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«Marcuse décrit la Société du Spectacle». Guy Debord lettore di “Eros e Civiltà”
di Afshin Kaveh
In questo senso ogni pensatore è responsabile di fronte alla storia del contenuto obbiettivo del suo filosofare.
G. Lukács, La distruzione della ragione
Quel libro tra gli scaffali
Nel 1955, presso la Beacon Press di Boston, trovava per la prima volta pubblicazione Eros and Civilization: A Philosophical Inquiry into Freud del filosofo tedesco Herbert Marcuse, all’epoca insegnante presso l’Università di Harvard. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1963, Kostas Axelos, già direttore della rivista Arguments chiusa l’anno precedente e che per le Éditions de Minuit curava una collana omonima, metteva alle stampe la traduzione del libro – resa da Jean-Guy Nény e Boris Fraenkel – consegnata al pubblico francese col titolo di Eros et Civilisation: Contribution a Freud. Daniel Cohn-Bendit, ricordando l’opera, affermava in un primo momento che dall’anno di uscita sino a poco prima degli avvenimenti ruotanti attorno al Maggio del 1968 avesse venduto quaranta esemplari in tutto[1], per poi darne una versione differente diversi anni dopo parlando di «sì e no milleseicento copie» prima del Maggio e più di «centomila esemplari» subito dopo[2]. Quaranta o più di mille copie che fossero, una di queste è presente tra gli scaffali della biblioteca personale di Guy Debord, deposta, dal 2010, presso la Bibliothèque Nationale de France. A tal proposito ci ritorna utile il contributo di Emmanuel Guy e Laurence Le Bras[3], secondo cui, seppur «composta da circa duemila libri», l’archivio dei testi del parigino «corrisponde a una biblioteca tutto sommato piuttosto piccola per uno scrittore di questa portata» e che, per di più, non può essere illustrativa rispetto alle intense letture che hanno accompagnato Debord per tutta una vita, anche perché «il rapido sfogliare i libri al disimballaggio dalle scatole» ha dimostrato, salvo «due eccezioni», che tra le centinaia di migliaia di pagine non era presente «nessuna annotazione a margine dei testi»[4].
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L’università e il genocidio
di Rete universitaria per la Palestina
La guerra finirà con la loro distruzione. Netanyahu non cambia idea. È stato chiaro, mentre ordinava l’avanzata su Rafah, l’ultima città della Striscia di Gaza, quella in cui si sono rifugiate un milione e mezzo di persone alla fame, quella da cui non possono più fuggire. La danza macabra sui negoziati per una “tregua” è un vecchio gioco di prestigio che i leader israeliani mettono in scena, con maestria impareggiabile, da decenni, chiedete a chi ne ha memoria. Oggi serve soprattutto a tentare di frenare la rabbia e la disperazione dei familiari dei 130 ostaggi di Hamas e a fornire argomenti a Biden che ha firmato sanzioni economiche contro 4 (quattro!) coloni israeliani responsabili di violenze in Cisgiordania. E allora? Non resta che assistere impotenti a uno sterminio che non ha precedenti in 75 anni di guerra coloniale? Non resta che rassegnarsi a sentirci rivolgere – fra due, cinque dieci anni – quella tremenda domanda dai nostri bambini: voi dove eravate? Cosa avete fatto per fermare l’orrore di quei settemila corpi sepolti sotto le macerie di Gaza che non entrano nelle statistiche? “Se dovessimo partecipare ogni giorno al funerale di una bambina o un bambino assassinati in questi quattro mesi dal sionismo a Gaza, passeremmo i prossimi 27 anni a farlo. Ogni giorno per ventisette anni… La retorica dominante e le nostre lealtà istituzionali rimangono intatte…”, scrive la Rete universitaria per la Palestina in un testo scritto “non per ripetere frasi vuote sui mali della violenza né recitare proclami umanitari…”, ma per “invitare alla comunicazione tra quelli di noi che hanno bisogno di fare qualcosa in modo collettivo…”[Il sommario e l’editing di questo articolo sono di Marco Calabria, scomparso improvvisamente l’8 febbraio 2024]
* * * *
Alcuni parlano, altri discutono, altri piangono, c’è anche chi si rallegra per il genocidio in corso. In ogni caso, solo chi promuove la Nakba fa qualcosa. Ed è così che si cancella una città davanti ai nostri occhi che, però, non vedono più nulla (Rodrigo Karmy Bolton).
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Tutto il mondo sta esplodendo….
di Fulvio Grimaldi
Byoblu-Mondocane 3/14 in onda domenica 21.30. Repliche lunedì 9.30, martedì 11.00, mercoledì 22.30, giovedì 10.00, sabato 16.30,domenica 09.00
Ricordate, voi vegliardi come me, la canzone che Lotta Continua aveva tradotto da “Eves of destruction” di Barry McGuire e che si cantava a gola spiegata un po’ dappertutto in Italia nel famoso decennio di quello che è stato il miglior tentativo in Italia per sbarazzarsi dell’inutile, del pernicioso e del mafioso?
C’erano versi significativi come questi: “Tutto il mondo sta esplodendo / dall’Angola alla Palestina, / l’America Latina sta combattendo,/ la lotta armata avanza in Indocina… L’America dei Nixon, degli Agnew e Mac Namara / dalle Pantere Nere una lezione impara; / la civiltà del napalm ai popoli non piace,/ finché ci son padroni, non ci sarà mai pace…
Beh, Angola e Indocina, Pantere Nere e napalm non appaiono più sul proscenio. Oggi vanno Black Lives Matter, anzi andavano, finanziati da Soros, e le profezie di Isaia. Però, guarda un po’, la Palestina è ancora lì, più che mai, alla faccia di Isaia e di chi dice che tutto è incominciato solo il 7 ottobre.
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Navalny, il martire del maccartismo
di Piccole Note
Gonzalo Lira, i morti di serie B. Navalny da vivo non costituiva alcuna minaccia per Putin, da morto sì
Nello stesso giorno in cui è giunta la notizia della morte di Alexei Navalny l’Ucraina ha annunciato il ritiro da Adviika. La cattura della città da parte dei russi sarebbe suonata come campana a morto per la guerra ucraina, la morte di Navalny non solo ha coperto la notizia, ma rilancia la campagna maccartista contro la Russia.
Conquista più che simbolica quella di Adviika, perché qui si era recato Zelensky a fine dicembre per rilanciare la sfida a Mosca, dichiarando con fierezza che Kiev non si sarebbe mai arresa. Già allora era chiaro che la città era persa, ma il presidente ucraino ha voluto difenderla a tutti i costi (come per Bakhmut), mandando al macello i suoi soldati, caduti come mosche sotto il fuoco nemico per un altro mese e mezzo, per arrivare, infine, a ripiegare come aveva suggerito da tempo il capo delle forze armate, generale Valery Zaluznhy, nel frattempo silurato.
Tale la dinamica della guerra alla Russia fino all’ultimo ucraino. La morte di Navalny, dunque, ha coperto tutto, anzi rilanciato. Infatti, Zelensky non ha mancato di far sentire la sua voce contro il “dittatore” russo: “Navalny è morto in una prigione russa. Ovviamente è stato ucciso da Putin”.
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La deindustrializzazione coincide con la crescita del microcredito
di comidad
In molti hanno ritenuto di liquidare l’intervista rilasciata da Putin a Tucker Carlson come propaganda. Certo che si tratta di propaganda, e non si capisce cos’altro avrebbe dovuto essere. Ciò non esimerebbe però i nostri governi dal replicare a delle specifiche dichiarazioni piuttosto imbarazzanti. In particolare Putin ha riconfermato quanto già si era detto immediatamente dopo l’attentato al gasdotto North Stream, e cioè che il pur grave sabotaggio non aveva del tutto compromesso la possibilità di approvvigionamento di gas russo, in quanto un tubo è rimasto funzionante, perciò la Germania, se volesse, potrebbe ancora servirsene; cosa che invece non sta facendo. La carenza energetica, dovuta al mancato approvvigionamento di gas russo, ha determinato in Germania un drammatico incremento dei costi di produzione, con la conseguente chiusura di numerosi impianti di aziende come Basf, Michelin, Ford, Goodyear, e ora anche Volkswagen. Secondo alcuni commentatori il partito dei Verdi, ora al governo a Berlino, non considera la deindustrializzazione un problema; anzi, essa andrebbe nel senso di un’auspicabile decrescita.
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La "gestione della terra" e concentrazione dell’agricoltura in Italia: i dati
di Alessandro Bartoloni
Il movimento dei trattori che sta scuotendo l’Italia ha suscitato un grande interesse per le condizioni dell’agricoltura nel nostro paese. Un settore sempre più concentrato nelle poche mani di grandi imprenditori capitalisti e per questo sempre più lontano dalle esigenze dei lavoratori, dei consumatori e della natura.
La gestione della terra
Dai dati ISTAT aggiornati al 2020 emerge che nell’arco di 38 anni si è passati da 3,1 milioni di aziende agricole a 1,1 milioni (-64%). E anche i terreni sono diminuiti: la superficie agricola utilizzata (SAU) è calata del 20,8%, quella totale del 26,4% per una perdita di 33 mila e 60 mila chilometri quadrati rispettivamente (per avere un’idea, l’intera Sicilia è grande meno di 26 mila km2).
Dunque, ci sono sempre meno aziende e il minor terreno a disposizione è gestito da soggetti sempre più grandi. Ma a fronte di una complessiva diminuzione della terra a disposizione che nell’ultimo decennio è stata pari al 2,5%, le piccole aziende risultano avere sempre meno terra, mentre quelle grandi l’aumentano.
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Come la CIA destabilizza il mondo
di Jeffrey D. Sachs
La portata del continuo caos derivante dalle operazioni della CIA andate male è sbalorditiva. In Afghanistan, Haiti, Siria, Venezuela, Kosovo, Ucraina e molto altro ancora, le morti inutili, l’instabilità e la distruzione scatenate dalla sovversione della CIA continuano ancora oggi. I media tradizionali, le istituzioni accademiche e il Congresso dovrebbero indagare su queste operazioni al meglio delle loro possibilità e chiedere la pubblicazione di documenti per consentire una responsabilità democratica.
La CIA ha tre problemi fondamentali: i suoi obiettivi, i suoi metodi e la sua mancanza di responsabilità. I suoi obiettivi operativi sono quelli che la CIA o il Presidente degli Stati Uniti definiscono essere nell’interesse degli Stati Uniti in un determinato momento, indipendentemente dal diritto internazionale o dalle leggi statunitensi. I suoi metodi sono segreti e doppi. L’assenza di responsabilità significa che la CIA e il Presidente gestiscono la politica estera senza alcun controllo pubblico. Il Congresso è uno zerbino, uno spettacolo secondario.
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C’era una volta… oppure c’è ancora Marx?
di Sandro Moiso
Marcello Musto, Alfonso Maurizio Iacono (a cura di), Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione, Carocci editore, Roma 2023, pp. 350, 32 euro
Si adopera l’espressione «marxismo» non nel senso di una dottrina scoperta o introdotta da Carlo Marx in persona, ma per riferirsi alla dottrina che sorge col moderno proletariato industriale e lo «accompagna» in tutto il corso di una rivoluzione sociale e conserviamo il termine «marxismo» malgrado il vasto campo di speculazioni e di sfruttamento di esso da parte di una serie di movimenti antirivoluzionari. (Amadeo Bordiga – Riunione di Milano, 7 settembre 1952)
Occorre iniziare dalla perentoria e sintetica frase pronunciata da Amadeo Bordiga più di settant’anni fa per cogliere lo smarrimento che al giorno d’oggi può cogliere un certo numero di militanti antagonisti ogni qualvolta sentono usare il nome del filosofo di Treviri oppure il termine che ne indica l’opera e la sua interpretazione da parte di terzi.
Condizione che, spesso, trasmette un’idea di inutile deja vù o, ancor peggio, di opportunistica rivendicazione di una dottrina ridotta a fantasma di se stessa proprio a opera di coloro che un tempo, ora sempre meno, a Marx ed Engels si richiamavano, magari insieme al nome di Lenin o di altri appartenenti al periodo dello stalinismo trionfante e dell’opposizione allo stesso.
Per far uscire l’opera di Marx da questa sorta di terra di nessuno in cui è stata relegata, grazie anche all’assenza di una significativa ripresa della lotta di classe, può risultare utile la lettura del volume collettivo appena pubblicato da Carocci editore che raccoglie i contributi di quattordici studiosi di fama mondiale, appartenenti a diversi ambiti disciplinari e provenienti da vari paesi, nei quali si prova a offrire uno sguardo più moderno e attualizzato sulle idee del filosofo tedesco riguardo all’ecologia, ai processi migratori, alle questioni di genere, al modo di produzione e riproduzione capitalistico, alla composizione del movimento operaio, alla globalizzazione e alle possibili caratteristiche di un’alternativa allo stato di cose presente.
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L’Euro, il Lavoro, la Sinistra
di Massimo D'Antoni
L’euro è stato lo strumento per contenere le richieste sindacali e attrarre capitali per il finanziamento del commercio estero. Perché la sinistra ha aderito in modo acritico a una scelta che indeboliva la sua base sociale? L’odierna illusione che sia sufficiente una vera unione fiscale.
Nel 1992, sollecitato sul tema della costituenda unione monetaria dal giornalista Mario Pirani, in un’intervista per la Repubblica, il prof. Frank Hahn, autorevole economista di Cambridge, affermava che «l’unione monetaria va contro tutto quello che sappiamo di economia».
Il vero obiettivo dell’euro, il controllo della classe lavoratrice
Si riferiva chiaramente all’analisi delle aree valutarie ottimali. È noto infatti che la condivisione di una valuta – ma il discorso vale anche per forme più limitate di coordinamento valutario, quale l’adozione un regime di cambi fissi – richiede per ben funzionare una serie di condizioni, tra le quali particolarmente rilevante è la mobilità dei fattori produttivi. Hahn spiegava che, in una situazione come quella europea, di limitata mobilità dei fattori, una volta bloccata la valvola di sfogo rappresentata dal tasso di cambio, il ruolo di stabilizzatore rispetto agli squilibri della bilancia dei pagamenti sarebbe toccato al mercato del lavoro. Data la rigidità dei salari, il riequilibrio richiesto avrebbe determinato fluttuazioni nel livello di disoccupazione: «I cambi fissi sostituiscono le fluttuazioni del cambio con quelle dell’occupazione». A giudizio di Hahn, queste conclusioni, benché note agli economisti, erano ignorate dai decisori politici a causa di un’eccessiva preoccupazione per la stabilità dei prezzi.
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Questione meridionale: una questione di sviluppo?*
di Augusto Graziani
Pubblichiamo un inedito di Augusto Graziani nel decimo anniversario della sua morte sulla cd. “questione meridionale” Il testo viene accompagnata da una prefazione di Francesco Maria Pezzulli, che ha scoperto la registrazione dell’intervento, e da una breve postfazione di Andrea Fumagalli
Prefazione di Francesco Maria Pezzulli
Questo testo inedito di Augusto Graziani è particolarmente utile perché vi è riassunto il suo punto di vista, in modo semplice e dialogico, su una delle tematiche che lo ha accompagnato per tutta la vita: la questione meridionale. Oserei dire che in queste poche pagine, oltre alla competenza scientifica del grande economista, emerge anche una sua positiva “classicità”. Graziani comincia la sua discussione con gli studenti ricordando loro, fatemela passare, che lui è un economista di sinistra, che ha abbracciato cioè quel principio secondo il quale, con Marx, sono le condizioni d’esistenza delle classi sociali che condizionano le loro dimensioni culturali e che dunque queste due cose vanno tenute insieme se si vogliono intendere per davvero le dinamiche di cambiamento. Ma parlando agli studenti, in modo sornione e divertito, si rivolgeva anche ai sociologi ed agli economisti del Mezzogiorno presenti, ai quali, prendendoli un pò in giro, gli rimproverava di aver dimenticato questo dato scientifico e politico essenziale. Con le sue parole: «gli economisti, e qui torno al mio peccato originale, non solo si muovono terra-terra ma sono anche colpevoli di un peccato di ambizione e cioè ritengono che il progresso della ricchezza materiale (della produzione, dei consumi individuali e collettivi) sia alla base, e che tutto il resto (lo sviluppo della cultura, della civiltà, dello spirito di convivenza e di tutte le altre virtù sociali che potete elencare) sia una conseguenza. Si potrebbe riassumere dicendo che per un economista la povertà è una cattiva consigliera, mentre la ricchezza apre la strada al progresso anche culturale e sociale».
Per Augusto Graziani la questione meridionale è stata sempre e soprattutto un problema concreto di rottura con il passato, con ciò che un tempo venivano definiti “residui feudali” delle società sottosviluppate. Ed è innegabile che tali residui fossero presenti nel Mezzogiorno e che, sotto certi aspetti, lo sono ancora oggi.
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Neanche Draghi sa più come uscirne…
di Dante Barontini
Se c’è qualcuno che può permettersi di dire l’indicibile, in campo euro-atlantico, è ancora Mario Draghi.
Impossibile accusare questo demolitore del patrimonio pubblico italiano, nonché per qualche anno vicepresidente di Goldman Sachs, poi governatore della Banca d’Italia, quindi della Banca Centrale Europea, infine presidente del Consiglio e ora “consulente” della Commissione Europea (il “governo” UE), di non avere a cuore e ben chiaro in testa quale sia l’interesse strategico del capitale multinazionale basato sulle due sponde del Nord Atlantico.
Solo lui, dunque, può osare dire che “la globalizzazione” – la fase della egemonia incontrastata dell’Occidente neoliberista e della gigantesca delocalizzazione produttiva nei paesi a basso costo del lavoro – ha rafforzato soprattutto i “nemici”, indebolendo “i valori liberali” (ormai solo “chiacchiere e distintivo”, per i governi nella Nato) e costringendo sia i governi nazionali che le banche centrali a seguire regole diverse, impreviste, improvvisate.
Draghi parlava, ieri, alla Nabe economic policy conference, dove è stato insignito del «Paul Volker Lifetime Achievement Award», premio intitolato all’ex governatore della Federal Reserve americana.
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Il vortice del mondo
di Alastair Crooke - Strategic Culture
Gli Stati Uniti si stanno avvicinando alla guerra con le Forze di Mobilitazione Popolare irachene, un'agenzia di sicurezza statale composta da gruppi armati, alcuni dei quali vicini all'Iran, ma soprattutto nazionalisti iracheni. Gli Stati Uniti hanno effettuato un attacco con un drone a Baghdad, mercoledì, che ha ucciso tre membri delle forze Kataeb Hizbullah, tra cui un comandante senior. Uno degli assassinati, al-Saadi, è il comandante più alto in grado ad essere stato assassinato in Iraq dopo l'attacco del 2020 che ha ucciso il comandante iracheno al-Muhandis e Qassem Soleimani.
L'obiettivo è sconcertante, poiché la Kataeb ha sospeso più di una settimana fa le sue operazioni militari contro gli Stati Uniti (su richiesta del governo iracheno). La sospensione è stata ampiamente pubblicizzata. Allora perché questa figura di spicco è stata assassinata?
Le torsioni tettoniche spesso sono innescate da un'unica azione eclatante: l'ultimo granello di sabbia che, sommato agli altri, innesca lo scivolamento, rovesciando il mucchio di sabbia. Gli iracheni sono arrabbiati. Sentono che gli Stati Uniti violano in modo sconsiderato la loro sovranità, mostrando disprezzo e sdegno per l'Iraq, una civiltà un tempo grandiosa, ora ridotta in rovina dalle guerre USA. Sono state promesse ritorsioni rapide e collettive.
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L'attacco a Rafah e la scommessa persa da Israele
di Piccole Note
L'attacco a Rafah non sembra imminente. Netanyahu lo propugna a fini interni. Ma Israele ha chiesto troppo a quanti erano disposti a schiararsi con esso. E ha perso, diventando un paria
L’attacco in grande stile a Rafah, il più grande campo profughi del mondo, non è ancora avvenuto, anche se si registrano bombardamenti sporadici non beneaguranti. È come se l’operazione fosse stata sospesa, mentre, al contrario, sul fronte Nord, si è registrato l’attacco più massivo contro il Libano dall’inizio della guerra, per rispondere a un’azione offensiva di Hezbollah particolarmente riuscita, ma soprattutto per colmare un vuoto.
La macchina da guerra israeliana, infatti, come accade in tutte le guerre, ha bisogno di inanellare successi, veri o asseriti che siano. E in un mondo accelerato come l’attuale, tale processo necessita di una cadenza quotidiana.
Sull’offensiva a Rafah, segnali contrastanti. Iniziamo dalle rivelazioni di Politico, che riporta indiscrezioni di rilievo: “L’amministrazione Biden non ha intenzione di punire Israele qualora lanciasse una campagna militare a Rafah senza garantire la sicurezza dei civili […] non ha nessuna intenzione di muovere rimproveri, il che significa che le forze israeliane potrebbero entrare in città e nuocere ai civili senza dover affrontare conseguenze da parte dell’America”.
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La guerra USA contro il primato tecnologico mondiale della Cina
di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli
I “fatti testardi” (Lenin) risultano da tempo chiari ed esposti nel 2023 anche dall’insospettabile istituto Australian Strategic Policy Institute in un suo rapporto fatto passare, guarda caso, sotto silenzio da gran parte della sinistra occidentale: in base a esso la Cina è ormai diventata il “numero uno” planetario in ben 37 dei 44 principali settori tecnologicamente importanti del mondo contemporaneo.
Come hanno ben evidenziato T. Buccellato e S. Olivari, “una ricerca dell’Australian Strategic Policy Institute (Aspi) rivela che la Cina ha costruito le basi per posizionarsi come superpotenza scientifica e tecnologica leader a livello mondiale, stabilendo un vantaggio sorprendente: nella maggior parte dei settori tecnologici critici ed emergenti, gli istituti di ricerca generano nove volte più documenti di ricerca ad alto impatto rispetto al secondo paese classificato, il più delle volte gli Stati Uniti. La Cina ha raggiunto così una leadership su 37 dei 44 ambiti tecnologici critici riportati nella tabella. Tutte le tecnologie etichettate come ad alto rischio di monopolio sono presidiate da Pechino. Non a caso, cresce in continuazione il flusso verso il paese asiatico di conoscenze e di ricercatori talentuosi in questi settori”.[1]
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L’esperienza del linguaggio è un’esperienza politica
di Giorgio Agamben
In che modo sarebbe possibile cambiare veramente la società e la cultura in cui viviamo? Le riforme e persino le rivoluzioni, pur trasformando le istituzioni e le leggi, i rapporti di produzione e gli oggetti, non mettono in questione quegli strati più profondi che danno forma alla nostra visione del mondo e che occorrerebbe raggiungere perché il mutamento fosse davvero radicale. Eppure noi abbiamo quotidianamente esperienza di qualcosa che esiste in modo diverso da tutte le cose e le istituzioni che ci circondano e che tutte le condiziona e determina: il linguaggio. Abbiamo innanzitutto a che fare con cose nominate, eppure continuiamo a parlare a vanvera e come capita, senza mai interrogarci su che cosa stiamo facendo quando parliamo. In questo modo è proprio la nostra originaria esperienza del linguaggio che ci rimane ostinatamente nascosta e, senza che ce ne rendiamo conto, è questa zona opaca dentro e fuori di noi che determina il nostro modo di pensare e di agire.
La filosofia e i saperi dell’Occidente, confrontati con questo problema, hanno creduto di risolverlo supponendo che ciò che facciamo quando parliamo è mettere in atto una lingua, che il modo in cui il linguaggio esiste è, cioè, una grammatica, un lessico e un insieme di regole per comporre i nomi e le parole in un discorso.
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Se il “mondo libero” ha paura di una intervista
di Gianandrea Gaiani
Con l’intervista fiume a Vladimir Putin il giornalista televisivo Tucker Carlson ha fatto arrabbiare tutti al di qua della “Cortina di Ferro”, cioè in quello che ai tempi della prima guerra fredda potevamo definire orgogliosamente il “mondo libero”.
Ha fatto arrabbiare i colleghi, anchorman e star dei grandi media mainstream statunitensi perché ha ottenuto un incontro e una intervista con Putin che ad altri è stata negata, Non pago, giusto per aumentare la dose di bile dei colleghi che non gli perdonano né di venire dalla “reazionaria” Fox News né di essere vicino a Donald Trump, Carlson ha ottenuto da Mosca anche di poter incontrare e intervistare Edward Snowden.
Un’intervista non meno importante di quella a Putin (anche se avrà forse minor impatto mediatico) tenuto conto che la fuga di Snowden, prima in Cina poi a Mosca, scatenò nel 2013 quel Datagate che raccontò al mondo intero di come gli Stati Uniti (e i britannici) spiano amici e alleati fino a controllare i cellulari di leader, capi di stato e di governo europei, i quali hanno peraltro reagito con limitate proteste formali, di fatto accettando come un fatto ineluttabile il loro status di sudditi ( status che, dieci anni dopo, appare oggi ancora più marcato).
Giova ricordare che i fatti svelati da Snowden riguardavano operazioni di spionaggio sviluppatesi negli anni dell’amministrazione Obama in cui Joe Biden ricopriva il ruolo di vice presidente. Per questo i contenuti dell’intervista a Snowden potrebbero forse avere un impatto sulle imminenti elezioni presidenziali statunitensi di novembre.
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Maccartismo. Su un angosciante documento del Parlamento europeo
di Andrea Zhok
Mentre tutte le principali testate giornalistiche europee sono in caduta libera di lettori; mentre Tucker Carlson, dopo aver svolto l'intervista più virale della storia a Vladimir Putin, viene indiziato di "spionaggio" in Europa; il Parlamento Europeo produce un documento come il seguente, che riproduco integralmente qui sotto, dove si chiede la condanna di un'eurodeputata lettone.
Al di là del caso particolare, la batteria argomentativa di questo atto, con valore legale, è agghiacciante. Rubando le parole dell'amico Pino Cabras, stiamo assistendo a un ritorno del maccartismo in grande stile.
Mettiamoci in testa che la cornice di libertà di pensiero e parola in cui siamo cresciuti è morta e sepolta. Lo avevamo già capito durante la pandemia, ma ora stiamo assistendo ai primi atti giuridicamente vincolanti.
Da qui, a cascata, questi principi entreranno sistematicamente nelle nostre scuole e università, nei nostri media, nella nostra quotidianità.
C'è chi dirà: "E dov'è la differenza con quello che già accade?"
La differenza sta nel fatto che finora le eccezioni marginali venivano tollerate, mentre questo impianto culturale predispone la trasformazione in reato di ogni parola critica verso i capisaldi neoliberali UE-NATO.
Come l'asino che dà del cornuto al bue, questo documento è mirabile per la sua capacità di affermare una sequela incredibile di falsità o di schiette inversioni dei ruoli e poi di accusare la controparte di "disinformazione".
Documento molto lungo, molto angosciante, ma da leggere.
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Guerre culturali e neoliberismo di Mimmo Cangiano
Recensione di Rachele Cinerari
Le prime righe di Guerre culturali e neoliberismo, scritto da Mimmo Cangiano e in uscita per Nottetempo, chiariscono cosa il libro vuole, ma soprattutto non vuole, fare.
Questo non è un libro sulla cancel culture (anche se ogni tanto si parla di cancel culture), e neanche un libro sul politicamente corretto (anche se qualche volta si parla di politicamente corretto); è invece un volume che tenta da un lato di ricostruire il dibattito – e la sua genealogia – su tutta una serie di temi che sono diventati il centro delle attuali culture wars (questioni identitarie, di classe, anti-razzismo, anti-sessismo, prospettive liberal, postmodernismo, ruolo della Theory), dall’altro di proporre alcune soluzioni interpretative in un quadro di analisi che, fortemente propenso a prestare orecchio alle nuove questioni emerse, resta ancorato al materialismo storico. Questo libro non è scritto per criticare la cosiddetta woke (…), ma per provare a superare quel non piccolo quid di liberalismo e di culturalismo che le culture wars mi paiono portare con sé; è dunque un libro che mira a sottrarre la woke a sospette derive liberal materializzando i suoi temi attraverso la loro dialettica con i processi socio-materiali (produzione, mercato, lavoro, consumo) in atto.
I nove capitoli del libro si muovono attraverso numerosi esempi, attraversando teorie almeno degli ultimi vent’anni, statunitensi ma anche italiane, per ripercorrere ciò che è accaduto nelle università statunitensi e di come certi processi siano stati inglobati, già masticati e digeriti, da quelle italiane. Partendo dall’esperienza che Cangiano ha fatto lavorando dieci anni nelle università statunitensi ed elaborandole, il libro ricostruisce infatti in modo conciso la culturalizzazione accademica statunitense e il progressivo spostamento delle lotte su un piano esclusivamente simbolico e sovrastrutturale, l’analisi erroneamente a-storica e la naturalizzazione del capitalismo, l’inglobamento (e fraintendimento?) della cosiddetta French Theory.
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Assange, le ore decisive
di Agata Iacono
Sono gli ultimi giorni, forse, per Assange nella prigione a Londra definita la Guantanamo inglese.
Tra pochissimi giorni la Corte dovrà esprimersi sulla ammissibilità del ricorso di Julian Assange, l'ennesimo e l'ultimo.
Se gli sarà respinta questa possibilità, l'estradizione negli USA, dove lo aspettano 175 anni di detenzione in completo isolamento, potrebbe essere immediata.
Sono moltissime le iniziative in tutto il mondo a favore di Assange, si intensificano sempre più anche in Italia: solo per citarne alcune, si fa pressione a Roma e Milano, ad esempio, affinché Gualtieri e Sala concedano finalmente la cittadinanza onoraria, è stata inaugurata una mostra, vengono proiettati docufilm, promossi flash mob sotto l'ambasciata UK, indette conferenze stampa...fino al giorno finale, il D-Day, che vedrà a Londra attivisti da tutto il mondo.
Sulla vicenda di Assange, insomma, si sta parlando tanto, mai abbastanza certo, è totalmente ignorato cancellato dalla memoria dei media di massa, ma, forse, si trascura una questione fondamentale, che lo rende veramente un eroe della nostra epoca.
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Il 7 ottobre 2023 rappresenta la più eclatante serie di fallimenti dello Stato d’Israele
di Alberto Fazolo
Ovunque si è dibattuto del fallimento di quell’apparato d’intelligence che si credeva tra i più efficaci del mondo. C’è certezza che non tutti i gangli del sistema fossero all’oscuro di quanto stesse succedendo e che abbiano “lasciato fare”, ma altre articolazioni di sicuro non si aspettavano ciò. Sia come sia, la reputazione ne esce distrutta.
Invece, sotto il profilo politico, il fallimento è iniziato il giorno successivo, cioè da quando Israele ha deciso di compiere un massacro. Portando alla rottura di rapporti consolidati e al conseguente isolamento internazionale, sancito anche dall’inchiesta della Corte Internazionale di Giustizia.
Il fallimento politico si è manifestato pure all’interno d’Israele, con una frantumazione della società e una esasperazione degli attriti tra le varie anime del paese.
Il fallimento militare d’Israele sta invece nell’incapacità di battere la Resistenza palestinese e nel conseguente accanimento contro la popolazione civile. Sono ormai lontani i tempi in cui l’esercito israeliano era composto da soldati duri e determinati, temprati nella lotta contro il nazismo.
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Per sfidare l'economia dominante, serve un approccio scientifico
Oltre pretese di neutralità e derive irrazionaliste
di Marco Veronese Passarella
Ci sono due modi ugualmente deleteri di intendere l'"economia": assimilarla a una scienza naturale, come amano fare gli economisti “mainstream”; oppure, al contrario, sostenere che non è una scienza, come fanno un po’ tutti gli altri.
La verità è che queste due posizioni sono due facce della stessa medaglia. In particolare, la seconda concezione non indebolisce ma rafforza la prima, implicando che l'unico statuto scientifico possibile sia quello di scienza naturale.
Personalmente, concepisco l'economia come una scienza sociale, che indaga le mutevoli leggi di movimento delle economie capitalistiche. Penso, dunque, che vadano rigettate sia le pretese di oggettività del pensiero economico dominante sia le derive irrazionaliste della maggior parte dei suoi critici. È su questa ridefinizione epistemologica che si può costruire una critica radicale alle teorie economiche di derivazione neoclassica.
Non esistono scienze esatte, nemmeno la matematica – che non è una scienza, ma uno dei suoi linguaggi.
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Il più grande appalto del secolo
di Miguel Martinez
Molto, molto tempo fa, l’umanità si divise in due, tra quelli che facevano la fila per farsi vaccinare contro il Covid, e quelli che accettavano di farsi licenziare, pur di non farsi vaccinare.
In questo conflitto, avevo due ferme incertezze.
La prima, che essendo laureato in lingue orientali e non in medicina, ci capivo il giusto; e che magari anche molti laureati in una delle centomila medicine ci capivano il giusto, e che tutte le voci che mi arrivavano, da una parte o dall’altra, erano frutto di pregiudizi più che di profonde e documentate riflessioni.
Per cui non ho mai dato eccessivo peso alle critiche contro il contenuto dei vaccini, tanto che mi sono anche vaccinato per amore di quieto vivere, e sono ancora vivo.
La seconda ferma incertezza, era che si trattava dell’Appalto del Secolo (poi scoppiò la guerra che rende ancora di più, e mi confondo).
Vedete, diversi anni fa, ho vissuto uno scambio intenso: io insegnavo inglese ai funzionari della Glaxo (oggi un impronunciabile GSK plc), e i funzionari della Glaxo, conversando in inglese, mi insegnavano in cambio come funziona il mondo dell’industria farmaceutica.
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Egemonia (8). Come il neoliberismo si è impossessato delle nostre menti - Ernesto Limia Díaz
di Alessandro Bianchi
Come il neoliberismo ha preso possesso delle menti di milioni di individui? Una domanda che pervade la nostra riflessione da anni e che mai ha trovato risposte e chiarimenti più illuminanti di quelle forniteci da Ernesto Limia Díaz – storico cubano, primo vicepresidente dell’Associazione degli Scrittori dell’UNEAC, e grande conoscitore degli attuali mezzi di comunicazione, in Italia per presentare il suo nuovo libro tradotto in Italia da Pgreco “Patria e cultura in rivoluzione” - nella conversazione che abbiamo avuto per "Egemonia".
Crisi dei valori di riferimenti, paradigmi imposti, relativizzazione volgare e cinismo nella politica i temi al centro della nostra discussione. “E’ incredibile come anche oggi il tema del genocidio a Gaza porti a considerazioni volgari e ciniche nel dibattito politico”.
“Siamo nel pieno di una battaglia culturale enorme”, afferma Ernesto Limia Díaz all'inizio di un'analisi che arriva nel profondo dell’agire delle forze dominanti del sistema neoliberale mondiale, destrutturandolo e restituendolo completamente nudo.
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Ampliare il conflitto dal Mar Rosso? Le strategie imperialistiche per il controllo del Medioriente
di Maurizio Brignoli
Ansarallah e l’attacco a Israele nel Mar Rosso
Nello Yemen nel 2011 scoppiava la rivolta degli al-Huthiyyun, meglio noti come huthi (per quanto il termine non sia gradito agli stessi), sciiti raggruppati nella formazione di Ansarallah (Partigiani di Dio), il movimento prende il nome da Hussein Badr al-Din al-Huthi un capo politico e religioso dello sciismo zaydita ucciso dalle forze governative nel corso di un’insurrezione nel 2004, che portava alla caduta del regime filosaudita artefice dell’inserimento dello Yemen nel mercato mondiale in stretta relazione con il capitale anglo-statunitense interessato allo sfruttamento delle risorse delle regioni centromeridionali e a una politica di privatizzazioni delle imprese statali a beneficio di Usa e petromonarchie. Per fronteggiare l’insurrezione – alla quale, a conferma che le contrapposizioni religiose fungono da paravento, partecipano anche sunniti, socialisti e formazioni del nazionalismo arabo – Usa e sauditi utilizzano prima l’infiltrazione jihadista con al-Qaida nella Penisola arabica (Aqpa), cui si aggiungeranno uomini dell’Isis per tramite degli Eau[1], e poi dal 2015 l’intervento militare diretto, giustificato con l’accusa ad Ansarallah di essere una quinta colonna iraniana (Ansarallah in realtà è riuscita a resistere grazie al sostegno popolare di cui gode nel paese)[2], con una coalizione composta da Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrein, Eau, Giordania, Egitto, Marocco, Oman e Sudan con supervisione militare e interventi diretti di Usa, Regno Unito e Francia. Un’altra buona occasione per l’apparato militare-industriale statunitense che, dall’inizio del conflitto fino al 2020, ha venduto ai sauditi armi per oltre 60 miliardi di dollari.
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Il messia collettivo: Antonio Negri e la teologia
di Gabriele Fadini
All’interno dell’ampio spettro dei temi trattati dalla riflessione di Antonio Negri, poco è lo spazio riservato alla questione legata al paradigma teologico-politico. Gabriele Fadini sostiene che ciò non comporti che i temi legati al rapporto tra teologia e politica non abbiano una portata significativa nel suo pensiero. Perciò, in questo articolo l’autore si interroga su come, nella teoria politica di Negri, certamente inscritta nella tradizione del materialismo, la liberazione possa passare anche attraverso la religione. Domanda non certo nuova, a cui tuttavia Negri dà delle risposte peculiari, radicate innanzitutto nel pensiero spinoziano dell’immanenza.
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All’interno dell’ampio spettro dei temi trattati dalla riflessione di Antonio Negri, poco è lo spazio riservato alla questione legata al paradigma teologico-politico. Ciò, tuttavia, non comporta a nostro avviso che i temi che andremo sottolineando non abbiano una portata significativa a proposito di questo argomento. In Goodbye Mr. Socialism è presente una tesi che crediamo riassumere per interno il rapporto che Negri intrattiene con il pensiero teologico-religioso:
La religione è un grande imbroglio in sé, ma può essere anche un grande strumento di liberazione per sé[1].
Ci troviamo di fronte a una ambiguità? A una contraddizione in termini? In che modo va intesa questa affermazione?La questione che ci si pone di fronte, in altri termini, consiste nel domandarci come la liberazione possa passare anche attraverso la religione per un autore che inscrive il proprio percorso di pensiero all’interno della grande tradizione del materialismo più o meno ortodosso. La domanda da cui partiamo non è tuttavia nuova per la riflessione filosofica e teologica.
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