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Alle radici dell'Antropocene
di Ernesto Burgio
L'Antropocene può essere definito come l'era del pianeta Terra in cui una singola specie (Homo sapiens sapiens) ha preso il sopravvento su tutte le altre e ha tanto rapidamente e radicalmente trasformato l'intera ecosfera da mettere in pericolo la propria stessa esistenza.
Tra i fattori fondamentali di questa trasformazione vengono in genere indicati: lo sfruttamento sempre più intensivo da parte di Homo sapiens delle risorse energetiche e materiali e delle catene alimentari; la crescita esponenziale della popolazione umana su tutto il pianeta; il conseguente inquinamento e lo stravolgimento dei principali cicli biogeochimici. In questo quadro viene spesso trascurato quello che è l'effetto forse più drammatico: la trasformazione repentina e radicale degli ecosistemi microbici e virali che costituiscono l'essenza della biosfera e che sono i veri motori dell'evoluzione biologica da oltre 4 miliardi di anni.
Una interpretazione difficilmente contestabile è quella secondo cui tutti questi effetti, tra loro interconnessi, sono conseguenza della scelta da parte di Homo sapiens di usare la ragione a fini di dominio e la techné quale strumento fondamentale in tal senso, trascurando o comunque sottovalutando gli effetti che questa scelta avrebbe avuto sull'Altro (sugli altri esseri umani, sugli altri esseri viventi, sul pianeta stesso).
Se riconosciamo in questa scelta l'essenza stessa (anche spirituale, essenzialmente connessa al concetto di Ybris, di superamento dei limiti imposti dalla Natura o dagli dei) dell'Antropocene, possiamo meglio discernere da un lato gli strumenti più potenti introdotti dall'uomo ai fini del dominio, dall'altro gli effetti più negativi e potenzialmente distruttivi del loro utilizzo, che sono sempre più evidenti e potenzialmente irreversibili.
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Michal Kalecki e la piena occupazione
di Federico Fioranelli*
Michal Kalecki nasce a Lodz, in Polonia, il 22 giugno 1899, in una famiglia di origine ebraica. Nel 1917 inizia a studiare ingegneria al Politecnico di Varsavia ma interrompe gli studi prima della laurea. Si avvicina invece allo studio dell’economia leggendo Mikhail Tugan-Baranovsky e Rosa Luxemburg.
Dal 1929 al 1936 lavora presso un Istituto di ricerca economica a Varsavia e scrive dei testi raccolti in Studi sulla teoria dei cicli economici (1972).
Dopo essersi recato a Stoccolma, Londra e Cambridge grazie ad una borsa di studio, dal 1940 al 1945 lavora all’Istituto di statistica di Oxford: in questo periodo pubblica il saggio Aspetti politici del pieno impiego (1943).
Dal 1946 al 1955 è membro della Commissione economico-sociale dell’ONU.
Nel 1954 scrive Teoria della dinamica economica.
Nel 1955, Kalecki torna in Polonia per dedicarsi all’insegnamento e alla ricerca all’Università di Varsavia. I lavori di questo periodo fanno parte della raccolta Sulla dinamica dell’economia capitalistica (1975).
La dinamica dell’economia capitalistica
In Teoria della dinamica economica, Kalecki costruisce inizialmente un modello semplificato ipotizzando che l’economia sia chiusa e dividendo il sistema economico in due classi: i lavoratori e i capitalisti.
Il reddito dei lavoratori è costituito dai salari (W) mentre quello dei capitalisti dai profitti (P). Il reddito nazionale è così la somma di salari e profitti: Y = W + P.
Le imprese, in un’economia in cui hanno potere di mercato, adottano il principio del costo pieno, cioè un criterio che consiste nel fissare il prezzo del prodotto in relazione ai costi variabili, accrescendoli di un margine proporzionale destinato a coprire costi fissi e spese generali e a garantire un margine di profitto. I capitalisti determinano in questo modo il saggio di profitto e il saggio di salario.
Il profitto totale e il livello totale dei salari dipendono invece dalla spesa effettuata dagli stessi capitalisti in investimenti e consumi.
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L'inflazione, ultimo tentativo di salvataggio dello status quo?
R. F. e B. A.
[Accouchement difficile – Épisode 4: L’inflation, ultime tentative de sauvetage du statu quo?, http://www.hicsalta-communisation.com/, aprile 2022]
Un anno fa (aprile 2021), concludevamo il terzo episodio della nostra serie sulla crisi da Covid1 con delle proiezioni sui possibili scenari dell'ulteriore sviluppo di quella crisi. Uno di questi scenari era il «ritorno dell'inflazione». E così scrivevamo:
«Se è troppo forte, essa [l'inflazione, nda] rimetterà in causa gli equilibri dello status quo e innescherà una massiccia devalorizzazione di capitale reale e fittizio.»
Oggi il ritorno dell'inflazione non è più in dubbio, anche se la discussione è aperta sulla sua durata. In questo episodio, si tratterà non solo di analizzarne le cause profonde, ma anche di coglierne le implicazioni, soprattutto dal punto di vista della massiccia devalorizzazione (e della concomitante crisi sociale) che abbiamo prospettato. L’inflazione attuale può condurre a uno scongelamento/aggravamento della crisi, contrariando la traiettoria di uscita dalla recessione? Può essere portatrice di una forte ripresa delle lotte sul posto di lavoro, unico possibile innesco della grande ristrutturazione di cui il capitale sembra oggi così bisognoso? Queste sono le domande a cui cercheremo di rispondere sulla base degli elementi strutturali che, al di là dei fattori più immediati e superficiali, sono all’origine dell'inflazione attuale: la brutale caduta del saggio di profitto e la crisi della perequazione distorta del medesimo.
1 – Messa a punto concettuale
La prima cosa da chiarire è che lo status quo evocato nel titolo si riferisce esclusivamente all'attuale formula dello sfruttamento del lavoro, basata sulla predominanza del plusvalore assoluto.
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Una critica marxista della "sinistra postmoderna" e dell'"identity politics"
di Jona Textor
"Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi, in un paese dove viene marchiato a fuoco quand'è in pelle nera" - Karl Marx
Introduzione
L'uccisione dell'afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, il 25 maggio 2020, ha scatenato un movimento di protesta contro il razzismo e la violenza della polizia come non si vedeva dai tempi delle campagne di solidarietà internazionale contro il regime di apartheid sudafricano. Gli Stati Uniti stanno vivendo uno stato di emergenza politica che si era visto l'ultima volta al culmine delle proteste contro la guerra del Vietnam e nel periodo di massimo splendore del movimento per i diritti civili dei neri.
A differenza degli anni Sessanta e Settanta, tuttavia, oggi nel movimento non ci sono quasi organizzazioni politiche e leader ideologici [1] che analizzino il razzismo da una prospettiva materialista e formulino il loro antirazzismo sulla base di una concezione marxista del capitalismo. Per il Black Panther Party negli anni Sessanta e Settanta era ancora scontato intendere l'oppressione razziale come parte del sistema di sfruttamento capitalistico. Bobby Seale, uno dei membri fondatori delle Pantere, ha dichiarato: "I lavoratori di tutti i colori devono unirsi contro la classe dirigente sfruttatrice e oppressiva. Permettetemi di sottolineare ancora una volta: crediamo che la nostra lotta sia una lotta di classe, non una lotta di razza"[2]. Purtroppo, oggi rimane ben poco di questa eredità teorica. Certo, nel contesto delle proteste di Black Lives Matter (#BLM), ancora oggi si levano singole voci di attivisti di sinistra o di gruppi che rappresentano posizioni di lotta di classe o che addirittura si rifanno positivamente alla tradizione delle Pantere Nere [3], ma queste sono attualmente ben lontane dal rappresentare l'ampiezza del movimento.
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Nuove dinamiche del ciclo economico
di Fabrizio Russo
Doveva essere un non-evento, per così dire, “irrilevante”. A conferma di una “New Cycle Dynamics”, il “mini budget” del governo Truss ha invece scatenato un caos assoluto sui mercati, e non solo obbligazionari: fondi pensione che esplodono, operazioni di salvataggio di emergenza della banca centrale, instabilità del mercato globale. Il Segretario al Tesoro del Regno Unito è stato sacrificato dopo soli 38 giorni, un intero governo si è trovato in bilico a solo poche settimane dalla sua nascita per finire poi miseramente – il Governo più breve nella storia dell’Inghilterra – il 21 ottobre u.s. Un bell’exploit, non c’è che dire!
Venerdì 14 u.s. il Financial Times titolava: “Gilt sugli scudi ma gli investitori affermano che l’inversione a U del Governo Truss non è stata sufficiente a rassicurare ed invertire il tono di fondo del mercato”. “Liz Truss può sopravvivere come Primo Ministro del Regno Unito?”; “L’austerità chiama mentre Truss cerca di ripristinare la reputazione della Gran Bretagna tra gli investitori” (istituzionali, aggiungerei). E “La debacle del Regno Unito mostra che la banca centrale ‘Tough Love’ è qui per restare”.
Viene in mente il monito di Boris Johnson che, al momento del suo commiato, si è speso in un sibillino: “Arrivederci!” ….. nel senso che la Truss sarebbe durata poco? Lo sospettavo ma adesso ormai sono la maggioranza a crederlo … purtroppo i problemi non scompariranno con la designazione di un nuovo Esecutivo, nella fattispecie quello del neo incaricato Rishi Sunak, mentre il ritorno di Boris – pur paventato – sarebbe certamente stato un pessimo segnale di disperazione.
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“Sull’Irlanda”… e sulla Catalunya
di Andrea Quaranta
La riedizione degli scritti di Marx e Engels Sull’Irlanda è una iniziativa fondamentale per approfondire la riflessione su quei contesti nei quali popoli differenti sono ancora in lotta per la loro emancipazione: è il caso della Catalunya, di Heuskal Herria, della Corsica e di molte altre situazioni in cui la contraddizione nazionale è tutt’altro che risolta.
La nuova edizione di PGreco è arricchita dalla corposa introduzione di Marco Santopadre che, oltre a fornire diversi e interessanti spunti interpretativi, mette ordine nella questione riportata alla ribalta dalla crescita del movimento indipendentista catalano e rivelatasi problematica per la sinistra di classe europea, tutt’altro che unanime riguardo alle nazioni senza stato del continente.
In questo contesto la riproposizione delle riflessioni contenute in Sull’Irlanda ha prima di tutto il grande merito di riportare l’attenzione sul pensiero originale dei fondatori del marxismo e di fare piazza pulita delle semplificazioni interessate e dei luoghi comuni circolati con successo anche “a sinistra”.
La raccolta permette infatti di seguire passo dopo passo il pensiero di Marx e Engels sulla questione nazionale irlandese, un pensiero la cui complessità (compresi i ripensamenti espliciti) segnala non i limiti bensí la vitalità e la ricchezza di un’analisi che, se non rappresenta una teoria compiuta della nazione, consegna però alla sinistra di classe gli strumenti fondamentali per sviluppare il proprio percorso nell’intricata materia.
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Verso nuovi equilibri
La sfida per il nuovo ordine mondiale
di Renato Strumia
L’attacco della Russia all’Ucraina ha già reso chiaro, a tutti, che la posta in gioco è molto più alta di un conflitto di confine tra paesi legati tra di loro da una storia millenaria.
A tutti dovrebbe essere ormai chiaro che è in corso una guerra per procura tra Russia e Nato, con l’Ucraina come vittima sacrificale; una guerra il cui obiettivo finale è disarticolare e degradare la Russia, per consentire agli USA di mettere poi nel mirino la Cina, la cui ascesa sta minando, in chiave strategica, un modello egemonico in evidente difficoltà.
L’orrore per la tragedia è indicibile, ma questa cesura devastante può aiutarci a capire, un po’ di più, il mondo che verrà. Non è detto che il nostro impegno serva, nel costruire un mondo migliore di quello che abbiamo alle spalle; ma almeno possiamo tentare una elaborazione meno scadente della complessità del sistema globale e pensare (in prospettiva) vie d’uscita più coerenti con la nostra visione del mondo.
In questi trent’anni abbiamo trattato la globalizzazione come un processo scontato, un’estensione senza fine della forma di produzione e di scambio modellato sul sistema capitalistico, nella sua tarda versione americana.
Un allargamento continuo della dimensione produttiva e della sfera del consumo, teso a coprire tutta la superficie terrestre, per inglobare anche le regioni più remote e impenetrabili in un unico sistema di vita e di valori. Un processo che è andato avanti di pari passo con la crescita ipertrofica della finanza, ormai sganciata dal reale: il debito globale ormai vale 3 o 4 volte il PIL del pianeta Terra.
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Dissenso informato
Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili
Prefazione
di Vittorio Agnoletto
AA.VV.: Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, a cura di Elisa Lello e Nicolò Bertuzzi, Castelvecchi, 2022
«Non in televisione e non in prima serata, professore». Con queste parole Beppe Severgnini interrompe il prof. Andrea Crisanti che, la sera del 26 novembre 2021, durante la trasmissione Otto e mezzo, espone le sue perplessità sulla vaccinazione anti-Covid per i bambini; perplessità dovute alle limitate informazioni allora a disposizione della comunità scientifica. Severgnini insiste: «Ci sono i convegni e i congressi per dire certe cose; se voi le ripetete in prima serata, la gente si spaventa e non capisce più niente, mi creda».
27 novembre 2021. Il senatore a vita Mario Monti, durante la trasmissione In Onda, dichiara: «È una guerra, ma non abbiamo minimamente usato in nessun Paese una politica di comunicazione adatta alla guerra e forse oggi non si riesce più, anche se ci fosse una guerra vera, ad avere una comunicazione come quella che si aveva nel caso di guerre…»; «… La comunicazione di guerra significa che c’è un dosaggio dell’informazione […] bisogna trovare delle modalità meno, posso dire democratiche secondo per secondo…»; «In una situazione di guerra […] si accettano delle limitazioni alla libertà». La conduttrice Concita De Gregorio gli domanda chi dovrebbe decidere come dosare l’informazione; la risposta è netta: «… Il governo, ispirato, nutrito, istruito dalle autorità sanitarie».
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Capitalismo delle piattaforme, capital gain e revolving doors
di Andrea Pannone
Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Andrea Pannone, economista esperto nell'analisi dei processi di innovazione tecnologica e attualmente ricercatore senior alla Fondazione Ugo Bordoni. L’articolo, nell’analizzare le radici del profitto e del potere delle aziende a maggiore capitalizzazione, ha il merito di focalizzarsi su uno dei «meccanismi» reali con cui si costruisce la convergenza tra finanziarizzazione, grandi colossi hi-tech e potere politico.
Il contenuto dell'articolo è esclusiva responsabilità dell'autore e non coincide necessariamente con la posizione dell'Ente in cui lavora
Piattaforme digitali e «paradosso dei profitti»
La recente affermazione del «capitalismo delle piattaforme» – ossia di una forma organizzata di estrazione del valore basata sull’appropriazione dei dati e dei contenuti prodotti dagli utenti delle piattaforme digitali – ha fatto emergere tra molti ricercatori un notevole interesse sul concetto di «paradosso del profitto» (vedi ad esempio Eeckhout, 2021). Tale concetto è usato per spiegare perché, nelle ultime due/tre decadi, la maggior parte dei benefici economici derivanti dai progressi tecnologici connessi alla massiccia diffusione di Ict in tutti i settori dell’economia sono stati catturati da un numero estremamente limitato di imprese, che hanno aumentato a dismisura il proprio potere di mercato a scapito dei concorrenti e, di conseguenza, la propria capacità di aumentare i prezzi dei beni e servizi offerti, di comprimere i salari e di frenare la nascita di nuove imprese sul mercato. Dove sta il paradosso? Nel fatto che questo fenomeno contrasta con l’idea dominante, presente sin dagli albori della «rivoluzione digitale» nella letteratura economica e nei media, secondo cui l’uso generalizzato di Ict, combinato con la pervasività di Internet, avrebbe sicuramente eliminato quasi del tutto i vecchi intermediari nelle transazioni e abbattuto i costi connessi al funzionamento del meccanismo di mercato (noti come «costi di transazione» [1]). Questo processo avrebbe dovuto, nel tempo, guidare i mercati verso il funzionamento di perfetta concorrenza descritto nei testi di economia, che prevede prezzi decrescenti e tecnologie più efficienti a vantaggio dei consumatori.
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Il mondo secondo Xi Jinping: cosa crede davvero l’ideologo in capo della Cina
di Kevin Rudd
Introduzione a cura di Rete dei Comunisti
Traduciamo e pubblichiamo un articolo della prestigiosa rivista statunitense dedicata alle relazioni internazionali Foreign Affairs.
Scritto in prospettiva di commento del XX Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese che si svolge in questi giorni (lo abbiamo inquadrato qui), l’articolo si propone di inquadrare la visione del mondo del presidente Xi Jinping, che inizierà il suo terzo mandato proprio in questa occasione.
La rivista naturalmente si pone dal punto di vista dell’establishment della politica estera USA, quindi bisogna fare una accurata tara alle analisi espresse. A maggior ragione risulta interessante l’attenzione data a quella che viene individuata come la corrente ideologica più influente nell’azione di Xi, il marxismo-leninismo. Tale impianto teorico viene infatti sistematicamente ignorato dagli analisti occidentali, che, nonostante sia ancora l’ideologia ufficiale del PCC e della Cina, lo derubricano ad un pensiero morto senza influenza nel reale. L’influenza del pensiero marxista-leninista ha indubbiamente un peso nelle decisioni dei quadri del partito, che lo studiano approfonditamente.
Tuttavia la situazione è più complessa e, come qualsiasi cosa quando si parla di Cina, non può essere liquidata con semplicità da bianco/nero (abbiamo cercato di raccogliere contributi significativi per capire la Cina oggi all’interno di un Dossier Cina e in un numero dedicato di Contropiano). Se da un lato infatti sarebbe un errore accettare acriticamente i comunicati del PCC sul Socialismo con Caratteristiche Cinesi e individuare necessariamente la Cina come il Sol dell’Avvenire della rivoluzione globale, altrettanto sbagliato sarebbe considerare il paese come completamente rientrato nell’ovile capitalista a partire dal periodo di “riforme e aperture” sotto la guida di Deng.
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La guerra del silicio: perché Taiwan?
di Franco Maloberti
È ormai evidente che non c’è solo una guerra per l’energia ma anche un conflitto, fino ad ora silente ma altrettanto violento, sul controllo dei circuiti integrati (chiamati amichevolmente chip). Queste tesserine minuscole sono il cuore di quasi tutti gli apparati e sistemi moderni e la loro disponibilità fa la differenza tra dominio e dipendenza tecnologica. È sorprendente sapere che Taiwan detiene una quota del 64% del mercato globale delle fonderie di silicio. Il secondo produttore è la Corea del Sud con il 18%, poi la Cina con il 9%, e infine gli USA con un misero 6% [1].
Come si è arrivati a una tale situazione? La risposta la si trova lontano nel tempo, poco dopo gli anni 1980. Allora, gli Usa si resero conto, un po’ in ritardo, che la concorrenza giapponese aveva preso il sopravvento nella produzione di semiconduttori e in particolare delle memorie ad accesso dinamico (DRAM). La contromossa fu la creazione ad Austin nel 1987 di SEMATECH, un consorzio tra 14 industrie Usa e il governo americano [2]. L’obiettivo era risolvere problemi tecnologici e di produzione così da riguadagnare la competitività statunitense nel settore dei semiconduttori. Il dipartimento della difesa DARPA cofinanziò l’impresa con 100 milioni di dollari all’anno. La previsione era per un supporto statale di cinque anni; dopo il consorzio doveva sostenersi autonomamente. Al termine di tale periodo però, il programma fu prorogato per altri quattro anni. Dopo tale estensione, il consorzio ritenne non più opportuno godere di un ulteriore sostegno governativo. Dietro tale decisione, che creò ovvie difficoltà finanziarie, c’era un conflitto tra i diversi partecipanti. Alcuni abbandonarono e aziende non Usa furono invitate e accolte nel consorzio.
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“World alienation”. Dalla scoperta dell’America alla pandemia
di Ottavio Marzocca
1. L’alienazione dal mondo: eventi e implicazioni
Tre eventi segnano – secondo Hannah Arendt (1994) – l’inizio di ciò che nell’ultimo capitolo di Vita activa definisce alienazione dal mondo (world alienation nell’edizione originale dell’opera). Si tratta della scoperta dell’America, della Riforma protestante e dell’invenzione del telescopio.
1.1 La scoperta dell’America, secondo lei, inaugura la contrazione del globo che si realizza completamente con la perdita d’importanza delle distanze spaziali, provocata dal fatto che l’uomo moderno da allora ha cominciato a percorrere in lungo e in largo il pianeta con mezzi di locomozione sempre più veloci.
Infatti, nella nostra epoca ormai «[g]li uomini vivono (…) in una continuità globale che ha le stesse dimensioni della terra, una continuità in cui (…) la nozione di distanza (…) ha ceduto all’assalto della velocità» (ivi, p. 184).
Con la scoperta dell’America si innesca non solo un susseguirsi di altre scoperte, ma anche un accumularsi di conoscenze geografiche e cartografiche sempre più precise e dettagliate. Ne consegue «che nulla rimane immenso se può essere misurato, che ogni scoperta riunisce parti distanti e (…) stabilisce la prossimità dove prima regnava la distanza» (ivi, p. 185).
Si può dire perciò che «[p]rima della contrazione dello spazio e dell’abolizione della distanza a causa di ferrovie, navi oceaniche e aeroplani» si sia data «la contrazione infinitamente più grande e decisiva determinata dalla capacità di visione sintetica della mente umana», capacità sviluppatasi con l’elaborazione delle «mappe e [delle] carte di navigazione dei primi stadi dell’età moderna» (ibidem).
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Un volume sulla guerra ucraina: cause, impatto, conseguenze
di Andrea Catone
Introduzione al volume La guerra ucraina. Cause, impatto, conseguenze, a cura di Andrea Catone, Marx Ventuno edizioni, Bari 2022
Questo volume di “MarxVentuno” intende fornire strumenti di conoscenza, riflessione, analisi sulla guerra in corso e sulla nuova fase della storia mondiale che si è con essa avviata. Non esaurisce certamente il tema; alcuni aspetti del quale non sono qui ancora trattati; diverse questioni vanno riprese e approfondite. Ci impegniamo a farlo nei prossimi numeri, cercando di utilizzare al meglio quella “cassetta degli attrezzi” del marxismo, cui esplicitamente si richiama la nostra rivista.
L’intervento militare russo in Ucraina è oggetto di valutazioni diverse e contrastanti tra i partiti e gruppi di ispirazione comunista, socialista, marxista, sia a livello internazionale che in Italia. È di grande utilità a questo proposito l’ampio contributo di Fausto Sorini (datato a metà maggio), che, basandosi esclusivamente sulle risoluzioni e documenti ufficiali, traccia il quadro delle valutazioni e prese di posizione dei principali partiti comunisti nel mondo, concludendo, in estrema sintesi, che “la stragrande maggioranza dei comunisti a livello mondiale (tenendo conto del numero di iscritti, del consenso politico-elettorale, dell’influenza sui rapporti di forza mondiali) – oltre il 90% della forza complessiva – si è schierata dalla parte della Russia e ha fatto propria l’analisi strategica del quadro mondiale affine a quella del Pcfr. Ma tra questi, pochissimi hanno sostenuto apertamente l’intervento militare. Una piccola minoranza, con argomenti assai diversi al suo interno, ha assunto invece una posizione apertamente critica e/o di divergenza strategica”.
Anche in Italia vi sono state a sinistra posizioni articolate. I tre partiti comunisti che fanno capo alla rete Solidnet – Pci (segretario Mauro Alboresi), Prc (segretario Maurizio Acerbo), Pc (segretario Marco Rizzo) – e le diverse altre organizzazioni o gruppi della troppo frammentata galassia della sinistra italiana condividono la critica all’espansione ad est dell’Alleanza militare a guida Usa, di cui riconoscono il ruolo aggressivo.
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L’Occidente e la curva della rivoluzione
di Roberto Gabriele
"Cumpanis" riceve e molto volentieri pubblica questo importante contributo alla discussione del compagno Roberto Gabriele, auspicando che ciò sia l'inizio di una vera collaborazione
Da decenni molti compagni si sono arrovellati per trovare la soluzione al problema della ricostruzione di un partito popolare e di classe dopo la liquidazione del PCI, che ereditasse la parte migliore dell’esperienza comunista in Italia e rappresentasse un punto di ripresa di una visione mondiale del processo di trasformazione socialista.
La spinta emotiva per il crollo dell’URSS e lo scioglimento del PCI hanno portato a conclusioni affrettate su come reagire e questo spiega gli insuccessi registrati fino ad ora da coloro che hanno scelto la via del partito qui e subito. La valutazione è, peraltro, oggettiva e prescinde necessariamente dal grado di serietà o meno con cui questi tentativi sono stati condotti.
C’è bisogno, dunque, di ripartire da una analisi oggettiva delle cose per capire le difficoltà e i problemi da affrontare. L’analisi è tanto più necessaria quando si parla di paesi dell’occidente capitalistico, e tra questi l’Italia, dove l’urto delle contraddizioni è mediato da un sistema politico e da una condizione sociale che deve tener conto del ruolo dell’imperialismo e dei frutti che esso porta comunque alla società che lo esprime. Ricordiamoci a questo proposito ciò che Lenin sosteneva a proposito della classe operaia inglese.
Prescindendo però da considerazioni storiche, per cogliere i dati essenziali delle contraddizioni che vivono oggi anche i paesi capitalistici e porle alla base di un percorso di ricostruzione politica e organizzativa, bisogna necessariamente riferirsi all’insieme della dinamica del sistema imperiale occidentale senza cui non è possibile tracciare una strategia che punti a un processo di trasformazione del sistema economico e sociale anche in Italia.
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Una ciocca di capelli in Iran?
di Michele Castaldo
Inutile girarci intorno la questione è seria e complicata: l’Occidente ha sviluppato e costruito – attraverso la sua storia – un modello di rapporti sociali che il resto del mondo guarda con ammirazione e sgomento al tempo stesso, proprio mentre si avvia verso il crack il paese simbolo del liberismo, gli Usa. Dall’Iran all’India, o alla stessa Cina si moltiplicano i fenomeni di emulazione di costumi sorti in Occidente e che pongono la donna al centro della scena sociale, politica, culturale, religiosa e quant’altro ancora. Saranno anche minoritari certi episodi, ma segnano il senso di una tendenza destinata più a rafforzarsi che a ridursi. Altrimenti detto: l’Occidente ha sviluppato il culto del liberismo individualistico, ovvero il senso della libertà assoluta dell’individuo.
Come si affrontano tematiche così complicate e importanti che investono milioni di persone nei diversi continenti? Cerchiamo di ragionare sulla cosa senza veli ideologici, come purtroppo spesso si fa, o per partito preso come i tifosi di una squadra di calcio, ma entrando nel merito e cercando di storicizzare la questione, partendo sempre dai fatti per quello che sono realmente e non per quello che si vorrebbe che fossero, per ricavare le idee corrette su di essi.
«Le donne insorgono pubblicamente contro la polizia morale, una istituzione che sorveglia minuziosamente i comportamenti femminili», scrive Sergio Romano sul Corriere della sera di domenica 16 ottobre 2022. Posta nei termini in cui la pone Sergio Romano, chi oserebbe dare torto alle donne «che insorgono pubblicamente»? Qualunque persona, qui da noi, dotata di buon senso direbbe: ma che malfattori questi governanti persiani, questi islamici retrogradi, questi conservatori reazioni e chi più ne ha più ne metta.
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L’Europa alla canna del gas: disastri e profitti in tempo di guerra
di Giorgio Ferrari
L’espressione lessicale “essere alla canna del gas”, viene usata metaforicamente, tra il tragico e il grottesco, per rappresentare una situazione disperata tale per cui, volendo porvi fine, non resta che attaccarsi al tubo del gas e succhiare forte. Paradossalmente, dopo il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 (NS1 e NS2), questa possibilità non è più a portata di mano della stragrande maggioranza della popolazione europea la quale, ben lungi dal volersi suicidare, avrebbe voluto continuare a “succhiare” il gas russo (magari tappandosi il naso).
Nell’intricato scenario che abbiamo di fronte, l’azione distruttiva dello scorso 26 settembre contro i due gasdotti, segna una svolta nell’andamento del conflitto ukraino, non tanto da un punto di vista militare, quanto per le conseguenze ambientali e sociali che ne derivano.
Conseguenze ambientali
Entrambi i gasdotti erano fuori servizio al momento del sabotaggio, il NS1 per via delle controversie riguardanti le turbine Siemens della stazione di pompaggio russa, mentre il NS2 -benché ultimato e collaudato – non era mai entrato in servizio. Come previsto dalle norme di sicurezza internazionali, le quattro tubazioni di cui si compongono i gasdotti (anche se non operativi) erano piene di gas in pressione per cui la rapida depressurizzazione dei tubi conseguente alla rottura, ha causato la fuoriuscita del gas che vi era contenuto, stimato in 800 milioni di metri cubi (secondo Gazprom) o, più verosimilmente, tra i 400 e i 500 milioni, secondo altre stime, che hanno dato vita ad enormi bolle sulla superficie del Mar Baltico.
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Altro che abolizione della Fornero: il Governo che verrà è già all’attacco delle pensioni
di coniarerivolta
Il Governo Meloni non ha ancora preso forma, ma il contenuto reazionario della sua agenda è stato, sin dai primi giorni della campagna elettorale, orgogliosamente sbandierato ai quattro venti. In piena continuità con i precedenti governi, il programma della prima ministra in pectore si sviluppa sugli assi tradizionali delle politiche degli ultimi trent’anni: austerità di bilancio, attacco alla forza contrattuale dei lavoratori e allo Stato sociale (pensioni, istruzione, sanità, trasporti pubblici, etc.), riduzione delle tasse per i ricchi.
Più nel concreto, i partiti che si accingono a comporre la compagine di governo hanno agitato in campagna elettorale alcuni temi chiave esemplificativi della volontà di incarnare la variante “destra” di un programma neoliberista pienamente condiviso da tutto l’arco parlamentare: flat tax, eliminazione del Reddito di cittadinanza, esacerbazione del conflitto tra lavoratori autoctoni e stranieri. Nessun accenno, in questo coacervo di misure e spinte reazionarie, a qualsivoglia tematica sociale. Anzi, anche qui in perfetta continuità con la diffusa retorica padronale, le destre in ogni loro forma si sono più volte scagliate contro il Reddito di cittadinanza, reo – a loro avviso – di ridurre il numero di lavoratori (leggasi: schiavi) utili agli interessi delle imprese. Vi è, a dire il vero, un’altra apparente eccezione: l’annunciato intervento sulle pensioni per contrastare ancora una volta gli effetti più brutali della Legge Fornero che dal 2023, scadute le varie tamponature di quota 100 e 102, tornerebbe pienamente in funzione.
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Perché la transizione è verde
di L’Urlo della Terra
“Sebbene sia piuttosto vero che ogni politica radicale di applicazione delle teorie eugenetiche sarà impossibile per molti anni a venire (ragioni politiche e psicologiche lo impediranno), è importante che l’UNESCO continui a esaminare l’eugenetica con la massima attenzione, informando nel miglior modo possibile l’opinione pubblica sull’argomento e sulle sue possibili implicazioni. In questo modo, quello che oggi è considerato impensabile potrà in futuro almeno cominciare a essere preso in considerazione senza tabù di sorta.” Julian Huxley, 1946.
Nel programma di resettaggio e di Grande Trasformazione in corso tanti gli aspetti che vengono toccati, sia per trasformarli irrimediabilmente, sia per renderli obsoleti e quindi da destinare nel dimenticatoio della storia. Esiste però un aspetto che non solo è chiamato a comprendere tutti gli altri, ma ha anche origini più antiche: l’ecologia. Su questo tema vi sono questioni ampiamente denunciate e dibattute, a volte anche dagli stessi responsabili dell’ecocidio in atto. Nel tempo, denunciare il rischio ecologico e poi portare a risolverlo si è rilevato molto remunerativo per tutta l’industria, da quella chimica ed energetica a quella farmaceutica. Tutti parlano di ecologia, evidentemente a sproposito, per poi adottare strategie commerciali o politiche che rappresentano tutto l’opposto.
L’ecologia è talmente considerata che anche a Davos tra aguzzini della finanza e delle multinazionali gira una giovane ragazza in treccine che li riporta alle loro responsabilità in merito al cambiamento climatico, tanto da far percepire quasi un po’ di bonomia etica, ma è solo un attimo perché uno sguardo attento mostrerebbe subito gli artigli assassini di tutti costoro. Ormai sembra essere evidente ai più che tutta la ristrutturazione del comparto tecno-industriale si basa su retoriche ambientaliste, tanto che è stato coniato un termine specifico per evidenziare e denunciare questo fenomeno, ovviamente con un inglesismo: green wasching.
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Gli anni buoni, gli anni brutti e domani chissà!
di Valerio Romitelli
Premessa di Giorgio Gattei
Valerio Romitelli ha raccolto una serie di suoi interventi dal 2015 al 2021 (in parte occasionali, ma alcuni anche sistematici come “L’egemonismo, malattia senile del comunismo”) in un volume che ha intitolato L’emancipazione a venire. Dopo la fine della storia (DeriveApprodi, Roma, 2021) convinto com’è che l’emancipazione del/dal lavoro (però su questo scelta lui non si addentra) prima o poi ha da venire essendo iscritta nella “cosa del capitale” (alla faccia della maledizione keynesiana per cui «nel lungo periodo siamo tutti morti», ma «mica tutti assieme» gli aveva replicato la dispettosa discepola Joan Robinson). E a questa raccolta ha premesso una corposa introduzione in 13 punti che, «in barba alla complessità obbligatoriamente evocata in ogni discorso accademico contemporaneo, mireranno alla semplificazione sistematica dei temi affrontati».
In questa introduzione Valerio s’interroga, da «compagno/non compagno» (come si auto-definisce), ma «sempre controcorrente perchè condizione obbligatoria per poter pensare con la propria testa anche in merito a questioni come quelle politiche, le quali notoriamente obbligano alla condivisione con altri il più possibile estesa», su dove sia andata a finire la “sinistra di classe” e la specificazione è d’obbligo per evitare di confonderla con la melassa della “sinistra buonista” che sempre si commuove per la mala sorte degli sfruttati, dei poveri, dei deboli e li soccorre anche, ma non si propone mai il problema pratico, che innanzi tutto è teorico, di “superare” quella loro condizione di debolezza, povertà, sfruttamento.
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Eurafrica. Le origini coloniali dell’Unione Europea
Prefazione
di Étienne Balibar
Pubblichiamo la prefazione di Étienne Balibar al libro di Peo Hansen e Stefan Jonsson, Eurafrica le origini coloniali dell’Unione europea. Il libro, pubblicato in inglese, è stato recentemente tradotto in francese, da La Découverte, accompagnato da questo testo di Balibar. Su questo importante volume, Effimera ha pubblicato anche una recensione di Ludovic Lamant. La traduzione è di Salvatore Palidda.
Peo Hansen and Stefan Jonsson, Eurafrica: The Untold History of European Integration and Colonialism, Bloomsbury Publishing PLC, 2015
Peo Hansen et Stefan Jonsson, Eurafrique. Aux origines coloniales de l’Union européenne, préface d’Étienne Balibar, La Découverte, 2022
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Le circostanze in cui, in extremis, scrivo questa prefazione cui tenevo molto, sia per la stima che ho per gli autori, sia per l’importanza della questione che indagano, mi obbligano a essere breve. Ma non mi inducono a rinunciarvi, anzi.
Chiunque sia interessato all’Africa dovrebbe leggere questo libro e anche chiunque sia interessato all’Europa. E quindi chiunque sia interessato al mondo, di cui non c’è dubbio che l’Africa e l’Europa, insieme e separatamente, sono attori imprescindibili. Ma perché “Eurafrica”, questo strano composto (allo stesso tempo vicino eppure molto diverso, genealogicamente, da certi altri di cui si sente molto parlare in questo momento, come “Eurasia”)? Siamo abituati soprattutto forse sotto forma di aggettivo a “relazioni euro-africane”, “partenariato euro-africano”, apparentemente del tutto innocenti, puramente descrittivi.
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Putin, la NATO e noi
di Militant
Di seguito riportiamo il testo del nostro intervento, presentato durante il convegno nazionale dal titolo “La guerra in Ucraina, la crisi economica e il grande caos mondiale in arrivo. Che fare?”
La ‘questione guerra’ ha scompaginato il campo della sinistra radicale, almeno in Italia. Non è stata una novità, a ben vedere: è accaduto anche con la pandemia, pochi mesi prima. Divisioni, contrasti, imbarazzi e una fatidica incapacità di presentare quantomeno una lettura unitaria dei fenomeni in atto hanno confermato i problemi esistenti: invisibile nel “regime ordinario”, la sinistra che pretende di parlare a nome dei subalterni lo è anche in quello “straordinario”, totalmente incapace di “cogliere l’attimo” e di “accelerare la storia”, nonostante l’evidenza di essere una parte minoritaria della società e dunque l’opportunità di “fare di necessità virtù”.
Non fa parte degli obiettivi di questo intervento ipotizzare il perché di questa incapacità, “parossistica” anche rispetto a quanto capita negli altri Paesi occidentali. Qui vogliamo semplicemente sottolineare come le divisioni interpretative sulla guerra in Ucraina altro non sono che il punto di caduta di una questione spesso rimossa, ma che – quando affiorava – già nel passato era stata foriera di polemiche e contrasti. Mentre i contrasti sul Covid e, soprattutto, sulle misure di contenimento della pandemia dimostravano come il conflitto capitale vs lavoro avesse ormai ceduto il passo – nell’agenda di una sinistra radicale a parole, ma riformista nei fatti – alla centralità del sistema di libertà declinato individualmente, l’andare in ordine sparso sulla guerra è la conseguenza delle diverse valutazioni sul carattere imperialistico o meno della Russia di Putin.
Dicendo questo, vogliamo evitare un errore di fondo, che pure connota molte opinioni “di sinistra”: considerare l’attacco russo del 24 febbraio come un evento estrapolato dal contesto, finendo per assolutizzarlo.
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Resilienza: adattarsi a un mondo tossico
di Silvia Guerini
L’ultimo uomo è l’umano resiliente in perfetta sintonia con i dettami di Davos: dinamismo resiliente era una frase lanciata dal WEF nel 2013. Schwab delinea una società più inclusiva, resiliente e sostenibile. Non è un caso che il piano nazionale per l’economia approvato nel 2021 in Italia dopo la pandemia dichiarata al fine di velocizzare la transizione ecologica e digitale sia stato chiamato Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La parola resilienza entra così a pieno titolo nel leitmotiv di inclusività e sostenibilità. In perfetta sintonia con la fluidità che deve contraddistinguere ogni cosa e diventare una caratteristica di ogni individuo.
La resilienza in ingegneria si riferisce alla proprietà dei metalli di assorbire un urto seguendo il corso delle deformazioni senza spezzarsi. Così, come per i metalli, all’umano nelle nuove geometrie del mondo tecnomorfo viene chiesto di diventare poroso per assorbire ogni tipo di tossicità e di diventare plastico in grado di deformarsi senza più tenere memoria del suo stato originario. Dalla meccanica dei corpi alla meccanica dello spirito per una sopportazione dell’insopportabile.
In ambito psicologico la resilienza rappresenta la capacità di attraversare e superare dei traumi, per riuscire a far fronte a delle situazioni immodificabili come l’avvento di un tumore o la morte di una persona cara.
Quando alcune parole vengono fatte proprie dal potere chiediamoci cosa andranno poi a significare e cosa andranno a rappresentare nelle trasformazioni e metamorfosi messe in atto dal potere stesso. La resilienza, da qualità che può essere considerata positiva in ambito strettamente psicologico, viene resa modus operandis, ideologia, imperativo dominante.
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“Ricordare il futuro”
di Salvatore Bravo
Ricordare un autore significa renderlo compagno di viaggio nel presente, solo in tal modo il suo pensiero può dispiegarsi verso ciò che verrà. Non si tratta di idolatrica venerazione, nulla è più distante dalla filosofia, ma di confronto dialettico e plastico. Pensare un autore è confliggere, discorrere, prendere le distanze da errori e posture ideologiche non condivisibili. Il nuovo ha il suo “humus” nell’incontro-scontro, si tratta di un urto fecondo dal quale possono emergere nuove prospettive. Nessun autore pensato “resta nell’astratto” della mente, pensare in filosofia è prassi critica, per cui il pensiero si concretizza nell’effettualità della storia ponendo un proficuo circolo dialettico.
L’attività del pensiero è intenzionalità significante, pertanto gli autori nascono a nuova vita nella razionalità che li accoglie. Siamo vicini al decennale della morte di Costanzo Preve, nel 2023 saranno dieci anni dalla sua morte. La morte di un autore non conclude il suo ciclo razionale, in quanto le sue idee possono germinare al sole della critica e della ricerca.
Le sue parole sono state un confronto aspro e profondo con il suo e il nostro tempo, ciò che ha scorto e ha anticipato con lo sguardo della filosofia è tra di noi. Non voglio, pertanto soffermarmi sui testi pubblicati o solo sull’analisi al capitalismo, ma, forse, è il caso di porre in atto un riorientamento gestaltico, cambiare prospettiva, palesare gli aspetti costruttivi presenti nella filosofia di Costanzo Preve attraverso le sue interviste. Queste ultime si connotano per la spontaneità colloquiale non disgiunta dalla chiarezza concettuale.
La filosofia non è solo “domandare profondo” che apre campi semantici di ricerca, ma è anche fatica della risposta.
La fatica del concetto è l’incontro tra domanda e risposta.
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Capitale e natura. Dai “sapiens” al critico dominio del dollaro
di Carla Filosa
Unità di natura e modo di produzione storico
Un nuovo libro intitolato “Noi siamo natura” di Gianfranco Bologna, Edizioni Ambiente, sembra proporre un’ottica di cultura al servizio dell’azione a difesa dell’ambiente, senza avere più molto tempo per attardarsi. Ciò premesso, come possibile indicazione di riferimento di recentissima stesura, per affrontare il problema climatico che oggi mostra aspetti disastrosi già parzialmente visibili, si propone di considerare i cambiamenti climatici naturali separatamente da quelli determinati dalle attività umane. Questo per concentrarsi sui mutamenti, non da un punto di vista tecnico da demandare agli esperti del settore, ma da un punto di vista sia proprio della natura sia sociale e storico.
È bene rammentare che sul riscaldamento climatico (Global Warming), e non solo, si fa qui riferimento alle analisi effettuate sin dagli anni ’50 dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), quale massimo consesso mondiale di esperti sul clima. Al contrario, non si intende prendere nemmeno in considerazione le tesi relative all’“allarmismo climatico”, volte a minimizzare le rilevazioni scientifiche che potrebbero compromettere la regolare continuità delle incidenze umane. Queste sono infatti considerate altamente probabili – la cui possibilità è data al 95-100% - su un riscaldamento dell’atmosfera terrestre e degli oceani, che comporterebbe disastri quali scioglimento di nevi e ghiacci con conseguente innalzamento dei mari, pericolo per gli insediamenti umani sulle coste delle terre emerse, concentrazione di gas serra tra cui soprattutto CO2, ecc.
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Una visione eterodossa della Cina*
di Pompeo Della Posta
Pompeo Della Posta sostiene che parlando della Cina, i media europei si soffermano molto spesso sugli aspetti negativi che la caratterizzano, ignorando o sottostimando, quelli positivi e che ciò rischia di alimentare una crescente contrapposizione con l’UE, oltre a quella, già evidente, fra USA e Cina. Della Posta tenta di riequilibrare la narrativa su quel paese, con l’intento di favorire il mantenimento di un contesto di comprensione e dialogo con l’UE e aiutare così le prospettive di pace in un contesto internazionale sempre più difficile
Il XX Congresso del Partito comunista cinese, che si apre proprio mentre vengono licenziate queste note, vedrà, con ogni probabilità, la riconferma di Xi Jinping come Segretario generale del Comitato centrale per i prossimi 5 anni. La sua eventuale conferma sarà possibile grazie ad una modifica costituzionale del precedente limite di 2 mandati. Sotto la sua guida, iniziata 10 anni fa la percezione che il mondo ha della Cina è profondamente mutata. Nel parlare del “paese di mezzo”, infatti, i media europei si stanno soffermando in maniera crescente sugli innegabili aspetti critici che lo caratterizzano (ad esempio la censura operata sull’informazione), spesso utilizzando esclusivamente un metro di giudizio occidentale, senza porli in prospettiva storica, geografica o culturale e senza considerare la specificità di un paese popolato da 1 miliardo e 400 milioni di persone. Sono generalmente del tutto ignorati o sottostimati quelli positivi (fra le poche eccezioni vi è un articolo della Harvard Business Review che sottolinea “ciò che l’Occidente sbaglia sulla Cina”).
Tutto questo sta condizionando il sentimento comune nei confronti di quel paese, ma soprattutto rischia di alimentare la contrapposizione frontale con l’Unione europea (UE) , che andrebbe ad aggiungersi a quella, già evidente, fra Stati Uniti (USA) e Cina, con conseguenze per le prospettive future di pace nel mondo.
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