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Sono farmaci e non vaccini. Lo studio che lo prova
Valentina Bennati intervista Marco Cosentino
Quelli che tutti chiamano "Vaccini anti-Covid" in realtà sono farmaci (cosa che ha implicazioni farmacologiche, cliniche, giuridiche e regolatorie ben precise). Intervista a Marco Cosentino, medico e professore di Farmacologia all'Università degli Studi dell'Insubria e direttore del Centro di Ricerca in Farmacologia Medica della stessa Università
Correva la fine dell’anno 2020 quando i farmaci prodotti contro il temuto SARS-CoV-2, indicato come responsabile della dichiarata pandemia da Covid-19, furono velocemente immessi in commercio da varie aziende farmaceutiche sulla base di autorizzazioni emergenziali e condizionate e presentati da media e istituzioni come salvifici vaccini. L’articolo 4 del Decreto-Legge 44-2021 li ha anche imposti ad alcune categorie di lavoratori – obbligo che pare esser stato ritenuto “non irragionevole e sproporzionato” dalla recente sentenza della Corte Costituzionale del 1 dicembre scorso – tuttavia, c’è un interessante studio italiano, finora trascurato dai più forse per i suoi “tecnicismi” malgrado la straordinaria attenzione che sta sollevando a livello internazionale, che evidenzia in modo molto chiaro un aspetto fondamentale: i cosiddetti trattamenti anti-Covid non sono affatto dei vaccini come normalmente presentati, ma in realtà farmaci che, in assenza dei dovuti studi relativi alla farmacodinamica, farmacocinetica e tossicologia, sono “di fatto impiegati in maniera cieca e inconsapevole così da produrre conseguenze imprevedibili seppure apparentemente non riconducibili agli inoculi in plurime e ravvicinate dosi”.
Così scrivono gli avvocati Roberto De Petro e Giuseppe Mantia, facendo riferimento al sopracitato studio (che è stato condotto da Marco Cosentino, medico e professore di farmacologia all’Università degli studi dell’Insubria e dalla collega professoressa Franca Marino del Centro di Ricerca in Farmacologia Medica della stessa Università), sulla base del quale i due legali giungono a definire questi prodotti come “medicinali falsificati”.
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L'invasione degli ultra-pedagogisti
Scuola democratica, universalismo e lotta di classe
di Marco Maurizi
1. Né concretezza, né utopia
Il recente volume di Christian Raimo, L’ultima ora. Scuola, democrazia, utopia (Ponte alle Grazie, Milano 2022) è un testo che rappresenta perfettamente i pregi, pochi, e i difetti, moltissimi, di tutta una schiera di aspiranti riformatori della scuola che si autodefiniscono progressisti e democratici. Tra i loro pregi sicuramente le buone intenzioni, il desiderio di migliorare un’istituzione che è “in crisi” da tempo (o forse, come suggerisce Raimo stesso, da sempre), l’attenzione al disagio giovanile, la preoccupazione per il razzismo e l’esclusione, la speranza che la scuola possa farsi argine alle vecchie e nuove diseguaglianze. Tra i loro difetti il non sapere assolutamente come realizzare tutto questo, tranne poche idee che o sono molto confuse o sono totalmente sbagliate.
Il libro di Raimo permette di dare un’occhiata a questo laboratorio di analisi e strumenti concettuali con cui il pedagogismo “di sinistra” affronta la realtà scolastica. Nonostante il progetto di un libro che vuole guardare da vicino il mondo della scuola senza perdere di vista l’orizzonte ideale di una società futuribile si può dire che esso fallisca miseramente il compito, non riuscendo ad essere né abbastanza concreto, né sufficientemente utopico. Il problema, come vedremo, è l’inadeguatezza del quadro sociologico di fondo: la totale incapacità dell’autore di cogliere le questioni di classe là ove si producono, nel meccanismo di autovalorizzazione del capitale, per ridurre il proprio “anticapitalismo” a vaghe suggestioni relative ad un non meglio identificato “classismo” o, addirittura, al “conformismo”. Questa lacuna di fondo determina, a cascata, tutti gli errori di prospettiva sul mondo della scuola e i tre grandi assenti di questo libro: il lavoro docente, la soggettività studentesca, l'universalità del sapere.
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“Come finira’ il capitalismo?” Anatomia di un sistema in crisi
di Sergio Leoni
Nel punto interrogativo del titolo di questo libro è già espresso il senso e il tema che l’autore sviluppa in più di trecento pagine fortemente argomentate, di lettura chiara ma non facile e che dunque richiede una buona dose di volontà di comprendere tesi che oggi, rispetto al “senso comune”, appaiono quantomeno eccentriche se non eretiche.
L’autore, secondo le stringate note nella terza di copertina , è “sociologo ed economista tedesco”. Direttore emerito del Max Planck Institute for the Study of Societes di Colonia. Membro dell’ Accademia delle Scienze di Berlino e Corresponding Fellow della British Academy”.
Qualcosa di più è possibile sapere su questo autore attraverso i soliti canali (wikipedia in questo caso): ha studiato nella Università Goethe di Francoforte, negli anni in cui l’omonima scuola di Horkeimer e Adorno è stata al centro o comunque parte essenziale del dibattito filosofico e politico a cavallo degli anni 60/70.
In ogni caso, questo testo si colloca del tutto al di fuori di quello che è stato, negli ultimi decenni, un mainstream cui si sono adeguati, in maniera più o meno convinta, la gran parte degli storici, dei filosofi, degli economisti. Senso comune, detto in parole povere, secondo cui, con la caduta del muro di Berlino, con la fine, evidentemente più dichiarata che effettivamente realizzata, della guerra fredda, il modello capitalistico, non solo occidentale ma perfino “mondiale”, sarebbe diventato il solo e unico scenario, l’unico modello economico possibile, l’unica forma di strutturazione della società, l’unica e definitiva “visione del mondo”.
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La Legge del Valore-(Lavoro) in Nietzsche
di Leo Essen
I
Nietzsche(1) non è un pensatore della Differenza. Che Nietzsche non parta dalla Differenza tra Forte e Debole, Aristocratico e Plebeo, Piacere e Dispiacere, eccetera, oppure, tra Causa ed Effetto, Libertà e Necessità, etc, è smentito in Al di là del bene e del male – a partire dal titolo.
Il difetto del pensiero della Differenza, dice Nietzsche, sta in ciò: che si finisce per porre Atomi a sostegno dei Differenti – ovvero delle Sostanze – si finisce nella Metafisica.
Un pensiero – scrive in Aldilà, 17 – viene quando è «lui» a volerlo. [E non quando lo vuole un «io penso», in quanto subjectum, sostrato, sostanza].
Un pensiero viene quando è «lui» a volerlo e non quando «io» lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto «io» è la condizione del predicato «penso». [Le virgolette e i corsivi sono di Nietzsche, e hanno il loro peso, evidenziano la raffinata precauzione di Nietzsche].
Esso pensa [in corsivo. Nemmeno il flebile «esso», l’impersonale «esso» va bene, perché mira sempre a una sostanza, dunque anche «esso» è una falsificazione dello stato dei fatti.
Come cavarsi fuori da questo pasticcio se anche «Esso» rimanda ad una sostanza, falsificando lo stato dei fatti?
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Questa guerra mondiale in fieri
di Nucleo comunista internazionalista
Una delle domande di fondo se non la domanda a nostro avviso di fondo a cui i rudimentali punti di orientamento qui sotto esposti cercano di rispondere è la seguente: quale è il carattere della presente guerra mondiale in fieri nella quale l’umanità è inesorabilmente trascinata e di cui è parte la guerra al momento localizzata in terra ucraina in quanto scontro armato fra la Nato-braccio armato dell’Occidente collettivo e la Russia-“ariete apripista” di un nuovo assetto “multipolare” del capitalismo mondiale?
Riguardo questo aspetto della guerra che evidentemente appare ed è centrale, la domanda può essere posta più precisamente:
essa ha o può avere un carattere progressivo dal lato delle potenze statali russa e cinese (e dietro ad esse il Sud globale del mondo) in quanto colpo di grazia vibrato all’egemonia imperialista dell’America e dell’Occidente collettivo e quindi guerra anti-imperialista che i rivoluzionari devono appoggiare; oppure essa è una contesa armata fra Stati per una diversa e “più equa” ripartizione del potere capitalistico globale, quindi guerra inter-capitalistica da sabotare da ogni lato statale dei belligeranti?
Può essere utile allo scioglimento del rebus anche prendere in esame lo storico discorso pronunciato il 30 settembre dal presidente Putin (che fa il tris con quelli, altrettanto storici, del 21 e del 24 febbraio su cui abbiamo detto in uno scritto precedente: https://www.pane-rose.it/files/index.php?c3:o55248:e1) in occasione dell’annessione alla Russia delle quattro provincie sudorientali di un’Ucraina che non esiste e non esisterà più per come era configurata prima il 24 febbraio.
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Le élite sono il nuovo Mago di Oz
di Carlo Freccero
C'è una sorta di paradosso che riguarda i grandi progetti, utopici o distopici, in corso di realizzazione oggi: sono al centro della scena, ma nessuno è in grado di vederli. La pandemia prima ed oggi la guerra, hanno creato all'inizio un certo sconcerto, ben presto riassorbito dalle logiche di una “nuova normalità”. Purtroppo tutto sembra congiurare contro di noi, ma secondo la logica corrente si tratta di un susseguirsi di fortuite coincidenze. Possibile che in un periodo storico così breve si concentrino casualmente una pandemia, una guerra, la carestia, la crisi climatica, l'esaurimento delle risorse alimentari ed energetiche? Certamente, ci risponde il mainstream, perché noi abbiamo abusato delle ricchezze del pianeta moltiplicandoci incessantemente, vivendo al di sopra delle nostre possibilità, consumando le risorse a disposizione delle altre specie e delle generazioni future. Per ogni obiezione c'è una risposta scientifica e filantropica pronta a ribadire che la colpa del disastro è solo nostra, cioè di quel 99% della popolazione del pianeta che deve dividersi le risorse residue dopo che le élites ne hanno privatizzato la parte migliore. Una massa che perde o ha già perso il suo potere contrattuale, perché il lavoro umano non ha più valore, in quanto viene progressivamente sostituito dai robot e dall'intelligenza artificiale. Oggi non solo i lavoratori non vogliono più fare la rivoluzione, ma si cospargono il capo di cenere.
Ma se recuperassimo un po' di lucidità, dovremmo chiederci se la catastrofe che stiamo attraversando sia semplicemente il frutto della nostra irresponsabilità, oppure faccia parte di un RESET, un azzeramento volontario da parte delle élite, di un sistema economico già fallito, proprio a causa delle élite stesse.
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Dove va la globalizzazione?
di Raffaele Sciortino
Machina ha già pubblicato (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/introduzione-a-stati-uniti-e-cina-allo-scontro-globale) l’Introduzione del nuovo volume di Raffaele Sciortino, «Stati Uniti e Cina allo scontro globale. Strutture, strategie, contingenze» (Asterios, 2022), che segue di qualche anno il precedente «I dieci anni che sconvolsero il mondo» (Asterios, 2019), testo che inquadrava il «momento populista» del decennio seguito alla crisi del 2008 nella dinamica intrecciata del mercato mondiale, degli assetti geopolitici e dei rapporti di classe. La medesima prospettiva sistemica, che caratterizza i lavori di Sciortino, è qui «applicata» alle trasformazioni del capitalismo globale che ha il suo asse fondante nel rapporto asimmetrico tra Usa e Cina, non visto limitatamente come relazione o scontro tra potenze, ma come perno degli assetti capitalistici dispiegati su scala planetaria degli ultimi decenni.
Transuenze pubblica oggi un secondo estratto di questa pubblicazione, un paragrafo contenuto nella prima parte del volume, intitolato «Dove va la globalizzazione?», a fini espositivi qui proposto (con il consenso dell’autore) in versione lievemente ridotta e con alcune soluzioni editoriali non presenti nell’originale. Fermo restando l’intento prioritario di invito alla lettura integrale del volume, la pubblicazione di questo paragrafo, che nello schema del libro fornisce una descrizione analitica dello scenario, di «servizio» agli argomenti centrali, discende dai temi affrontati, questioni ricorrenti anche di questa sezione della rivista. Sciortino colloca in una prospettiva di medio periodo, attraverso una sintetica ma rigorosa selezione di dati ricavati da fonti pro sistema, lo stato della globalizzazione, da egli intesa anzitutto «come stadio del processo di affermazione del mercato mondiale come unità di produzione e circolazione internazionalizzate» da cui è dunque difficile tornare indietro, nonostante gli smottamenti in corso. Il mutamento della scena, rispetto alla fase ascendente della globalizzazione (e dei rapporti tra Usa e Cina), è spinto in questa visione dalla crisi dell’accumulazione di capitale, ufficialmente apertasi a ridosso del 2008.
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Sergio Romano e l’esercito imperialista europeo
di Fosco Giannini
Perché il movimento pacifista, i comunisti, le forze antimperialiste e anticapitaliste debbono dire NO all'esercito europeo
Domenica 27 novembre u.s. Sergio Romano firma un articolo, per il “Corriere della Sera”, dal titolo tanto perentorio quanto apodittico: “Se vuole contare nel mondo l’Ue deve costruire il suo esercito”. Romano è figlio della grande borghesia di Vicenza; nei primi anni ’50 partecipa all’esclusivo, importante e denso di prospettive di carriera politico-diplomatica, Seminario nordamericano di Salisburgo; studia poi, attraverso una borsa di studio della Fondazione Harkness (Istituto di studi del Commonwealth, tanto per dire…) all’università di Chicago; con così tante stigmate statunitensi, britanniche, imperialiste, nel 1954 entra alla Farnesina per poi intraprendere una lunga carriera diplomatico-politica che lo porta ad essere prima ambasciatore a Londra e poi a Mosca, quindi ambasciatore italiano presso la NATO, “visiting professor” all’università della California e tanto e tanto ancora, sia sul piano della carriera diplomatica che politica e giornalistica, esperienze di prestigio che lo portano a diventare un influente “maître à penser” della politica internazionale italiana.
Romano, anche in relazione alla sua storia, alla sua biografia intellettuale, è decisamente schierato nel campo atlantista sul piano geopolitico e nel campo liberale sul piano economico/ideologico. Purtuttavia, specie nella sua ultima fase e molto probabilmente in virtù di un surplus di esperienza concreta delle dinamiche internazionali che ha stemperato la sua lancia liberale/occidentale, è andato assumendo posizioni alquanto eterodosse rispetto ai crociati dell’imperialismo e interessanti anche per il fronte antimperialista.
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Il governo Meloni e la riforma del MES
Federalismo coercitivo e difesa della sovranità nazionale
di Luca Lanzalaco
Il 30 novembre 2022 i partiti della maggioranza di governo hanno votato a larga maggioranza una mozione che impegna il governo “a non approvare il disegno di legge di ratifica della riforma del Trattato istitutivo del MES alla luce dello stato dell’arte della procedura di ratifica in altri Stati membri e della relativa incidenza sull’evoluzione del quadro regolatorio europeo” (Parlamento italiano – Camera dei Deputati 2022a).
A questo proposito avanziamo due tesi. La prima è che si è trattato di una decisione giusta, anche se la sua formulazione lascia alcuni margini di ambiguità che andrebbero quanto prima chiariti. La seconda che la posta in gioco in questa decisione sia ben più alta ed importante della semplice revisione di alcune procedure di controllo sull’andamento del deficit e del debito degli Stati membri dell’Unione europea. Esaminiamo distintamente le due tesi che, come emergerà chiaramente, sono tra loro connesse. Nel fare questo riprenderò in sintesi temi ed argomenti che ho avuto modo di sviluppare in modo molto più approfondito in altra sede (Lanzalaco 2022).
Prima è però opportuno un chiarimento. Dietro l’etichetta MES nel dibattito politico e nel discorso pubblico corrente si collocano due differenti referenti che, seppur strettamente collegati, vanno tenuti distinti (European Commission 2022, 19-20). Da un lato, vi è il cosiddetto Fondo salva stati che, istituito durante la crisi dei debiti sovrani (2010-2012) per offrire assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà, è stato riformato all’inizio del 2021.
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La guerra Russia-Ucraina: lo stupido e l'analista
a cura di Luigi Longo
Ho trovato interessante sia la conferenza stampa di Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, tenuta a Bruxelles il 25/11/2022 e ripresa dall’agenzia Adnkronos e pubblicata, a mò di stralcio, sul suo sito https://www.adnkronos.com/ucraina-stoltenberg-diventera-membro-nato_5EZiSZ99s7FBWwsQbcCHLa/amp.html, sia l’intervista del colonnello statunitense Douglas Macgregor rilasciata al canale polacco Votum TV e pubblicata sul sito www.comedonchisciotte.org del 24/11/2022.
Le riporto per riflettere sia sulla stupidità di Jens Stoltenberg sia sull’analisi concreta e ragionata del colonnello Douglas Macgregor.
Una precisazione e una riflessione. La precisazione riguarda il concetto di stupidità, una sorta di scherzosa (mica tanto) teoria generale della stupidità umana, elaborata dallo storico Carlo Maria Cipolla (Allegro ma non troppo, il Mulino, Bologna, 1988, in particolare le pagine 65-77) che così la definisce « Il secondo fattore che determina il potenziale di una persona stupida deriva dalla posizione di potere e di autorità che occupa nella società. Tra burocrati, generali, politici, capi di stato e uomini di Chiesa, si ritrova l’aurea percentuale […] di individui fondamentalmente stupidi la cui capacità di danneggiare il prossimo fu (o è) pericolosamente accresciuta dalla posizione di potere che occuparono (o occupano). La domanda che spesso si pongono le persone ragionevoli è in che modo e come mai persone stupide riescano a raggiungere posizioni di potere e di autorità ». Affermare, come fa Jens Stoltenberg, che « […] Se Putin, o altri leader autoritari, vede che l’uso della forza è premiato, la userà ancora per raggiungere i suoi obiettivi.
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L’eterna primavera della speranza. Le conferenze ONU sul clima fra passi avanti e inazione
di Barbara Bernardini
La COP27 di Sharm el-Sheikh – la ventisettesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – si è conclusa all’alba del 20 novembre, quasi due giorni dopo il termine previsto. Per arrivare all’approvazione del piano di attuazione ci sono volute due notti di trattative ulteriori, con in mezzo un momento in cui tutto sembrava perso: Frans Timmermans, a nome della Commissione europea, si diceva pronto a lasciare il tavolo, “meglio nessun accordo che un cattivo accordo”.
Poi l’accordo è arrivato, né buono né cattivo: molte delle sintesi riportate da chi era presente e da chi ne ha analizzato i 66 punti – una ben fatta è quella di Italian Climate Network – concordano su quali siano gli aspetti positivi e quelli negativi. Il grande successo del testo finale è l’istituzione del fondo compensativo “loss and damage” che prevede un risarcimento per le perdite e i danni subiti dai paesi più vulnerabili per gli effetti di una crisi climatica che non hanno contribuito a causare. Il risarcimento dovrà arrivare dai paesi che sono i principali emettitori storici – quindi tenendo conto non solo delle emissioni attuali ma anche di quanto abbiano contribuito in passato –, ma per capire chi dovrà contribuire, chi potrà beneficiarne e in che misura, bisognerà aspettare: non è stato deciso nulla in concreto ma si rimanda a una commissione che avrà il compito di districare i nodi che ora sono stati ignorati. La Cina da che parte dovrà stare? Non ha la responsabilità storica degli Stati Uniti, e alla COP27 si è presentata come capofila del fronte dei paesi “vulnerabili”, ma per quanto tempo potrà ancora essere considerata un’economia in via di sviluppo? Al tempo stesso, quello che viene chiamato il fronte dei G77 (in contrapposizione con i paesi del G20), quanta forza negoziale riuscirebbe a mantenere se la Cina si sfilasse?
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La tesi fallace degli "opposti imperialismi" e perché schierarsi per il Multipolarismo
di Leonardo Sinigaglia
Che si tratti delle violenze e delle speculazioni dei colossi energetici, finanziari, farmaceutici o agroalimentari, al centro vi è sempre l’imperialismo statunitense. Ciò è dovuto al fatto che in questa fase storica, al vertice della piramide del potere, vi sono i cartelli finanziari (i maggiori dei quali sono Vanguard Group, State Street e Black Rock) che hanno in Washington, nelle sue forze armate e nel suo “soft power” il principale strumento d’azione. L’imperialismo americano è ciò che ha consentito per anni il neo-colonialismo del Fondo Monetario Internazionale, le “rivoluzioni colorate” e la crescita del potere dei grandi capitali al punto di poter sfidare, e vincere, gli stessi Stati nazionali.
Quello americano non è l’unico imperialismo presente al mondo, ma riassume e controlla tutti quelli rimasti. L’imperialismo francese o quello inglese sono sostanzialmente subalterni a quello americano.
Ma la dittatura internazionale di questo viene oggi efficacemente messa in discussione dal processo di costruzione di un mondo multipolare. Cos’è l’imperialismo americano? L’imperialismo americano è la sottomissione violenta dell’Umanità agli interessi geostrategici delle lobbies di Washington. Cos’è il multipolarismo? Il multipolarismo è l’alternativa a tutto ciò, base per riaffermare la sovranità democratica e l’autodeterminazione dei popoli.
Nel suo discorso del 30 settembre il Presidente Vladimir Putin definiva l’epoca che stiamo attraversando come segnata da “trasformazioni rivoluzionarie”. Ciò è completamente vero, perché appare sempre più chiaro come il mondo segnato dalla “fine della Storia”, il mondo dell’egemonia statunitense sia ormai in fase di decomposizione.
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Elezioni di Medio Termine in USA
Una nuova epoca è cominciata?
di Fulvio Winthrop Bellini
Prima premessa: una nuova epoca storica è cominciata
Sono necessarie, a mio avviso, alcune premesse per fare chiarezza sui risultati delle importanti elezioni di medio termine avutesi negli Stati Uniti d’America l’8 novembre scorso. Queste premesse si rendono indispensabili a causa della cortina di fumogeni che i mass media di regime, soprattutto qui in Italia, hanno steso per minimizzare l’importanza del giudizio che gli elettori americani hanno emesso nei confronti della politica del Presidente Joe Biden sia domestica sia estera, che nel secondo caso si è concretizzata nel sostegno incondizionato al regime del presidente-attore-burattino Volodymir Zelensky. Grazie al fiume di denaro e di armi inviate al regime nazistoide di Kiev, Washington ha potuto parallelamente perseguire la sua strategia principale di aggressione finanziaria nei confronti dell’Unione Europea grazie ai prezzi gonfiati di energia e materie prime, mentre dall’altro capo dell’Oceano, la comunità politica europea sta collaborando con l’aggressore americano, porgendo il collo dell’economia comunitaria alla mannaia dell’inflazione del dollaro. Paesi altrettanto importanti per gli Stati Uniti, però, non desiderano fare la medesima fine di Bruxelles: la Cina, ad esempio, si sta attrezzando per una nuova stagione di conflitti globali, come emerso dall’ultimo congresso del Partito comunista cinese che ha visto la straordinaria riconferma per il terzo mandato di Xi Jinping. Le elezioni di medio termine sono state un giudizio che la classe dirigente americana, tramite il voto per il rinnovo totale della Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato, ha emesso nei confronti della strategia della Casa Bianca di guerra su tre fronti, che vedremo più avanti. La valutazione elettorale emessa l’8 novembre è rilevante perché rilevanti sono i tempi nei quali siamo entrati “ufficialmente” a partire dal 2020 con la pandemia del Covid-19 nel primo biennio e la successiva guerra in Ucraina del 2022.
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La geopolitica energetica della Russia con Cina e India
di Andrew Korybko
Due precisazioni: dalle dinamiche geoeconomiche a quelle geopolitiche il passaggio non è così scontato; la connessione diretta ai confini con la Cina favorisce economicamente quest’ultima e i rapporti commerciali Russia-Cina ammontano ancora a sei volte quelli Russia-India. Rimangono l’interesse per un riequilibrio geopolitico della posizione dei russi e la tradizione di lunghi rapporti politici e militari tra Russia e India. Buona lettura [Giuseppe Germinario]
I punti principali di questa analisi sono diversi. In primo luogo, la geopolitica energetica della Russia con Cina e India è reciprocamente vantaggiosa. In secondo luogo, la strategia di diversificazione energetica della Cina è bilanciata dall’insaziabile appetito dell’India per le risorse russe scontate. In terzo luogo, l’India sta rapidamente sostituendo la Cina come principale partner della Russia. In quarto luogo, né le suddette discussioni né le discussioni sino-americane in corso su una nuova distensione sono a somma zero per Mosca o Pechino. E finalmente sta emergendo un nuovo equilibrio strategico globale.
Il nucleo RIC della transizione sistemica globale
La Cina e l’India sono i due principali partner della Russia nel mondo, con i quali collabora strettamente sia a livello bilaterale che multilaterale attraverso i BRICS e la SCO . Collettivamente indicati come RIC, sono le forze trainanti nella transizione sistemica globale verso il multipolarismo . Tutti e tre prevedono di riformare le relazioni internazionali in modo che siano più democratiche, uguali e giuste, con un grande passo in quella direzione compiuto attraverso la cooperazione energetica reciprocamente vantaggiosa di Cina e India con la Russia.
Il ruolo della geopolitica energetica nella nuova guerra fredda
Prima di descrivere in dettaglio le dinamiche delle relazioni energetiche della Russia con entrambi, è importante sottolineare rapidamente come ciò aiuti in primo luogo a far avanzare il multipolarismo.
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Nota storica su un testo di Hans Jürgen Krahl (in calce)
di Frank Grohmann
L'opera di Hans Jürgen Krahl (1943-1970), rimasta in forma di bozza o addirittura frammentaria, deve molto al suo contrapporsi con l'opera di Jürgen Habermas - come dimostra in particolare il progetto del 1968 [*1], anch'esso incompiuto, qui di seguito riprodotto. Un anno dopo la sua relazione "Sull'essenza della logica dell'analisi marxiana della merce" [*2] (1966/67) - svolta nel corso di un seminario di Adorno e che ancora oggi colloca il pensiero di Krahl accanto a "Sulla dialettica della forma-valore" (1970) [*3] di Hans-Georg Backhaus e a "Sulla struttura logica del concetto di capitale in Karl Marx" (1972) [*4] di Helmut Reichelt - il progetto di Krahl non solo critica Jürgen Habermas, ma allo stesso tempo suggerisce dov'è che Krahl vede i limiti della teoria critica dei suoi maestri Max Horkheimer e Theodor W. Adorno: ossia, come si dirà più avanti, egli vede tali limiti nel pericolo di «razionalizzare la necessità dell'astrazione filosofica, in ragione dell'autonomizzazione speculativa». In altre parole, «la critica, da parte di Adorno, della società tardo-capitalista rimaneva astratta e negava l'esigenza di definire una negazione risoluta» - per l'appunto – «di quella categoria dialettica, quindi, a cui sapeva di essere legato dalla tradizione di Hegel e Marx» [*5].
Il testo che qui sotto presentiamo, non va letto tanto come se fosse un documento storico, quanto piuttosto come un esortazione a svolgere una lettura critica della posizione dell'agitatore e teorico Hans-Jürgen Krahl, organizzatore dell'SDS [*6]. Questo testo è il seguito alla sua "Risposta a Jürgen Habermas" [*7], nella quale Krahl esprimeva già in maniera chiara la sua contrapposizione.
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Pensa un po’…
di Elisabetta Teghil
«Pensa un po’, pensa un po’: avvitare due bulloni e il terzo no».
(Pensa un po’, Paolo Pietrangeli 1969)
Ci sono due problemi urgenti all’ordine del giorno: uscire dal pensiero del nemico, reiventarsi e attualizzare le forme di lotta che l’universo dei subalterni deve mettere in campo pena l’usura anche di quel poco che si sta risvegliando.
Quando gli operai negli anni sessanta e settanta del secolo scorso presero consapevolezza del loro ruolo e dei loro desideri riuscirono a mettere in atto forme di lotta autonome ed originali. Il salto di qualità della lotta operaia si è concretizzato con l’abbandono della logica lavorista. Il cambiamento importante era stato la nascita dell’operaio-massa e cardine dei primi comportamenti anti-lavoristi degli anni Sessanta era stato l’assenteismo perché era diventato chiaro che l’<abitudine al lavoro> non è altro che <disponibilità ideologica a subire lo sfruttamento>. Vennero messe in pratica operazioni che si concretizzarono nel salto della scocca, nello sciopero a singhiozzo e a gatto selvaggio, nel boicottaggio, nel sabotaggio. E i grandi impianti industriali di organizzazione tayloristica si mostrarono fragili rispetto a questo tipo di lotte.
Ora il neoliberismo ha cambiato in primis nelle società occidentali le modalità dello sfruttamento. Ora ha la pretesa di appropriarsi di ogni più piccolo aspetto della vita anche del quotidiano e del privato e di metterlo a profitto, ha affinato la capacità di estorcere plusvalore dalla nostra stessa esistenza e dalla nostra disponibilità attraverso tutta una serie di meccanismi di precarizzazione e individualizzazione dei rapporti di lavoro, attraverso la messa a profitto dei nostri desideri e delle nostre paure, dei nostri stessi rapporti sociali e perfino delle nostre lotte.
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L’anno che verrà
di Enrico Tomaselli
Se, al momento del ripiegamento russo sulla riva sinistra del Dniepr, era sembrata aprirsi una finestra di possibilità per un cessate il fuoco, i missili ucraini sulla Polonia l’hanno chiusa. Non solo perché hanno confermato, ancora una volta, l’oltranzismo del governo di Kyev, ma perché la reazione dei paesi occidentali – USA in testa – se pure è stata assai più cauta e ragionevole, ha mostrato con chiarezza che la NATO non intende affatto deflettere dai propri obiettivi bellicisti. Ecco perché l’anno che sta per arrivare potrebbe essere decisivo per la guerra.
Il Generale Inverno
La stagione attuale è probabilmente la peggiore, dal punto di vista dell’impatto meteorologico sulle condizioni di combattimento. Piogge e nevicate sulle pianure ucraine rendono il terreno paludoso, con gravi implicazioni per la mobilità dei mezzi corazzati, mentre i trinceramenti si trasformano in canali di scolo. Non è quindi il momento migliore per aspettarsi grandi battaglie di movimento o fulminee avanzate dall’una o dall’altra parte.
Ciò nonostante, i combattimenti sono assai attivi e sostanzialmente segnalano l’iniziativa russa lungo la linea del fronte del Donetsk e Lugansk. In particolare nel settore centrale si segnalano una serie di successi tattici delle forze armate russe in direzione di Bakhmut, che stanno conquistando uno dopo l’altro alcuni villaggi intorno alla cittadina, al cui interno da alcune settimane si combattono aspramente gli ucraini (con fortissime perdite, nell’ordine di oltre 200 uomini al giorno) ed i militari della PMC Wagner.
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Psicopatologia del sistema neoliberista
di Ugo Zamburru
1. Ho scritto, recentemente, alcune riflessioni sulla connessione ineliminabile tra la psichiatria e il sistema in cui la sua attività si colloca (https://volerelaluna.it/societa/2022/11/21/la-psichiatria-non-e-unisola). Voglio qui approfondire il ragionamento collegandolo con il dibattito in corso nel Paese.
La Società italiana di psichiatria ha dichiarato che la pandemia lascerà un’eredità di 300.000 nuovi casi, a cui le attuali risorse dei Dipartimenti di salute mentale non sono in grado di dare una risposta terapeutica adeguata. I neuropsichiatri infantili e i pediatri parlano dell’aumento esponenziale dei casi di disturbi del comportamento alimentare e di autolesionismo e lamentano l’inadeguatezza del sistema sanitario. Intanto si riaccende il dibattito tra il modello medicocentrico, su base biologica, e quello psicodinamico e sociale. Ancora una volta non ne usciamo se non caliamo l’analisi all’interno del momento politico, storico, economico e culturale.
Nel 1995 il Dipartimento di Social Medicin di Harvard pubblicò un libro (World Mental Health: problems and priorities in low-income Countries) in cui per la prima volta si definivano le malattie mentali non come semplici problemi biologici di competenza medica indipendenti dal contesto, ma come sovradeterminate da variabili sociali, economiche, politiche e culturali. Nel momento in cui le diseguaglianze sociali, la povertà, un’iniqua redistribuzione del reddito, la classe sociale, il genere, le guerre, le catastrofi climatiche sono riconosciuti come determinanti sociali e fattori di rischio importanti per la salute mentale, ci troviamo di fronte a un bivio. Possiamo considerare le malattie mentali come fini a se stesse, l’espressione di una sofferenza di natura biologica, modello riduzionista che lavora solo sul sintomo e non sulle cause, o possiamo mettere in discussione il sistema stesso.
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Odio mosso da amore
di China Miéville
Come rapportarsi al sentimento dell'odio generato dalle crudeltà che ci circondano? Bisogna negarlo o provare a governarlo? Una riflessione, Marx alla mano, dello scrittore di fantascienza radicale China Miéville
Non c’è ragione di soccombere al conforto complesso della disperazione, un rifugio nel lugubre che ci consegna alla sconfitta. Ma sottolineare i ripetuti fallimenti della sinistra è un rimedio inevitabile, data la sua storia di esaltazioni e cazzate, ed evidenziare quanto siano spaventosi e terribili questi giorni, anche se vi possiamo anche scorgere una speranza. Adottare l’approccio liberale e vedere come deviazioni Boris Johnson, Jair Bolsonaro, Narendra Modi, Rodrigo Duterte, Donald Trump, Silvio Berlusconi e i loro epigoni, il violento e intricato «cospirazionismo», l’ascesa dell’alt right, la crescente volubilità del razzismo e del fascismo, significa estrapolarli dal sistema di cui sono espressione. Trump se n’è andato, ma il trumpismo è ancora forte.
Nonostante tutto ciò, vista la recente sconfitta e lo smacco dei movimenti di sinistra nel Regno Unito e negli Stati uniti, causa di profonda depressione e demoralizzazione, questa è stata anche una fase di insurrezioni senza precedenti nelle città americane (e altrove). La storia e il presente sono oggetto di contesa.
Il capitalismo non può esistere senza una punizione implacabile nei confronti di coloro che trasgrediscono i suoi divieti spesso meschini e spietati, e di coloro la cui punizione è funzionale alla sua sopravvivenza, indipendentemente dalla «trasgressione» immaginaria. Dispiega sempre più la repressione burocratica, ma anche un sadismo appositamente congegnato, sfacciato, sopra le righe. Ci sono innumerevoli orribili esempi di riabilitazione e celebrazione della crudeltà, nella sfera carceraria, nella politica e nella cultura. Spettacoli come questo non sono nuovi, ma non sempre sono stati così «sfacciati», come dice Philip Mirowski, «fatti sembrare non eccezionali» – non sono solo una distrazione ma fanno parte di «tecniche di disciplinamento ottimizzate proprio per rafforzare il neoliberismo».
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Rileggere Lukàcs per salvare il marxismo occidentale
di Carlo Formenti
Il testo che segue anticipa la mia Prefazione della nuova edizione della "Ontologia dell'essere sociale" di Lukács che l'editore Meltemi manderà in libreria ai primi del 2023
Se la Ontologia dell'essere sociale fosse stata pubblicata nel 1971 (l'anno di morte dell'autore) avrebbe certamente influito sulla valutazione della grandezza di Lukács, elevandolo al ruolo di più importante filosofo marxista - e fra i maggiori filosofi in generale – del Novecento. Invece quest'opera monumentale, la cui stesura richiese un decennio di lavoro, tardò a vedere la luce perché l'autore continuava a rimaneggiare il testo dei Prolegomeni che, malgrado la loro funzione di sintesi introduttiva ai temi della Ontologia, furono scritti per ultimi (1); inoltre perché gli allievi che ebbero a disposizione il manoscritto dopo la sua morte ne ritardarono la diffusione (la traduzione italiana della seconda parte uscì nel 1981, mentre la versione originale apparve in tedesco dal 1984 al 1986), ma soprattutto alimentarono un pregiudizio negativo nei confronti dell'opera prima che fosse resa disponibile ai lettori (2). Questi motivi, unitamente al clima storico, ideologico e culturale antisocialista e antimarxista degli anni Ottanta generato dalla rivoluzione neoliberale, dalla svolta eurocomunista di quei partiti europei che interpretarono la crisi del socialismo come “crollo del marxismo”, nonché dalla svolta libertaria e individualista dei “nuovi movimenti” post sessantottini, ha fatto della Ontologia una delle opere più sottovalutate del Novecento. Al punto che il pensiero di Lukács, mentre è rimasto oggetto di culto per minoranze intellettuali non convertitesi al mainstream neoliberale, ha continuato ad essere identificato con opere precedenti come la Distruzione della ragione (3) , e ancor più con Storia e coscienza di classe (4), un libro che lo stesso autore considerava “giovanile” e superato.
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La crisi della "politica zero Covid" cinese: un confronto con l'Italia (e in generale l'occidente collettivo)
di Leonardo Sinigaglia
Il semplice fatto che gli stessi figuri che gioirono per i lavoratori sgomberati a colpi di idrante a Trieste e che si impegnarono nella sistematica censura di ogni manifestazione critica rispetto alla gestione pandemica in Italia siano ora impegnati nell’esaltare le proteste cinesi come “lotte per la libertà” e dare risonanza mediatica anche ad assembramenti di poche dozzine di persone avvenuti letteralmente dall’altra parte del mondo dovrebbe essere già un campanello d’allarme. Perché se si vuole comprendere veramente che cosa sta avvenendo in questi giorni in Cina non si può non tenere conto di questo fatto: una certa chiave di lettura proposta ora da media e personaggi pubblici è quantomeno strumentale, se non completamente falsata.
La "politica zero Covid" cinese
Prima di tutto per comprendere cosa sta accadendo in diverse città cinesi serve capire in cosa consiste la “politica zero Covid”, ossia la strategia di gestione pandemica applicata nel paese sin dai primi giorni del 2020. Questa si basa sulla constatazione che, per l’altissima densità abitativa e la disparità geografica delle risorse, la Cina non disporrebbe delle risorse sanitarie necessarie a far fronte ad una diffusione incontrollata o prolungata del virus. Ciò appare evidente andando a vedere la disponibilità di posti letto, circa 5 ogni mille abitanti, che nonostante la progressiva crescita di questi ultimi anni risultano complessivamente ancora insufficienti ai bisogni della popolazione, soprattutto nelle zone rurali.
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Il canone antioccidentale
Quali storie possono salvarci dalla pulsione ecocida del capitalismo imperialista?
di Dario Bassani
Quando si evoca la cultura occidentale in astratto i casi sono due. Nel primo il tono è quasi religioso. Come nelle agiografie, si compila una Legenda aurea di quelle che si ritengono le maggiori opere dell’ingegno umano, i pilastri che sorreggono la civiltà occidentale: Cartesio, Bacon, Hegel, e i tanti altri nomi che sfilano in quelle grandi parate di pensatori che sono i manuali di storia della filosofia, sono i santi laici che ci schermano da una imprecisata barbarie a venire. Se poi ci spostiamo dalle humanities alle scienze dure, ecco la meraviglia che queste dovrebbero suscitare: siamo tutti polvere di stelle, ci dicono divulgatori e immagini motivazionali. Ma ogni documento di cultura è anche un documento di barbarie, e nella saggistica contemporanea si accumulano materiali per stilare una Legenda nera dell’Occidente. Secondo l’accusa, la cultura occidentale sarebbe responsabile del maggiore male dei nostri tempi: la crisi climatica.
In quest’ottica, l’estinzione a cui l’umanità sembra condannata non proverrebbe – o meglio, non proverrebbe solo – dallo sfruttamento capitalista della natura o dagli strapazzi della rivoluzione industriale. Troppo facile accusare economia e tecnologia: molto più difficile criticare le idee che hanno fornito alla civiltà occidentale un manuale di istruzioni per sterminare popolazioni, ecosistemi e per minare infine la possibilità stessa della vita umana sul pianeta. Come in una parabola, questo è l’insegnamento di La maledizione della noce moscata, il nuovo libro dello scrittore e antropologo Amitav Ghosh, edito da Neri Pozza. Il libro prosegue il percorso iniziato con La grande cecità, in cui Ghosh si domandava per quale ragione i romanzi non riuscissero a dare conto della crisi climatica senza sconfinare nella fantascienza. La maledizione della noce moscata ripercorre invece la genealogia colonialista, razzista, genocida ed ecocida del mondo contemporaneo e delle catastrofi che lo minacciano.
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«La guerra capitalista»
Una discussione su centralizzazione dei capitali, nuovi imperialismi e guerra
Francesco Pezzulli intervista Stefano Lucarelli
Pubblichiamo la prima di una serie di interviste che la sezione sudcomune sta portando avanti sul tema del capitalismo digitale. Il curatore della sezione Francesco Pezzulli dialoga qui con Stefano Lucarelli sui temi del libro che ha scritto insieme a Emiliano Brancaccio e Raffaele Giammetti, La guerra capitalista, edito da Mimesis e in uscita oggi, 25 novembre.
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Nel testo appena pubblicato di cui sei autore insieme ad Emiliano Brancaccio e Raffaele Giammetti (La guerra capitalista, Mimesis, 2022 https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857592336), scrivete che «la guerra capitalista è la continuazione delle lotte di classe con mezzi nuovi e più infernali». Puoi illustrarci i termini della questione e come mai giungete a questa conclusione?
Noi siamo partiti da un fatto: la cosiddetta «legge» di centralizzazione dei capitali in sempre meno mani, originariamente teorizzata da Marx, può essere verificata empiricamente. Se ci pensi si tratta di un tema che è stato sempre messo in secondo piano dagli studiosi contemporanei di Marx, ma che in realtà oggi è molto più rilevante rispetto, per esempio, alle riflessioni sulla caduta tendenziale del saggio di profitto. L’analisi della centralizzazione dei capitali tutto sommato era restata sullo sfondo anche nelle analisi critiche del processo di globalizzazione diffusesi soprattutto nella seconda metà degli anni Novanta. E comunque non era mai stata analizzata con gli strumenti adeguati. Oggi in effetti – come mostriamo nel libro – trova una conferma nei dati.
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Un nuovo non allineamento
di Tim Sahay
“Mentre il vecchio movimento non allineato era ancorato a imperativi morali – decolonizzazione, antirazzismo, disarmo nucleare – questa versione nascente manca di un programma sociale ed etico positivo. Nasce invece dalla fredda logica commerciale e di sicurezza dello sviluppo.” Inserito nella crisi permanente – permacrisis — e irreversibile del sistema/economia-mondo globale il “non allineamento” multipolare servirà alle élite emergenti globali postcoloniali di negoziare le condizioni della propria partecipazione al caos climatico, il saccheggio e la devastazione di vite umane già compromesse nei propri paesi come in molti paesi piccoli in Africa, Asia e America. È la voce disperata e forte di questi Paesi che deve venire allo scoperto. Abbiamo sentito la loro voce nell’ultima Assemblea delle Nazioni Unite. Sono loro il nuovo Movimento dei Paesi non Allineati, fondato sulla Libertà, la Pace e la Giustizia sociale e Climatica [AD]
Nel marzo di quest’anno, con l’intensificarsi della guerra della Russia in Ucraina, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi si è recato a Nuova Delhi per parlare con il suo omologo indiano S. Jaishankar. “Se la Cina e l’India parlassero con una sola voce, il mondo intero ascolterebbe”, ha affermato Wang. “Se la Cina e l’India si unissero, il mondo intero presterebbe attenzione”. Le scale geopolitiche iniziarono presto a inclinare la strada dell’India.
Ad aprile, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva fatto il suo primo viaggio a Delhi, dove ha gettato le basi per diverse settimane di frenetici accordi UE-India per un vasto programma che va dalla difesa alla produzione verde.
Il mese successivo, in un vorticoso tour di tre giorni in Germania, Danimarca e Francia, il primo ministro Narendra Modi ha vinto le concessioni che i politici indiani bramavano da oltre due decenni, che vanno dagli investimenti di energia verde, ai trasferimenti tecnologici e agli accordi di armi, mettendo carne sulle ossa di un moribondo partenariato strategico UE-India.
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Zeitgeist
di Enzo Traverso
Da Dialettica dell’irrazionalismo. Lukács tra nazismo e stalinismo, Ombre Corte, Verona 2022
La distruzione della ragione non rispecchia soltanto un momento particolare nella traiettoria intellettuale e politica di Lukács. Quest’opera testimonia anche di un momento significativo della cultura del dopoguerra. Al di là delle intenzioni dell’autore, essa fu parte di un ampio dibattito sulle origini del nazionalsocialismo e le cause della catastrofe tedesca che segnò per più di un decennio la cultura dell’Europa centrale e quella degli esuli antifascisti, soprattutto ebrei, negli Stati Uniti. Il libro di Lukács fu l’ultimo intervento in questo dibattito e probabilmente l’unico contributo di grande rilievo proveniente dal lato orientale della cortina di ferro. Ultimo per la data di pubblicazione, benché sia stato scritto per lo più durante la guerra1. Esso concluse un periodo di riflessione filosofica e politica che, iniziato durante la Seconda guerra mondiale, aveva già prodotto un’impressionante costellazione di opere. Molti contributi a questo dibattito mettevano l’accento sul rapporto tra nazismo e irrazionalismo, come si evince facilmente da una breve rassegna.
Nel febbraio 1941 un rappresentante del liberalismo conservatore come Leo Strauss tenne una conferenza alla New School for Social Research di New York, in cui definì il nichilismo tedesco “il rifiuto dei principi della civiltà in quanto tale”, intesa come “cultura consapevole della ragione”2. Nello stesso anno Herbert Marcuse e Karl Löwith pubblicarono rispettivamente Ragione e rivoluzione e Da Hegel a Nietzsche, opere che proponevano letture diverse – per molti aspetti agli antipodi – dell’eredità di Hegel, convergendo tuttavia nel definire il nazionalsocialismo come una nuova forma di irrazionalismo antihegeliano3.
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