze in caso di completo fallimento nel giro di qualche anno, è probabile che questo rischio venga sottovalutato dagli operatori di mercato meno illuminati. Ma è importante notare che i regulators hanno dato proprio a loro una grossa mano tramite norme che permettono alle banche di mettere in piedi un sistema di leva come quello descritto e nel frattempo presentarsi agli investitori e agli azionisti come perfettamente in regola. Queste regole hanno rappresentato un tremendo incentivo a sottovalutare i rischi, una forte deresponsabilizzazione nell’analisi del merito creditizio, e uno scudo per gli operatori più imprudenti.

Perché i regulators non sono corsi al riparo quando la situazione è divenuta chiara a tutti? Anche i regulators sono preda spesso di posizioni ideologiche che si prestano ad essere smentite. Non mancò chi benedì la securitization come uno straordinario strumento per estendere la disponibilità di credito anche agli strati più disagiati della popolazione (alcuni commenti nella biografia del venerato Chairman della Fed Alan Greenspan, appaiono disarmanti se letti con il senno di poi). Senza contare che nel 2005 i regulators corsero effettivamente ai ripari, cambiando le precedenti regole e facendo dipendere i coefficienti di capitalizzazione dal rating, un’idea apparentemente brillante che avrebbe dovuto far emergere l’effettivo rischio di ciascuna tranche. Ma per varie ragioni il rimedio non funzionò. In parte perché il danno era già fatto. In secondo luogo, il conflitto di interessi si spostò sulle agenzie di rating, che sotto forti pressioni economiche produssero rating di straordinario ottimismo, si veda Barucci, Morini Derivati ed agenzie di rating: surfando sul rischio di credito (DERIVATI E AGENZIE DI RATING: SURFANDO SUL RISCHIO DI CREDITO). Inoltre le banche reagirono alle nuove regole ricomprandosi anche tranches più elevate dei loro portafogli mutui (o dei portafogli di altre banche), finendo comunque per aumentare la loro esposizione al rischio di una crisi globale di tutto questo sistema finanziario-immobiliare. Una crisi globale che è stata sicuramente favorita dall’espansione del credito, una crisi in cui tutti questi asset legati al sistema della securitization rischiavano comunque, indipendentemente dal rating, di valere ben poco, e dunque di non poter neppure essere venduti per ottenere liquidità e pagare le perdite.

In sintesi. Una regolamentazione realmente intelligente, capace di verificare con tempismo i comportamenti dei controllati, come nei migliori sogni dei "regolamentatori", avrebbe sicuramente evitato questa crisi. D’altro canto, un mercato efficiente, capace di ragionare anche sul lungo periodo, non drogato da troppa separazione tra decisioni e rischi, come nei migliori sogni dei "mercatisti", pure sarebbe stato bene alla larga da questa crisi indipendentemente dai regulators. Purtroppo non abbiamo avuto né una né l’altro, ed ora cercare di mettere un’etichetta ideologica sulla crisi non sembra aiutarci ad individuare gli interventi necessari per rimettere in sesto il mercato finanziario.

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