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«Grigio è l'albero della vita, verde è la teoria»
di Sandrine Aumercier
Il testo di Robert Kurz che recava questo titolo, apparve su Exit! nel 2007. In esso Kurz si prefigge di smontare tutte le «teorie dell'azione» che a partire dagli anni Sessanta si sono via via succedute, e delle quali è stato un contemporaneo, e persino un militante. Per mettere le cose in prospettiva: Kurz è stato un militante attivo nel movimento studentesco del 1968, dapprima all'interno dell'SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund) e poi sotto le bandiere dell'opposizione extraparlamentare (APO, in contrasto sia con l'SPD, il Partito Socialdemocratico della Germania Ovest, sia rispetto all'URSS). Dopo la disgregazione dell'SDS, si venne a formare una costellazione di K-Gruppen; piccoli gruppi, per lo più maoisti, che formarono la Nuova Sinistra. Kurz vi ebbe parte attiva, scrivendo articoli e opuscoli insieme ad altri. Espulso dal suo gruppo nel 1976, insieme ad altri partecipò poi alla creazione di una «nuova corrente» marxista-leninista, che si rivelò essere un altro fallimento. Mentre molti altri ex partecipanti alle K-Gruppen si convertirono via via ai Verdi tedeschi e ai movimenti antimperialisti, nel 1984 Kurz lanciava, insieme ad altri, l'Iniziativa Marxistische Kritik, una struttura che avrebbe dovuto costituite le premesse per uno studio delle basi teoriche della militanza di sinistra [*1]. Nel 1984 pubblica un pamphlet dal titolo «Epitaffio per il nuovo piagnisteo», seguito nello stesso anno da «Crepe e provocazioni. Un regolamento di conti con la sinistra e la scena alternativa». Gli autori (tra cui Kurz) attribuiscono alla loro «critica radicale... della coscienza della scena oppositiva in questo paese», tutte le veementi reazioni. La critica era quindi già specificamente rivolta alla «coscienza di sinistra», e l'obiettivo di questo regolamento di conti era, in maniera particolare, la fantasmagoria di una «scena» alternativa, a partire dalla quale si sarebbe potuto rovesciare il sistema capitalistico.
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Il grano e il tulipano: a lezione da Dgiangoz (“La D è muta”. “Lo soooo”!)
Cronache marXZiane n. 9
di Giorgio Gattei
1. Nel corso del mio prolungato soggiorno sul pianeta Marx, dove sono stato trascinato dall’astronave marxziana “La Grundrisse” (vedi Cronache MarXZiane n. 1) mi ero fatto l’idea che la presenza delle cosiddette “merci non-base”, che sono una componente significativa del suo panorama, potesse avere una qualche parte nella “legge di caduta” del suo Saggio Massimo (di profitto). Ricordo i due termini in questione: Saggio Massimo è il maggiore dei saggi del profitto qualora non si paghino salari (il che succede in una estrema periferia del pianeta che ho visitato) e questo è evidente: essendo il profitto P = (Y – W) con Y = prezzo del Prodotto al netto del capitale impiegato K e W = ammontare dei salari, per W = 0 sarà:
max r = R = Y/K
da cui si vede subito come Saggio Massimo non sia poi altro che l’inverso del ben più noto rapporto Capitale/Reddito (sebbene questa coincidenza non abbia mai ricevuto sufficiente attenzione).
A loro volta le “merci non-base” sono quelle merci che, secondo la definizione rigorosa data da Piero Sraffa, pur essendo state prodotte come ouput non entrano come input nella produzione delle altre merci – e non si pensi che siano poche queste merci se in esse vanno compresi i “beni di lusso” dei signori ma pure i beni-salario acquistati dai lavoratori oltre il loro consumo necessario e le spese pubbliche improduttive dello Stato, come gli armamenti o le “buche per terra” di keynesiana memoria. Insomma, sono così tante e diverse queste merci non-base che, per non far torto a nessuna di loro, le ho generalizzate ai tulipani che sono un bene ad esclusivo utilizzo ornamentale e che sono anche stati curiosamente oggetto, come ho ricordato nella Cronaca precedente, della prima speculazione finanziaria “di massa” della storia.
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Giudizio universale senza pause (e senza appelli)
di Il Rovescio
Anche il Giudizio Universale ha le sue pause.
Christian Friedrich Hebbel, Diari (1835-1863)
L’appello di rado evita di cadere nel missionario; e v’è chi se ne turba. Certo, tutti sanno quanto siano rudi e per nulla pensosi di sé e degli altri gli edili e i villici; dubito, tuttavia, che se andremo ad avvertirli che la guerra atomica fa male, quelli si metteranno a scuotere le teste dialettali, chiosando: «Be’, se lo dicono quelli, qualcosa di vero ci deve essere». […] Certo, a firmare o compilare codesti documenti «si ha ragione»; ma non v’è una qualità corruttrice, qualcosa di stranamente degradante nell’«aver ragione», quasi quanto nel vincere una guerra?
Giorgio Manganelli, «Alcune ragioni per non firmare gli appelli», in Lunario dell’orfano sannita, 1973
«Mai mettere in gioco la propria sorte se non si è disposti a giocare con tutte le proprie possibilità». Il vecchio adagio non vale solo per i poveri e per i rivoluzionari, ma anche per gli Stati, i capitalisti e i tecnocrati. Quando i dadi sono tratti, e oggi lo sono, si possono pagare care tanto le avventure della potenza quanto la titubanza delle mezze misure. Le prime possono diventare la classica fine nell’abisso, le seconde l’altrettanto classico abisso senza fine.
La mossa da parte della Federazione russa di annettere i territori di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporož’e alza drammaticamente la posta in gioco, rendendo, come noto, eventuali attacchi dell’esercito ucraino oltre i nuovi confini una «minaccia esistenziale» per lo Stato russo, minaccia che consentirebbe l’uso di ogni mezzo, comprese le armi atomiche “tattiche”. La concomitante «mobilitazione parziale» di trecentomila riservisti è stata accompagnata da due fenomeni interni opposti: da un lato, il riaccendersi delle proteste (e delle azioni dirette contro i centri di reclutamento) nonché la fuga di migliaia di giovani dal Paese; dall’altro, gli inviti dei settori più bellicisti a schiacciare le forze ucraine una volta per tutte.
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L’anti-Clausewitz
di Enrico Tomaselli
Formalizzato da Carl von Clausewitz nel suo Della Guerra, pubblicato negli anni trenta dell’800, il principio della guerra come proseguimento della politica con altri mezzi è in realtà sempre stato considerato da tutti i teorici dell’arte militare – da Machiavelli a Sun Tzu, da Giap a Gerasimov. Si potrebbe in effetti dire che sia un principio talmente vero da risultare ovvio, ma in realtà non è poi così nei fatti. Quel che è certo è che questo principio trova la sua massima applicazione nel corso del 900, quando alle classiche linee di frattura geopolitiche si aggiungono quelle ideologiche, facendo quindi della guerra uno strumento quasi privilegiato della/dalla politica
La guerra rivoluzionaria
È interessante notare come, proprio nel corso del novecento, l’ideologizzazione della guerra produca un fenomeno speculare, le cui ricadute – come vedremo – si presentano ancora oggi in modo per certi versi sorprendente. Il secolo scorso, infatti, vede la nascita della guerra rivoluzionaria, che non è semplicemente lo strumento bellico messo al servizio di una politica – appunto – che si prefigge la rivoluzione, ma è a tutti gli effetti, e prima d’ogni cosa, una rivoluzione della guerra. Per certi versi paragonabile a quella napoleonica.
Anche se tendenzialmente il pensiero va al Mao Tze Dong della lunga marcia, il vero teorico della guerra rivoluzionaria è il vietnamita Võ Nguyên Giáp. È lui che guiderà la lotta di liberazione del popolo vietnamita, dapprima contro la Francia e poi contro gli Stati Uniti. Ed a questi due conflitti sono legati altri due fattori importanti, ai fini della presente riflessione.
Innanzitutto, è nel corso del conflitto indocinese (e poi durante la guerra di liberazione algerina) che l’idea di guerra rivoluzionaria viene assimilata (e rielaborata) da un esercito occidentale; all’interno dell’esercito coloniale francese, infatti, la temperie di questi due conflitti fa maturare la consapevolezza che la guerra non è più semplicemente una questione tra eserciti contrapposti e, pertanto, va affrontata con logiche strategiche e tattiche assai diverse.
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Senza mobilitare le masse e abbandonare il culto del passato sarà difficile la vittoria di Lula
di Juraima Almeida*
In questo articolo l’autrice sostiene che in questo mese che ancora manca al secondo turno la candidatura di Lula deve cambiare la strategia seguita finora: mobilitare le masse e abbandonare il culto del passato, che si riassume nel tormentone di Lula ‘durante il mio governo…’
Nelle elezioni brasiliane di domenica scorsa l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva è stato il candidato più votato per la presidenza, ma gli è mancato l’1,7% dei suffragi per imporsi al primo turno sull’attuale presidente dell’ultradestra Jair Bolsonaro: l’epico duello tra i due si risolverà nel ballottaggio del 30 ottobre.
Il vantaggio di Lula su Bolsonaro è stato di quattro scarsi punti percentuali, nonostante tutti i sondaggi e le indagini prevedessero un vantaggio tra sette e dieci punti: questa è stata la prima vittoria dell’attuale mandatario. Ma la vittoria più pesante è stata riportata sia nella formazione di quello che sarà a partire dal 2023 il Congresso che nei governi provinciali.
Bolsonaro è riuscito a mantenersi in partita e continuare nella competizione per almeno altre quattro settimane: c’è stata la crescita di una base ampia e apparentemente solida che oscilla tra la destra e l’ultradestra.
Per qualsiasi analisi sul futuro bisogna partire dalla realtà, perché come segnala il direttore del Centro Latinoamericano de Análisis Estratégico, Aram Aharonian, la società brasiliana non è la stessa di 19 anni fa, quando quell’ex operaio metallurgico di Sao Bernardo do Campo e dirigente della Central Única de Trabajadores (CUT), cavalcando un’ondata di speranza, arrivò al governo (e al potere?). Il tempo passa…
Ed è assolutamente vero: molto è successo in questi ultimi due decenni e domenica le urne hanno dimostrato che i più poveri dei poveri delle periferie urbane non hanno votato -come si credeva- massicciamente per il PT e il suo candidato. Ora, anche vincendo, sarà difficile governare essendo in minoranza in Parlamento.
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Filosofia della praxis e “apprendimento storico”
Su "La questione comunista" di Domenico Losurdo
di Massimo Baldacci (Università di Urbino)
0. Premessa
La questione comunista, il libro postumo di Losurdo (2021) curato da Grimaldi, mi pare avvicinabile ad altri volumi di questo studioso: Marx e il bilancio storico del Novecento (2009); Il marxismo occidentale (2017). In queste opere, infatti, la ricostruzione storica appare indirizzata a un ripensamento degli orizzonti odierni e di quelli futuri, secondo un taglio critico che non cade mai nel dottrinarismo.
In questo saggio, intendo avanzare una chiave di lettura particolare (concepita da un’angolatura pedagogica) di questo lavoro postumo di Losurdo; indicare la problematica che autorizza l’uso di tale chiave interpretativa; e, infine, mostrare un esempio paradigmatico reperibile nel testo in questione.
1. La filosofia della praxis come pedagogia sociale
In questo volume, Losurdo legge la storia dell’idea di comunismo secondo il metodo del materialismo storico, non come una astratta disputa ideologica, bensì muovendo dall’esperienza storica reale. Questo atteggiamento teorico è espressamente dichiarato nelle conclusioni del volume:
«Marx ed Engels: nell'analisi della Rivoluzione francese o inglese non prendono le mosse dalla coscienza soggettiva dei loro protagonisti o degli ideologi che le hanno invocate e ideologicamente preparate, bensì dalla indagine sulle contraddizioni oggettive che le hanno stimolate e sulle caratteristiche reali del continente politico sociale scoperto o messo in luce dagli sconvolgimenti verificatisi […] Perché dovremmo procedere diversamente nei confronti della Rivoluzione d’ottobre?»1.
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Le tendenze del capitale nel XXI secolo, tra "stagnazione secolare" e guerra
di Domenico Moro
La realtà geopolitica dell’inizio del XXI secolo va studiata a partire dalla categoria di modo di produzione. Tale categoria definisce i meccanismi di funzionamento del capitale in generale, astraendo dalle singole economie e dai singoli Stati. Per questa ragione, dobbiamo far interloquire la categoria di modo di produzione con quella di formazione economico-sociale storicamente determinata, che ci restituisce il quadro dei singoli Stati e delle relazioni tra di loro in un dato momento.
Inoltre, il nostro approccio dovrebbe essere dialettico, basato cioè sull’analisti delle tendenze della realtà economica e politica. Tali tendenze non sono lineari, ma spesso in contraddizione con altre tendenze. Solo lo studio delle varie tendenze contrastanti può permetterci di delineare i possibili scenari futuri.
- La “stagnazione secolare”
L’economia capitalistica mondiale è entrata in una fase di “stagnazione secolare”. A formulare tale definizione è stato nel 2014 Laurence H. Summers, uno dei principali economisti statunitensi, ministro del Tesoro sotto l’amministrazione Clinton e rettore dell’Università di Harvard. Summers ha mutuato il termine di “stagnazione secolare” dall’economista Alvin Hansen, che lo coniò durante la Grande depressione degli anni ’30, che iniziò con la crisi borsistica del 1929. L’attuale “stagnazione secolare” inizia, invece, con la crisi del 2007-2009, seguente allo scoppio della bolla dei mutui subprime.
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Non so più a chi appartengo. Autodafé dell’antropologia culturale
di Andrea Sartori
Nel 1892, il medico e sociologo ungherese Max Nordau pubblicava un libro che avrebbe avuto immediatamente una grande eco in tutta Europa, Degenerazione. In piena fin de siècle, Nordau se la prendeva non solo con l’arte che considerava corrotta – a partire da quella decadente, incluso Oscar Wilde – ma dava soprattutto voce a un disagio innescato dalla turbolenza politica, sociale ed economica di quegli anni, per altro verso ricchi di speranze nel progresso e pertanto di promesse tutte da mantenere. In sintesi, scriveva Nordau, “le sensazioni dell’epoca sono straordinariamente confuse, constano di instancabilità febbrile e di scoraggiamento represso, di presentiti timori e di umorismo forzato. Il sentimento che prevale è quello d’una fine, di uno spegnimento” (Degenerazione, Bocca, 1913, p. 5). Un iper-attivismo che girava a vuoto – ma a cui i media dell’epoca davano grande risalto – faceva velo a una disillusione di fondo; i sorrisi comandati e falsi dell’ipocrisia sociale, e della sua insopportabile retorica – più tardi messa sulla graticola da Luigi Pirandello – a stento nascondevano paure profonde circa la direzione che l’Europa stava prendendo, e che in poco più di vent’anni l’avrebbe condotta sul baratro della Grande Guerra.
Se v’era una Stimmung, essa aveva a che fare con un graduale rallentamento del ritmo della vita, anzi, con un “sentimento” di “spegnimento”. Quest’ultimo contrastava la baldanza, la frenesia e lo slancio cinetico con cui da una nazione all’altra s’idolatravano i passi in avanti della scienza, dell’organizzazione sociale, riflessi tra l’altro nel sogno colonialista.
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Kharkov e la mobilitazione
di Jacques Baud - thepostil.com
La riconquista della regione di Kharkov all’inizio di settembre sembrerebbe essere un successo per le forze ucraine. I nostri media hanno esultato e trasmesso la propaganda ucraina allo scopo darci un quadro non del tutto accurato. Uno sguardo più attento alle operazioni avrebbe potuto indurre l’Ucraina ad essere più cauta.
Da un punto di vista militare, questa operazione è una vittoria tattica per gli Ucraini e una vittoria operativa/strategica per la coalizione russa.
Da parte ucraina, Kiev era sotto pressione per ottenere qualche successo sul campo di battaglia. Volodymyr Zelensky temeva che l’Occidente si sarebbe stancato, riducendo quindi gli aiuti militari all’Ucraina. Per questo motivo, gli Americani e gli Inglesi avevano fatto pressioni affinché portasse a termine alcune offensive nel settore di Kherson. Queste offensive, intraprese in modo disorganizzato, con perdite sproporzionate e senza successo, hanno creato tensioni tra Zelensky e il suo staff militare.
Per diverse settimane gli esperti occidentali hanno messo in dubbio la presenza dei Russi nell’area di Kharkov, dato che chiaramente non avevano intenzione di combattere per la città. In realtà, la loro presenza in quest’area aveva solo lo scopo di bloccare le truppe ucraine e impedire il loro trasferimento nel Donbass, che è il vero obiettivo operativo dei Russi.
Ad agosto, alcuni indizi avevano suggerito che i Russi avevano pianificato di lasciare l’area ben prima dell’inizio dell’offensiva ucraina. Si erano quindi ritirati in buon ordine, insieme ad alcuni civili che avrebbero potuto essere oggetto di rappresaglie.
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Fuga o protesta?
di Mauro Boarelli
Cosa dicono i numeri (e cosa non dicono)
La previsione si è avverata. Il partito (post)fascista è stato quello più votato alle ultime elezioni politiche. Per la prima volta nella storia del dopoguerra il governo sarà guidato da una personalità proveniente da una cultura politica antitetica a quella che ha dato origine all’Italia repubblicana, una cultura avversata nella lotta politica, nelle carceri e al confino, nella guerra partigiana da tutte le correnti di pensiero che hanno cooperato nella scrittura della Costituzione. Un mutamento di paradigma sintomo e causa al tempo stesso della lunga crisi del sistema politico e rappresentativo che giunge ora a un punto di svolta.
Certo, il dato elettorale va contestualizzato. L’affermazione della destra non è così netta come emerge dalla distribuzione dei seggi. La coalizione, infatti, ha ottenuto circa 150.000 voti in più rispetto alle elezioni precedenti, un incremento molto modesto. L’effetto valanga è dovuto unicamente a una legge elettorale che distribuisce un numero rilevante di seggi in modo del tutto abnorme rispetto al reale peso elettorale, una legge targata Pd e concepita da un ceto politico incapace e irresponsabile. La maggioranza parlamentare (e di conseguenza la composizione del governo) sarebbe stata diversa se gli strumenti della democrazia rappresentativa fossero stati usati tenendo fermi i principi costituzionali, ma in ogni caso l’espansione impressionante di Fratelli d’Italia (che aumenta del 410% i propri voti) è un segno inequivocabile del mutamento culturale in atto.
L’altro aspetto centrale del mutamento è l’astensionismo.
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L’euro senza l’industria tedesca
di Michael Hudson*
La reazione al sabotaggio di lunedì 26 settembre di tre dei quattro gasdotti Nord Stream 1 e 2 si è concentrata sulle speculazioni su chi sia stato e se la NATO farà un serio tentativo di scoprire il colpevole. Tuttavia, invece del panico, si è tirato un grande sospiro di sollievo diplomatico, persino di tranquillità. La disattivazione di questi gasdotti pone fine all’incertezza e alle preoccupazioni dei diplomatici USA/NATO, che, la settimana precedente, avevano quasi raggiunto l’apice di una crisi, quando in Germania si no svolte grandi manifestazioni per chiedere la fine delle sanzioni e la messa in funzione del Nord Stream 2 per risolvere la carenza di energia.
L’opinione pubblica tedesca stava capendo il vero significato della chiusura delle aziende siderurgiche, di fertilizzanti, di vetro e di carta igienica. Queste aziende prevedevano di dover cessare completamente l’attività – o di trasferirla negli Stati Uniti – se la Germania non si fosse ritirata dalle sanzioni commerciali e valutarie contro la Russia e non avesse permesso la ripresa delle importazioni di gas e petrolio russi e, presumibilmente, la riduzione da otto a dieci volte del loro astronomico aumento dei prezzi.
Eppure, la guerrafondaia Victoria Nuland del Dipartimento di Stato aveva già dichiarato a gennaio che “in un modo o nell’altro il Nord Stream 2 non sarebbe andato avanti” se la Russia avesse risposto all’incremento degli attacchi militari ucraini contro gli oblast orientali russofoni. Il 7 febbraio, il presidente Biden aveva ribadito l’intenzione degli Stati Uniti, promettendo che “il Nord Stream 2 non ci sarà più. Vi porremo fine. Vi prometto che saremo in grado di farlo.”
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Sraffa, Il rapporto con Marx
La parabola dell’economia politica – Parte XXIV
di Ascanio Bernardeschi
Il modello di Sraffa rappresenta un’economia in equilibrio statico e ha finalità completamente diverse da quelle di Marx che intendeva indagare le leggi di movimento del modo di produzione capitalistico. Pertanto non è opportuno giudicare la coerenza del sistema di analisi marxiano con il metro di Sraffa.
Abbiamo visto che Sraffa utilizza la merce tipo, come metro che consente di valutare le merci senza fare alcun riferimento al tempo di lavoro e al contempo senza subire l’influsso delle variazioni nella distribuzione del reddito. Siamo di fronte a un modo completamente nuovo di determinare i prezzi e la distribuzione del reddito attraverso i parametri della tecnica, tutti ugualmente influenti a tale scopo, e non a partire dal solo tempo di lavoro diretto e indiretto, una volta conosciuta una variabile distributiva. Pertanto non si parla più di plusvalore, ma di sovrappiù, di una quantità di merci eccedente quella impiegata nella produzione.
Il sistema tipo, che ci consente di ragionare in termini di quantità fisiche a prescindere dai prezzi, rende visibile la relazione inversa tra salario e saggio del profitto. Viene designato con R il rapporto incrementale tra l’intero neovalore, o prodotto netto, e l’input di lavoro e mezzi di produzione, rapporto che è possibile determinare in termini di quantità fisiche. È chiaro che se il salario fosse pari a zero R sarebbe anche il corrispondente saggio del profitto, il limite massimo che può assumere tale saggio. Ponendo ω come la quota del prodotto netto che va ai salari, otteniamo che il saggio del profitto effettivo è dato da
r=R(1-ω) (1)
cioè sono evidenti gli interessi contrapposti di lavoratori e capitalisti.
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Sull’attacco terroristico al reddito di cittadinanza
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Grigia è ogni teoria, caro amico. Verde è l’albero aureo della vita.” (Goethe – Faust)
Chi ci conosce, sa bene che abbiamo sempre ritenuto il reddito di cittadinanza come poco più che un’elemosina di stato, e ciò da molto prima che il governo Conte 1 lo rendesse realtà.
Per decenni la “fu” sinistra di classe si è fronteggiata duramente e si è divisa attorno al tema delle rivendicazioni immediate per il contrasto alla disoccupazione di massa, fattore fisiologico e “necessario” al normale funzionamento del modo di produzione capitalistico ad ogni latitudine.
Tale confronto si è articolato nel tempo essenzialmente attorno a 3 posizioni:
A) i sostenitori del “lavorismo a tutti i costi”, in larga parte eredi delle concezioni staliniste e togliattiane, secondo i quali “solo il lavoro nobilita l’uomo” e solo attraverso la (s)vendita della propria forza-lavoro, a qualsiasi condizione imposta dai padroni, un proletario può acquisire la “patente” di soggetto antagonista al capitale: per costoro il disoccupato, in sostanza, non è altro che un proletario di “serie B”, o peggio un “sottoproletario“, in quanto tale non meritevole di particolare attenzione politica né tanto meno portatore di interessi che vadano al di là di quello a trovare un impiego, qualsiasi esso sia.
B) la vulgata “post-operaista”, secondo la quale le trasformazioni del capitalismo contemporaneo prodotte dalla cosiddetta “globalizzazione”, e in primis dall’automazione su larga scala, avrebbero portato al definitivo superamento della centralità del conflitto capitale-lavoro e all’emergere di una “moltitudine” di esclusi dal ciclo di produzione, quindi di un “nuovo soggetto” sociale la cui ricomposizione dovrebbe avvenire principalmente attraverso la rivendicazione di un “reddito di base universale“.
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‘Spazio-tempo' e potere alla luce della teoria dell'egemonia
di Fabio Frosini
Da L. BASSO , S. BRACALETTI , M. FARNESI CAMELLONE , F. FROSINI , A. ILLUMINATI , N. MARCUCCI , V. MORFINO, L. PINZOLO , P.D. THOMAS , M. TOMBA: Tempora multa. Il governo del tempo, Mimesis, 2013
1. Temporalità plurale e/o contingenza?
Esiste nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci1 una teoria delle temporalità plurali? La risposta è all’apparenza semplicissima: alla luce della nozione di egemonia, ogni identità è il prodotto di un’unificazione politica di elementi eterogenei. Pertanto, se per ‘tempo’ s’intende il ritmo unitario di un’esperienza storica, l’unitarietà di tale ritmo è l’esito contingente di una serie di pratiche egemoniche, e non ha altra esistenza, che quella conferitale dall’intreccio di tali pratiche. L’unità sorge sullo sfondo della pluralità senza annullarla mai del tutto, l’universalità è condizionata dalla parzialità.
Questa tesi, sostenuta con intelligenza da Ernesto Laclau2, finisce per fare dell’egemonia un equivalente dell’esercizio del potere e un sinonimo di ‘oggettività’. La ‘verità’, che all’oggettività dei significati istituiti dal potere sfugge come un suo scarto ineliminabile (secondo una modalità di tipo post-strutturalistico), si dà ai margini del funzionamento ‘a regime’ dell’egemonia. Per pensare il nesso di co-implicazione e, al contempo, di mutua esclusione di oggettività e verità, di egemonia e politica, Laclau fa appello alla dicotomia spazio/tempo, laddove il tempo va pensato non nella forma spazializzata della diacronia, ma come «l’esatto opposto dello spazio»3, e pertanto, se lo spazio è struttura, organizzazione chiusa di significati, il tempo sarà necessariamente una «dislocazione della struttura», cioè un suo «malfunzionamento irrappresentabile in termini spaziali», in una parola: un «evento»4. In questo modo, la pluralità dei tempi può essere ritrovata solo dal lato delle diacronie spazializzate nei vari discorsi (o racconti, o miti5) dell’ordine; mentre l’innovazione, lo scarto, la politica come accadere della verità, in quanto estranea allo spazio, è irrappresentabile e dileguante, del tutto vuota, puntuale e sempre identica: in una parola, la temporalità non è pluralizzabile perché indeterminabile; o si dà, o non si dà, senza altre possibilità.
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Nord Stream: il sabotaggio della follia
di Giovanna Visco*
Il sabotaggio delle linee offshore Nord Stream è un fatto che segnala un salto preoccupante dello scontro Usa/Nato-Russia, spostando il confronto bellico in atto, su oleodotti e cavi sottomarini. Colpire le infrastrutture critiche di beneficio comune transazionale sbatte in faccia il bisogno urgente di pace del sistema degli approvvigionamenti vitali.
Volendo circoscrivere gli effetti politici di questo sabotaggio nel contesto in cui è stato attuato, al di là della propaganda e della sua retorica, si potrebbe prospettare un allentamento della pressione interna dal basso che chiede sempre più diffusamente l’abolizione delle sanzioni contro la Russia e trattative di pace, pochi giorni fa in Ungheria si è svolta una ennesima grande manifestazione di piazza.
Una pace che, peraltro, lo scorso aprile sembrava vicina, naufragata per i venti contrari soffiati dal blocco militare Nato/Stati Uniti.
Allo stesso tempo, il sabotaggio indebolisce la forza negoziale russa e divarica ulteriormente i suoi rapporti con l’Europa, avversati da lungo tempo dalla alleanza anglo-statunitense, tutta protesa a conservare l’egemonia unipolare, sempre più insostenibile, sul mondo.
Tra le ipotesi possibili di risposta nulla ne vieterebbe una uguale e contraria, o semplicemente l’innesco di reazioni a catena, tanto che la Norvegia, paese Nato, il più grande fornitore di gas d’Europa e uno dei principali di petrolio a livello globale, con oltre 90 giacimenti in gran parte collegati a una rete di gasdotti estesa quasi 9.000 km, all’indomani dei sabotaggi del Nord Stream, ha deciso di schierare le sue forze armate per proteggere le installazioni offshore e inshore.
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È vero che l’Europa si sta distaccando dalla Cina?
di Vincenzo Comito
Alcune grandi compagnie come Apple, Google e Amazon stanno spostando produzioni in Vietnam e India dalla Cina ma il processo di decoupling va lento e presenta spinte in senso contrario. L’Europa si allinea agli Usa ma grandi aziende tedesche continuano a investire nel paese asiatico
Il decoupling
Ormai la lotta per l’egemonia tra gli Stati Uniti e la Cina è la questione principale che si pone a livello economico, militare, politico, tecnologico, a livello mondiale. E’ in tale quadro che da qualche anno, e con una crescente intensità negli ultimi mesi, si discute molto della possibile separazione – o decoupling – tra l’economia cinese e quella statunitense e, almeno per alcuni versi, di quella più generale tra i paesi occidentali e il gigante asiatico. Sull’argomento c’è però un grande livello di confusione. Il testo che segue cerca di fare in qualche modo il punto su un tema certamente molto complesso da interpretare, centrando l’attenzione in particolare sul caso degli investimenti europei.
Quanto appare reale la tendenza al decoupling?
La guerra in Ucraina, il Covid e la decisione cinese di privilegiare la lotta alla malattia rispetto allo sviluppo economico hanno portato a rotture parziali delle catene di fornitura globali, in particolare in alcuni settori a partire da quello dell’auto, e a ritardi nelle consegne di merci, oltre all’intasamento dei porti e così via, nonché soprattutto ad una rinnovata volontà statunitense, peraltro già avviata ai tempi di Trump, di contrastare a tutti i costi la crescita economica e tecnologica cinese. Bisogna ricordare anche il fatto che negli ultimi dieci anni i salari degli operai cinesi sono aumentati di tre volte, ciò che per le imprese pesa spesso molto.
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Per una critica dell'economia politica dei corpi
di Christian Marazzi
Tratto dal volume AA.VV. L’enigma del valore dei corpi perduti e dei corpi ritrovati, Atti del convegno organizzato da Effimera, 10 ottobre 2020, Milano, Casa delle Donne, a cura di Cristina Morini
Esiste una “economia politica dei corpi” da quando esiste, storicamente e politicamente, la forza lavoro, da quando, cioè, esiste la questione della riproduzione di questa merce particolare, “scrigno che contiene la facoltà più importante della vita”, la condizione che rende possibile il lavoro vivo e la sua capacità di produrre valore32. La biopolitica foucaultiana, il nesso tra esercizio del potere e vita biologica, è di fatto un'economia politica dei corpi iscritta nei processi di accumulazione del capitale. Riprendendo sinteticamente una riflessione iniziata tempo fa33, vorrei ragionare sul divenire macchina, cioè capitale fisso, del corpo della forza lavoro a partire dalla fine del capitalismo industriale fordista. A partire, anche, dal “Frammento sulle macchine”, il capitolo dei Grundrisse in cui Marx, situando il general intellect, cioè il sapere astratto, la scienza e la conoscenza impersonale, nel capitale fisso, definisce il lavoro necessario, vivo e immediato, come “una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata e che è stata creata nel frattempo dalla grande industria stessa”34. L'ipotesi da cui parte questa riflessione è che, nella transizione al postfordismo, il general intellect si sia per così dire risituato nel corpo della forza lavoro, trasformandolo in contenitore non solo della facoltà di lavoro vivo, ma anche del suo opposto: capitale fisso, macchina, lavoro passato. Questa metamorfosi, questa trasposizione delle principali funzioni del capitale fisso nel corpo della forza lavoro, è stata possibile con l'ingresso del linguaggio e della comunicazione direttamente nei processi produttivi. È il linguaggio che ha veicolato il capitale macchinico nel corpo stesso della forza lavoro, rovesciando il “lavoro superfluo” del Marx del Frammento in “lavoro necessario”, lavoro vivo di cui il capitale si appropria per riprodurre sé stesso, per crescere oltre sé stesso.
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La Gran Bretagna non può più sbagliare la sua strategia globale
di Fulvio Bellini
Premessa. Cosa significa essere uno Stato “quasi sovrano”
In questo articolo analizzeremo la Gran Bretagna e il suo ruolo nello scacchiere internazionale. Parleremo dell’avvenimento principale del mese di settembre: la morte della Regina Elisabetta II e la successione al trono da parte del figlio Carlo III. Insieme all’incoronazione di Carlo, anche l’inquilino di Downing Street è cambiato: Boris Johnson ha lasciato il Numero 10 a favore di Liz Truss, la quale parrebbe dare l’idea di non cambiare la linea politica del predecessore, e invece potrebbe essere di sì. Un mutamento così significativo al vertice dello Stato britannico e del Commonwealth delle Nazioni cade in un momento storico particolarmente delicato, che vede da un lato la continuazione dell’Operazione militare speciale dell’esercito russo in Ucraina, e dall’altro il violento attacco che gli Stati Uniti, con la scusa della crisi tra Kiev e Mosca, stanno conducendo contro l’Unione Europea e l’Euro; vedremo anche di spiegare quest’affermazione. Va, inoltre, ricordato che la Gran Bretagna, il 31 gennaio 2020 e con singolare tempismo, è uscita dall’Unione Europea, riacquistando una maggiore agibilità politica, fino ad oggi usata per allinearsi, e spesso anche per scavalcare, la politica degli Stati Uniti e della Nato di sostegno del regime del Presidente-attore-burattino Volodymyr Zelensky e di contrasto alla politica di Vladimir Putin.
Prima di iniziare la nostra analisi, quanto mai ricca di temi, gettiamo un’occhiata fugace alle recenti elezioni in Italia del 25 settembre al solo scopo di evidenziare la differenza tra un Paese parzialmente sovrano come la Gran Bretagna e uno totalmente privo di qualsiasi forma di sovranità come l’Italia.
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La crisi ecologica e’ causata (indotta) dal capitalismo
di Erin McCarley
Proponiamo un articolo di Erin McCarley, giornalista e autrice indipendente statunitense, sul tema della crisi ecologica e della sua relazione con il sistema economico capitalista. L’articolo è originariamente apparso – il 16 Settembre 2022 – sul sito dell’organizzazione marxista rivoluzionaria britannica “Counterpunch“
Un terzo del Pakistan è sommerso dall’acqua. Le ondate di calore registrate ricoprono il globo facendo aumentare le temperature oltre quelle a cui gli esseri umani possono sopravvivere. I ghiacciai polari si stanno sciogliendo molto più velocemente di quanto previsto dagli scienziati. Siccità, incendi e inondazioni stanno devastando il pianeta, costringendo allo sfollamento decine di milioni di persone. E questo è solo l’inizio.
È tempo di dire la verità. Non possiamo permetterci di aspettare oltre. Non possiamo permetterci di fingere che lo stesso sistema politico-economico che ha causato i più alti livelli storici di distruzione ecologica nella storia umana sia lo stesso sistema che li risolverà. Qui, negli Stati Uniti, – il paese al mondo responsabile dei più alti livelli di emissioni di carbonio nell’atmosfera terrestre – abbiamo un compito politico e sociale molto difficile a cui far fronte. Dobbiamo dire la verità sui limiti ecologici della Terra, sulle leggi della fisica e su ciò che sta causando il collasso dei nostri ecosistemi, se vogliamo avere qualche possibilità di un futuro abitabile per noi stessi, i nostri figli e nipoti. Dobbiamo dire la verità, se nutriamo qualche speranza nella civiltà umana.
Ma nell’affermare questa verità, ci troviamo di fronte a una terribile realtà politica che pochi sono disposti ad ammettere. Molti di noi comprendono la scienza. Sappiamo che la capacità del nostro pianeta di ospitare l’uomo dipende da un equilibrio molto delicato di condizioni fisiche ed ecologiche che sono state presenti solo per un breve periodo durante la vita della Terra. La Terra esiste da miliardi di anni, ma gli esseri umani moderni, come li conosciamo, sono qui solo da circa 200.000 anni.
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Draghistan: “la libertà non è un spazio libero, la libertà è partecipazione”*
di Luca Busca
Analisi del voto
Il giorno dopo le elezioni ogni partito celebra la propria vittoria. Risulta, infatti, difficile trovare un dirigente di partito che riconosca la propria sconfitta, i propri errori e soprattutto che chieda scusa al popolo che ha tradito con le proprie azioni politiche. Se andiamo a guardare, però, i risultati effettivi ci si rende conto che la realtà è completamente diversa e, ad ogni tornata elettorale, diventa sempre più evidente. Qui sotto vengono riportati i dati numerici degli elettori dei singoli partiti con le percentuali calcolate sul totale degli aventi diritto invece che sui votanti.
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Nota introduttiva alla ristampa di «classe operaia»
di Antonio Negri
Nel 1979 Machina Libri decideva di ristampare «classe operaia», affidando l’introduzione a Toni Negri. Riproponiamo qui il testo per dare seguito al dibattito ex post su quell’esperienza, perché esso non si limita affatto a uno scritto di circostanza. Al contrario, Negri riflette criticamente sui limiti e sulle impasse di «classe operaia», per non tramutarla in un’inutile reliquia o in un vacuo simbolo di rassicurazione «in tempi così atroci». In particolare, sostiene che la trasformazione della composizione di classe e del soggetto di riferimento, ossia il passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale, necessita nuovi strumenti per affrontare le inedite ambiguità e contraddizioni che le lotte hanno fatto emergere.
* * * *
Perché ristampare «classe operaia»? La decisione non è stata mia: alcuni compagni ritengono utile intraprendere questa iniziativa e mi chiedono di fare una introduzione. Debbo comunque rispondere alla proposta, in maniera affermativa o negativa. Tanto vale dunque fare l’introduzione. Ma solo per argomentare: che cosa?
Il mio consenso o il mio dissenso. Sfoglio le pagine della rivista: mi ci ritrovo, il mio ricordo ci si ritrova. Quante riunioni, quante amicizie fatte e disfatte, quante giornate di tipografia (sì, perché eravamo io e Manfredo Massironi a impaginarla e a farla in tipografia per un paio d’anni). Quante emozioni. Dunque, «classe operaia» va ripubblicata; per quale ragione? Perché è la dimostrazione di una nobile ascendenza delle posizioni politiche che gran parte del movimento svilupperà negli anni successivi? Perché è, con i «Quaderni rossi», la solida pietra sulla quale una nuova corrente del pensiero politico italiano, marxista e proletaria, è venuta costruendosi? E non sono in Italia? Perché dunque ha una particolare importanza scientifica e le persone che hanno collaborato alla sua fattura, fanno – in una maniera o nell’altra – parte della storia del movimento proletario chez nous?
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L’attacco ai gasdotti Nord Stream: il bersaglio è l’Europa
di Gianandrea Gaiani*
L’annessione delle quattro regioni dell’Ucraina sud orientale alla Federazione Russa con le relative celebrazioni a Mosca e l’improbabile accelerazione dell’ingresso dell’Ucraina nella NATO accentuano l’escalation del conflitto e il rischio che possa allargarsi coinvolgendo un’Europa che appare sempre di più in ginocchio.
A compromettere, forse definitivamente, le sue precarie condizioni contribuisce anche l’atto dinamitardo (gli svedesi stimano che la potenza dell’esplosione fosse di 100 chilogrammi di TNT equivalente) che il 27 settembre ha visto esplodere i “tubi” sottomarini dei gasdotti Nord Stream 1 e Nord Stream 2, che trasportano il gas russo in Germania attraversando i fondali del Mar Baltico: il primo è fermo da alcune settimane e il secondo è stato ultimato poco prima dello scoppio della guerra in Ucraina e non è mai entrato in funzione.
Non ci sono dubbi circa il fatto che non si sia trattato di un incidente mentre più arduo è stabilire chi abbia effettuato un attacco multiplo che ha provocato la fuoriuscita di 500 milioni di metri cubi di gas per un valore di 800 milioni di euro e che determinerà con ogni probabilità la compromissione dell’efficienza dei due gasdotti a causa dell’acqua salata che penetrerà in profondità allagando e corrodendo le grandi infrastrutture metalliche.
Gazprom sembra valutare che occorreranno sei mesi per ripararli, altre fonti parlano di anni o ritengono che le infrastrutture siano irrimediabilmente compromesse.
Gas e gasdotto Nord Stream 2 sono di proprietà della stessa Nord Stream 2 AG, società di cui Gazprom è azionista al 100%. Anche il gas nel gasdotto Nord Stream 1 è proprietà di Gazprom: quindi i danni patrimoniali e in materia prima costituiscono interamente perdite finanziarie russe.
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La Russia, dall'Asia all'Europa (e ritorno?)
di Il Lato Cattivo
Introduzione a David B. Rjazanov, Karl Marx e le origini del predominio della Russia in Europa (1909)1
Dallo scorso 24 febbraio, ovvero dal giorno in cui le forze militari russe hanno varcato i confini settentrionali e orientali dell'Ucraina, la retorica dell'Occidente democratico in lotta per la difesa dei propri valori contro la Russia autocratica e perfino «imperialista» (!) è stata promossa al rango di verità ufficiale, di sola ed unica verità ammissibile nella sfera del discorso pubblico – soprattutto nell'Unione Europea. Tacere questo fatto equivarrebbe a sminuire la straordinaria pervasività della guerra psicologica nell'epoca dei social media, e la nostra stessa esposizione ad essa. Triste ma vero, la propaganda e l'infowar fanno presa anche sulle menti meno propense a farne le spese, e ciò non tanto per il loro carattere ubiquo e martellante: «Il segreto che non ha mai smesso di avvolgere tutto ciò che riguarda la guerra sembra essere una condizione intrinseca e necessaria della società attuale. “Ignoriamo ogni cosa della guerra”, questo significa, fra l'altro, che non abbiamo alcun potere su ciò che ignoriamo.» (Karl Korsch, Guerra e rivoluzione)2. Finché si persiste a considerarla come una faccenda di esclusiva competenza dei militari, ciò che in una certa misura avviene sempre fintanto che la società si riproduce normalmente, la guerra – vicina o lontana – ci coglie inevitabilmente di sorpresa (perché non seguiamo con sufficiente attenzione l'insieme dei focolai di tensione suscettibili di esplodere) e ci fa inciampare nelle false evidenze (perché non padroneggiamo gli indicatori che permettono di comprendere l'evoluzione dei conflitti sul campo). L'antimilitarismo di principio non aiuta, se si riduce a tapparsi occhi e orecchie di fronte al fatto militare, o nascondersi dietro a qualche slogan buono per tutte le stagioni. Lo scopo di quest'introduzione, comunque sia, non è di ristabilire il vero, o meglio il verosimile sulla guerra in corso in Ucraina – ciò che viene e continuerà ad esser fatto da altri3 – ma di abbozzare una riflessione più generale sulla traiettoria del capitalismo russo.
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Karl Korsch
di Salvatore Bravo
La filosofia è libertà, è capacità critica che coniuga la teoria con la prassi. La relazione teoria-prassi attraversa la storia della filosofia, essa è concretezza, in quanto la filosofia è implicata nella realtà storica, ma nel contempo la contempla per trasformarla. La pone tra parentesi per leggerla e decodificarla secondo categorie che consentono di coglierne le contraddizioni e le potenzialità del “non ancora”. Metafisica umanistica e relazione teoria-prassi sono un corpo unico e dinamico, poiché pongono al centro del movimento della storia l’essere umano, il quale non è un assoluto, pertanto può emanciparsi ma mai totalmente dalle forze e dalle strutture della reificazione, può pensarle per ridefinirle e può scegliere tra possibilità storicamente condizionate. Si pone in atto, quindi, l’ontologia dell’essere: il soggetto pensa dialetticamente la realtà storica con la mediazione del logos, in tal modo si rende “oggettiva”. Gradualmente pensiero e realtà si approssimano senza coincidere, se vi fosse coincidenza e perfetta corrispondenza il lavoro dello spirito-concetto terminerebbe.
La filosofia non vive all’ombra del potere, perché lo pensa per fluidificarlo e riportarlo alla sua condizione umana e storica. Dove vi è filosofia, non può che esservi uno “sbattere di sciabole” tra pensiero filosofico e potere.
Karl Korsch1 è stato un eretico del marxismo, non si è riscaldato alla corrente fredda del potere, ma ha criticato il marxismo e il suo strutturarsi in scuola di pensiero dogmaticamente ancorata a una lettura del pensiero di Marx organica al partito comunista. Filosofo dialettico ha conservato e innovato l’impianto filosofico marxiano difendendolo dallo scientismo marxista. Filosofi borghesi e marxisti raggiunto il potere hanno cercato di neutralizzare la dialettico con il pensiero adialettico e astratto.
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Democrazia sotto assedio
Recensione di Monica Quirico
Emiliano Brancaccio, Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico. 50 brevi lezioni, Piemme, Milano, 2022, pp. 287, Isbn 978-88-566-8378-3
Oltre a insegnare Politica economica presso l’Università degli studi del Sannio (Benevento), Emiliano Brancaccio svolge un’intensa attività di divulgatore e opinionista. Viene spesso presentato come un economista eretico, al quale tuttavia i colleghi mainstream prestano ascolto, dandogli talvolta perfino ragione. Nel suo ultimo libro, l’autore parte dalle ricerche empiriche condotte da lui e da altri studiosi per offrire anche a un pubblico non specialistico una chiave interpretativa del rapporto tra capitalismo e democrazia. L’alternarsi di pagine più per addetti ai lavori (come quelle sulla “Modern Monetary Theory”), riferimenti all’attualità politica e proposte di un’alternativa per il medio-lungo termine suscita a tratti un’impressione di scarsa omogeneità, anche se il filo conduttore è chiaramente individuabile: la riscoperta del Marx “scientifico”.
Nell’Introduzione, Brancaccio sfida la narrazione trionfalistica degli ordinamenti democratici occidentali. Innanzitutto, essi hanno smesso di perseguire una qualche forma di redistribuzione della ricchezza, favorendo anzi l’aumento delle diseguaglianze con ripetuti attacchi ai diritti del lavoro; una situazione che spinge moltə ad allontanarsi dalla politica. In secondo luogo, le democrazie capitaliste non garantiscono più neanche la tutela dei principi liberali; emblematica in tal senso è la normalizzazione della metafora bellica (e ora, potremmo aggiungere, della guerra nella sua drammatica concretezza, purché al di fuori dei confini occidentali). Nell’indagare i processi sottostanti a tale involuzione, Brancaccio, rifiutando teoremi complottisti, guarda, richiamandosi alla tesi althusseriana della storia come processo senza soggetto, alle marxiane “leggi di movimento” del capitalismo.
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