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E.E.: Elettoralismo Estremista
di Leonardo Mazzei
«Coazione a ripetere»: l'interessante caso di Rifondazione Comunista
Ragazzi, stavolta spacchiamo il mondo! Ma, mi raccomando, con prudenza che intanto ci sono l'europee. E' questo il succo della risoluzione approvata dal Comitato Politico Nazionale (Cpn) del Prc il 15 luglio scorso. Un testo che suscita financo una certa tenerezza.
E' commovente, infatti, vedere la dedizione con la quale un partito prepara le sue nuove sconfitte. Toccante la fedeltà al principio del cambiare tutto per non cambiare nulla. E' da un decennio, del resto, che funziona così. Con tre precise costanti. In primo luogo, si cambia ogni volta nome e simbolo. In secondo luogo, si mettono insieme cani e porci. In terzo luogo, la "proposta politica" (vogliamo essere buoni) si riduce alla solita lista della spesa.
Inutile dire come queste tre costanti ne portino con sé altre due: risultati elettorali sempre più declinanti, riflessioni post-voto che ripropongono per il futuro lo stesso schema appena bocciato nelle urne dal destino cinico e baro che si accanisce, chissà perché, su tanta fantasia.
In psicoanalisi si chiama «coazione a ripetere». Un fenomeno così descritto dal Dizionario di medicina della Treccani:
«Tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze».
Lasceremo subito la psicoanalisi per tornare alla politica, ma bisogna ammettere che questa descrizione del fenomeno ci parla assai bene del rapporto tra il Prc e le elezioni. Naturalmente, il problema riguarda l'intera sinistra sinistrata, non solo dunque Rifondazione, che ne è però l'esempio più fulgido ed istruttivo.
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L'Europa e le false credenze della Sinistra
di Alessandro Somma
Tragedia greca
L’Unione europea ha finalmente dichiarato la conclusione del programma di assistenza finanziaria imposto alla Grecia nel maggio del 2010. In questi otto anni il Paese ha ricevuto prestiti per 243 miliardi di Euro dal fondi Salva-Stati, e per 32 miliardi di Euro dal Fondo monetario internazionale. In cambio ha realizzato centinaia di riforme strutturali con le quali ha tagliato la spesa sociale per l’istruzione, la sanità e le pensioni, ridimensionato la pubblica amministrazione, privatizzato i beni pubblici e le principali infrastrutture, liberalizzato i servizi, precarizzato il lavoro e indebolito il sindacato.
La dimensione della macelleria sociale provocata da queste misure si coglie dai dati che documentano l’esplosione della povertà, la compressione dei salari e delle pensioni, la crescita della disoccupazione soprattutto giovanile, la perdita dei posti di lavoro nel settore pubblico, la condizione miserevole in cui è ridotta la sanità e il sistema della sicurezza sociale nel suo complesso. Anche i parametri economici documentano in modo incontrovertibile l’insuccesso della cura imposta dall’Europa: il deficit è stato annullato e anzi il Paese è ora in surplus, ma al prezzo di un rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo passato dal 146% dell’anno in cui la Troika è giunta ad Atene, al 178,6% di adesso. Sono cresciuti anche la pressione fiscale e l’ammontare dei prestiti in sofferenza delle banche, mentre sono calati la competitività e il potere di acquisto.
Vi sono dunque riscontri notevoli di quanto l’assistenza finanziaria fornita alla Grecia sia stata fallimentare se non criminale, tenuto conto che il 90% delle somme prese a prestito hanno beneficiato le banche francesi e tedesche espostesi per aver tentato di lucrare sui titoli del debito greco.
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Domande e risposte sulla situazione storica della critica sociale radicale
Intervista a Robert Kurz
L'intervista che segue costituisce un'introduzione ad una raccolta di analisi e saggi dell'autore che verrà pubblicato in Francia
DOMANDA: Cosa rende questa crisi diversa rispetto alle precedenti?
KURZ: Il capitalismo non è l'eterno ritorno ciclico dello stesso, ma è un processo storico dinamico. Ciascuna grande crisi si viene a trovare ad un livello di accumulazione e di produttività superiore rispetto al passato. Pertanto la questione del dominio o del non dominio della crisi si pone in forma sempre nuovo. I precedenti meccanismi di soluzione hanno perso di validità. Le crisi del XIX secolo vennero superate perché allora il capitalismo non aveva ancora coperto tutta la riproduzione sociale. C'era ancora uno spazio interno di sviluppo industriale.
La crisi economica mondiale degli anni '30 costituì una rottura strutturale ad un livello assai più alto di industrializzazione. Essa venne dominata attraverso le nuove industrie fordiste e la regolazione keynesiana, il cui prototipo fu l'economia di guerra della II guerra mondiale. Quando l'accumulazione fordista andò a sbattere contro i propri limiti, nel decennio degli anni '70, il keynesismo sfociò in una politica inflazionistica, basata sul credito pubblico. Tuttavia, la cosiddetta rivoluzione neoliberista, ha solo spostato sui mercati finanziari il problema del credito pubblico. Lo sfondo è stato quello di una nuova rottura strutturale dello sviluppo capitalista, segnato dalla terza rivoluzione industriale della microelettronica. Già a questo livello di produttività qualitativamente differente, non è stato più possibile sviluppare qualsiasi terreno di accumulazione reale. Per questo motivo, nel corso di vent'anni, si è sviluppata - sulla base dell'indebitamento e di bolle finanziarie senza alcuna sostanza - una congiuntura economica globale basata sul deficit, che non avrebbe mai potuto essere sostenibile in maniera duratura.
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Il disagio dei marxisti: la crisi, la finanza e la caduta del saggio del profitto
di Alan Freeman
Alcune affermazioni sulla crisi che trovano riscontro nella realtà ma possono rendere infelici gli economisti borghesi, ma anche molti marxisti
Inizierò parafrasando George Bernard Shaw: sono state dette molte cose apprezzate sull’economia, e molte cose vere. Però ciò che è apprezzato è sempre falso e ciò che è vero è sempre impopolare.
Detto in altri termini ogni verità in economia infastidisce qualcuno e talvolta infastidisce quasi tutti. Eppure, come disse Rosa Luxemburg, l'azione più rivoluzionaria è dire come stanno le cose. Quindi l'affronto è inevitabile se si persegue la verità.
Perciò intendo dire alcune cose impopolari che, credo, si siano dimostrate vere. Potete decidere se siete d'accordo dopo aver letto i materiali in cui si presentano l’evidenza e le argomentazioni. Li cito alla fine. Alcuni non sono ancora stati pubblicati, ma scrivetemi e invierò un testo preliminare alla pubblicazione.
Potere scegliere di ignorare queste affermazioni se non concordano col vostro modo di pensare. Per aiutarvi sono disponibili molte strategie di diniego: potete liquidarle come assurde o irrilevanti; potete usare la tecnica ad hominem per ridicolizzare gli autori; potete incitare gli altri a schierarsi contro di esse, o semplicemente far finta che non esistano.
Oppure, come Marx, potete riconoscere che la conoscenza procede attraverso la contraddizione e il contrasto. Quindi che è preferibile spendere il tempo per disputare con gli avversari piuttosto che per concordare con gli amici.
In breve, il compito del marxismo, nello spirito di Marx, è di ri-imparare l'arte dell’opposizione. Con questo spirito, comincio con alcune dichiarazioni aggressive che spero vi disturbino. Altrimenti, avrò fallito.
Ecco la prima: non esiste il sottoconsumo e non esiste la sovrapproduzione.
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L'autonomia del socialismo
di Michele Prospero
È stato da poco ripubblicato, per opera della casa editrice Bordeaux, il terzo dei saggi che inaugura il percorso marxista di Galvano Della Volpe, La libertà comunista (1946). Per riconsiderare il significato dell'iniziativa teorico-politica di Della Volpe, pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice e dell'autore, il quarto paragrafo dell'introduzione al testo di Michele Prospero
Colpisce il tono anche aspro della riflessione etico-politica che è posta al centro della Libertà comunista. L’affondo portato contro i tentativi di annacquare la specificità e l’autonomia (anche filosofica) del marxismo è radicale. Il bersaglio, che viene centrato su molteplici aspetti, è l’eclettismo contemporaneo cioè la disinvoltura concettuale mostrata da teorici che cercano di gettare un ponte tra liberalismo e socialismo precipitando così in un acritico tentativo di “conciliazione”. Prendere un po’ di questo filone di pensiero e recuperare un po’ di quell’altra corrente per tentare una loro fusione estrinseca, che in Italia è il ritrovato sintetico proposto dalle correnti di Croce, Calogero, potrebbe minare l’autonomia culturale di un progetto di pensiero comunista[1]. Ciò che sfugge all’eclettismo contemporaneo è la congiunzione necessaria tra critica dell’economia (particolare) e istanza etica (universale). Solo questo intreccio degli eterogenei renderebbe possibile una soluzione coerente e su questa carenza di mediazione poggia la contestazione del sincretismo di chi si dichiara “liberale nell’etica e nella politica, socialista nell’economia” (p. 41). Una tale attitudine conciliatoria postula il divorzio tra valori e interessi, tra idee e bisogni. Nel quadro di una polemica molto accesa, anche nel testo del 1946 della Volpe non negava la rilevanza dei profili liberali dello Stato moderno, ne coglieva però la ripresa e quindi la riformulazione, entro un universo concettuale nuovo come quello di Marx che li trasvalutava mutandone l’assetto problematico-critico. Entro questo arco tematico rimodulato il rapporto tra socialismo e liberalismo appariva a della Volpe “non come uno sviluppo graduale” ma come uno sviluppo che si accompagnava a una “frattura storica” (p. 15).
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Fredrich Engels, “La situazione della classe operaia in Inghilterra”
di Alessandro Visalli
Un giovane di ventiquattro anni, figlio di un industriale tedesco con una importante filiale Manchester, scrive nel 1844 e pubblica quasi subito un libro che resterà come esempio di inchiesta sul campo e di vivida descrizione degli orrori lasciati dal primo capitalismo industriale nella regione in cui questo si sviluppa. Un classico della scienza sociale che evita accuratamente, pur nella crudezza delle descrizioni, ogni intonazione moralistica per cercare di individuare, con la freddezza dell’anatomopatologo, le ragioni dell’inumano spettacolo che ci sottopone. La storia del libro è di occasione: il padre, che aveva una fabbrica in renania, cerca di allontanare il figlio dalle sue cattive compagnie (il circolo degli hegeliani di sinistra a Berlino) e lo manda ad occuparsi appunto della filiale di Manchester.
Contemporaneamente Karl Marx stava scrivendo i cosiddetti “Manoscritti economico-filosofici del 1844” e lo stesso Engels aveva scritto in quell’anno “Lineamenti di una critica dell’economia politica”, quattro anni dopo insieme e su incarico della Lega dei comunisti i due scriveranno “Il Manifesto del Partito Comunista”.
C’è una fondamentale differenza tra lo sguardo che il giovane filosofo getta sulla condizione di immenso degrado dei quartieri popolari delle città industriali inglesi e quello dei contemporanei: la borghesia dell’epoca, per tutti i primi tre decenni dell’ottocento si è interrogata su questo degrado esclusivamente sotto la lente interpretativa dei “poveri”. Nel 1834 vengono quindi emanate le nuove “Poor Law” contro le quali nell’ultima parte del libro Engels si scaglia con veemenza, ma nessuno aveva inquadrato il meccanismo produttivo, e la costruzione di spazio e tempo dominati dalla logica fredda e spietata della concorrenza e del capitale che la muove. Quella di Engels è, invece, una inchiesta che legge le condizioni igienico-abitative della classe operaia, nelle sue diverse articolazioni, come effetto dei processi fisici di urbanizzazione interamente guidati dal profitto, e ne mostra il meccanismo. I protagonisti del libro sono le città, quindi le macchine entro le fabbriche, l’uomo ne è un effetto.
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Unità del blocco sociale subalterno e spirito di scissione
di Renato Caputo
L’esigenza prioritaria di contrapporre un blocco sociale a quello dominante è solo apparentemente in contraddizione con lo spirito di scissione
Un celebre detto di Mao Tse Tung sostiene: “grande è la confusione sotto il cielo, dunque la situazione è [per noi] favorevole”. Tale massima, apparentemente paradossale, diviene pienamente condivisibile quando la confusione domina nel campo avversario, o comunque si afferma in uno Stato nazione dominato dal nemico di classe. In quest’ultimo caso, significa che l’ideologia dominante, strumento di egemonia del blocco sociale che detiene il potere, è in crisi e anche lo Stato, quale strumento del dominio di classe di un blocco sociale, è in crisi, non riesce a imporre la propria volontà di potenza e questo crea la possibilità di sviluppare un dualismo di potere che produce una situazione potenzialmente rivoluzionaria. Ben diversa è la situazione se la confusione domina nelle fila delle classi dominate e nell’opposizione di classe al dominio della borghesia. Ciò non solo impedisce di sfruttare la situazione favorevole, prodotta dalla grave crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, ma impedisce alle classi subalterne e alle loro aspiranti avanguardie di mettere quantomeno in discussione l’egemonia e il dominio del blocco sociale borghese.
Dunque, è essenziale per i subalterni, gli oppressi, gli sfruttati, per uscire da tale condizione, cercare di contrastare in ogni modo la confusione nelle proprie fila. Tuttavia, sino a qui abbiamo detto cose ovvie, la questione più complessa che ci dobbiamo porre è se in questo determinato momento storico la confusione regni nel nostro campo a livello nazionale e internazionale. Evidentemente la risposta non può che essere in generale, purtroppo, affermativa.
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Sulla gig economy
intervista a Riccardo Staglianò
Le recenti mobilitazioni dei ciclofattorini in diverse città d’Italia hanno attirato l’attenzione dei media e della politica sulle problematiche della gig economy. Del tema Pandora ha parlato in diverse occasioni con articoli e interviste, inquadrandolo nella questione più generale della digitalizzazione e dei suoi rischi. Riccardo Staglianò, giornalista de La Repubblica, si è a lungo occupato di questi temi, che ha affrontato nel suo recente libro Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri (da noi recensito su questo sito) e anche nel precedente Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, entrambi editi da Einaudi. Abbiamo deciso di intervistarlo per approfondire il complesso di questioni che lega gig economy, sharing economy, automazione e digitalizzazione, polarizzazione sociale e concentrazione delle aziende del settore tecnologico. L’intervista è a cura di Giacomo Bottos, Raffaele Danna e Luca Picotti.
* * * *
Nel discorso pubblico, per parlare di alcune delle recenti trasformazioni economiche, si impiega spesso il termine “sharing economy” che, nell’immaginario collettivo, viene generalmente associato ad un insieme di significati positivi. In una seconda fase si è invece iniziato a parlare di “gig economy”, termine che viene generalmente usato con un’accezione critica, associato a lavori malpagati, scarsità di tutele e sfruttamento. Secondo lei esiste una reale distinzione tra “sharing economy” e “gig economy”? Insomma, esiste un “volto buono” e uno negativo delle trasformazioni che stiamo vivendo, o viceversa si tratta di processi complessivamente negativi, nei quali la retorica della condivisione nasconde una realtà diversa?
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Se si spera che la “difesa della democrazia” tocchi a Cia, Fbi, Ue…
di Redazione Contropiano
In fondo l'articolo di Michael J. Glennon
Spostarsi dal cortile di casa consente di guardare ai fenomeni con tasso di obbiettività decisamente superiore, specie quando i fenomeni sono perfettamente identici a quelli di casa nostra.
Michael J. Glennon, su Le Monde Diplomatique, svernicia senza pietà la “rivalutazione democratica” della Cia e dell’Fbi, negli Usa, che si è fin qui basata su un unico elemento: queste due servizi più o meno segreti sono entrati in conflitto con Donald Trump, a partire dall’indagine chiamata Russiagate. Un po’ come è avvenuto in Italia, con la magistratura e una parte dei “servizi”, tra Mani Pulite e gli scandali pubblico-privati di Berlusconi.
La debolezza e smemoratezza dei liberal statunitensi sono da questo punto di vista speculari ai deficit intellettuali della cosiddetta “sinistra” italiana, e il guardarle da lontano consente di far risaltare, senza troppa fatica, anche le illusioni degli “ingenui” che ci stanno intorno.
Il punto debole è evidente: incapaci di battere politicamente il mostro fuori dalle regole, emerso nonostante quelle regole, si spera che il vecchio orco antidemocratico – la Cia! – faccia il lavoro che i liberal non riescono a fare. Gli spioni incaricati di distruggere ogni parvenza di movimento o gruppo politico progressista improvvisamente rivalutati come “scudi della democrazia”. Nemmeno nel peggiore incubo…
La via giudiziaria sembra una scorciatoia, ma ha ovviamente le sue pesanti controindicazioni. In Italia (già dai tempi delle “leggi d’emergenza” contro la lotta armata) la magistratura è venuta un “ruolo politico” – scrivere le leggi al posto del Parlamento, decidere quali fenomeni contrastare e come, ecc – parecchio fuori dai limiti indicati dalla Costituzione.
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. VI
“Con due grami, miseri, semplici penny”
di Paolo Selmi
Uno sguardo al panorama bancario mondiale e a diseguaglianze più o meno ideologicamente nascoste
Continuiamo con i nostri appunti di viaggio. Riassumere in poche righe interi volumi dedicati alla storia della finanza mondiale sarebbe pura follia. Annotarsi qualche dato e trarne spunti di riflessione e approfondimento, in una prospettiva di superamento del modo capitalistico di produzione, non è solo cosa buona e giusta, ma doverosa. Occorre infatti, nell’opinione di chi scrive, uscire da quella logica “scacchistica” che qualcuno chiama, a torto o a ragione, “geopolitica”. In questo paragrafo cercherò di argomentare brevemente quella che non è solo una questione di metodo, ma anche di merito, pertanto molto più degna di approfondimento del trafiletto che le ho riservato. Ma di appunti, per l’appunto, stiam parlando.
Abbiamo delineato alcuni tratti fondamentali dei movimenti di truppe in atto sullo scacchiere mondiale. Abbiamo scelto di farlo con un taglio prevalentemente economico e di aperta critica al modo di produzione dominante a livello globale. Oggi, al contrario, è di moda presentare la situazione internazionale in un’ottica neutra, dove al posto del conflitto di classe domina la “geopolitica”: ogni parte in causa descrive soggettivamente i movimenti di nemici, avversari e concorrenti in relazione ai propri e da un punto di vista, si sarebbe detto un tempo, prettamente aderente al modo di produzione dominante. Limitatamente allo stesso, ne critica cause e conseguenze, adesione più o meno formale, piuttosto che infrazioni, a “regole del gioco”, norme scritte e non su codici di diritto internazionali divenuti sempre più carta straccia, individuando possibili traiettorie e prendendo le adeguate contromisure. Come risultato, ciascuna di queste letture, pur approfondita, dettagliata, argomentata, si muove entro i confini imposti, organicamente agli stessi, ovvero si differenzia da letture analoghe o apparentemente contrapposte soltanto perché – nella migliore delle ipotesi – anziché muovere il cavallo avrebbe mosso l’alfiere, oppure perché – nella peggiore – aderente ai neri o ai bianchi senza se e senza ma.
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La Cassazione contro gli operai
Critica alla sentenza sui cinque operai FCA di Pomigliano
di Andrea Vitale
“Non l’abbiamo mai nascosto. Il nostro terreno non è il terreno del diritto; è il terreno della rivoluzione. Il governo, da parte sua, ha infine abbandonato l’ipocrisia del terreno legale; si è posto sul terreno rivoluzionario; giacché anche il terreno controrivoluzionario è rivoluzionario”.
Così scriveva nel lontano 1848 il giovane Karl Marx. Siamo oggi di fronte a tutt’altra situazione di quella rivoluzionaria che nel ’48 sconvolgeva l’Europa, eppure questa frase è del tutto adeguata ad esprimere il giudizio sulla sporca faccenda che ha visto la Cassazione ribaltare la sentenza di appello e confermare il licenziamento dei 5 operai FCA di Pomigliano. Certamente non abbiamo a che fare con le titubanze e le indecisioni della borghesia tedesca né con la controrivoluzione prussiana, ma con una semplice e plateale denuncia della propria tremenda condizione fatta da un gruppo di operai e l’avallo che la magistratura fa della rappresaglia del padrone, il quale non può accettare nessuna critica e pretende il silenzio e la totale sottomissione degli operai che sfrutta. Nondimeno le parole di Marx risultano pregnanti in questo contesto.
“Non l’abbiamo mai nascosto. Il nostro terreno non è il terreno del diritto; è il terreno della rivoluzione”.
I licenziati di Pomigliano hanno sempre avuto presente questo concetto e non hanno mai avuto il timore di dichiararlo a gran voce. Lo hanno fatto quando hanno detto che loro non erano interessati alla lunga e spesso sterile trattativa sulla vite in più o in meno da avvitare sulla linea di montaggio. Questo livello di scontro, se assolutizzato come unico piano di azione degli operai, presuppone l’accettazione eterna della propria condizione di “prestatori di lavoro” sotto il comando del padrone. Un piano conflittuale che in particolare nella crisi rivela tutti i suoi limiti, quando, sotto il ricatto della disoccupazione e della concorrenza fra proletari, la forza contrattuale operaia viene drasticamente ridimensionata.
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I lati oscuri del web (e come possiamo ancora provare a salvarci)
di Luca Pantarotto
C’era una volta il futuro. Per buona parte del Novecento l’abbiamo sognato, inseguito e temuto, sulla cresta di un’onda tecnologica sempre più inarrestabile che sembrava porsi l’obiettivo di tradurre in realtà, nella seconda metà del secolo, ciò che i più audaci scrittori di fantascienza avevano immaginato nella prima. Negli anni ’80 e ’90 la mia generazione si è nutrita, a tutti i livelli dell’immaginario, di scenari futuristici in cui l’uomo si sarebbe invariabilmente trovato al centro di dinamiche di controllo o di conflitto legate a una crescita sfrenata del ruolo delle macchine nella nuova società, accompagnata di volta in volta da vari gradi di inquietudine, dall’ansia generica e sottile all’apocalisse imminente.
Un genere di storie che seguiva più o meno sempre la stessa curva: da una situazione iniziale di entusiasmo tecnocratico che portava l’umanità a delegare alle macchine funzioni e competenze sempre più estese, dall’amministrazione domestica al controllo degli armamenti nucleari, si scivolava verso un punto di non ritorno in cui le macchine stesse, ormai detentrici di intelligenza e capacità decisionali perfettamente autonome, si accorgevano di non aver più bisogno dell’uomo, apprestandosi quindi ad assoggettarlo, incorporarlo o sostituirlo. Finché qua e là iniziavano a formarsi nuclei di resistenza che, in formazioni via via più cospicue, sferravano l’attacco finale al centro del potere in nome del ritorno alla libertà e una società nuovamente antropocentrica.
Le implicazioni di un topos così fertile sono evidenti, e infatti negli anni si è costruita, intorno alla contrapposizione uomo-macchina, una vera e propria tecnomitologia coesa e perfettamente definita nelle sue caratteristiche. E poco importa che poi il futuro abbia preso un’altra direzione, e che oggi gli scenari catastrofici che per decenni hanno alimentato il nostro immaginario suonino più fantascientifici delle navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione.
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Dove porta il «né... né...»
di Leonardo Mazzei
A proposito di un articolo di Domenico Moro e Fabio Nobile
A sinistra non tutti hanno portato il cervello all'ammasso. Qualche giorno fa abbiamo segnalato, ad esempio, un intervento di Gianpasquale Santomassimo totalmente critico verso ogni ipotesi di union sacrée antifascista. Una prospettiva giustamente respinta anche in un recente articolo di Domenico Moro e Fabio Nobile. Purtroppo, però, il ragionamento di questi due compagni, sfociando nella più classica posizione del «né né», conduce nel vicolo cieco dell'assenza di una linea politica. E questo nel bel mezzo di un passaggio cruciale per il nostro Paese.
Il loro scritto vuol essere in realtà un contributo critico sulle vicende interne di Potere al Popolo, ma la parte che a noi qui interessa è quella che concerne il posizionamento proposto nell'attuale fase politica.
Moro e Nobile colgono bene la novità della situazione: «L’Italia presenta una situazione politica inedita: è l’unico Paese in cui non è al governo alcun partito afferente a uno dei due storici raggruppamenti europei, il Ppe e il Pse». L'unico Paese in cui «il bipartitismo tradizionale è collassato». Peccato che ad una descrizione così nitida di un quadro nuovo e dinamico, segua invece la grigia proposta di una linea politica centrista, quella che per semplificare definiamo del «né né».
Apriamo una parentesi per chiarire subito che anche il «né né» può essere talvolta legittimo. Ad esempio, durante i disgraziati anni del bipolarismo secondo-repubblicano (1994-2013, con uno stentato prolungamento nel quinquennio successivo), e nonostante i diversissimi scenari in esso prodottisi nel tempo, ogni seria posizione di classe non poteva che esprimersi in un simultaneo rifiuto tanto del "centrosinistra", quanto del "centrodestra".
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La debolezza teorica del dogmatismo ordoliberale tedesco
di Andrea Kalajzic
In Germania, il dibattito successivo allo scoppio della crisi debitoria nell’Eurozona ha portato alla luce una posizione rigidamente ortodossa, condivisa dalla Bundesbank e dal Ministero delle finanze tedesco, fortemente critica verso la Cancelleria e le istituzioni europee. L’illustrazione probabilmente più completa di questa posizione si trova in alcune pubblicazioni del più prestigioso tra gli economisti conservatori tedeschi, l’ex presidente dell’Ifo Institut for Economic Research di Monaco di Baviera, Hans-Werner Sinn.[1]
All’inizio del nuovo millennio, Sinn era tra coloro che si aspettavano una spinta alla crescita europea e alla convergenza tra le economie dei paesi aderenti alla moneta unica per effetto di una più efficiente allocazione dei capitali nell’Eurozona. Secondo Sinn, gli squilibri di parte corrente e i crescenti differenziali di inflazione osservati nell’area dell’euro durante gli anni precedenti lo scoppio della crisi andavano quindi interpretati come inevitabili manifestazioni temporanee di un processo di convergenza virtuoso tra le economie reali dei paesi ‘periferici’ e ‘centrali’ dell’Eurozona.[2]
La crisi ha però spinto Sinn a riconsiderare le sue previsioni ottimistiche. L’economista tedesco parte dalla constatazione che la crisi nell’Eurozona deve essere considerata come una crisi da indebitamento estero, la cui origine è di natura principalmente privata (famiglie e imprese finanziarie) piuttosto che pubblica. Pertanto, l’aumento dei deficit e dei debiti pubblici in rapporto al Pil osservato in Europa dopo il 2008 rappresenta una conseguenza e non la causa della crisi.
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La mano invisibile degli algoritmi
I dieci comandamenti della governance
di António Covas
È possibile che dopo tutta quest'abbuffata di caso e necessità, fatta così tanto di determinismo e di casualità, di così tanta arte, politica e filosofia, ci troveremmo ad essere ostaggi della governance algoritmica, o finiremmo per diventare i credenti del dataismo?
Ci troviamo nella piena digitalizzazione della società, delle persone e delle cose. D'ora in poi, ogni cosa è intelligente "in modo digitale": la casa, l'automobile, l'azienda, l'ufficio, la scuola, la strada, l'ospedale, ecc. Tutto acquisisce una vita propria, quel che è reale è virtuale, e quel che è virtuale è reale, e ogni cosa snocciola informazioni per tutto il tempo. È questo il futuro radioso che ci era stato promesso dall'economia dell'informazione, dall'analisi dei dati, dai Big Data, ovvero dalla religione del dataismo.
Dopo la mano divina, e dopo la mano invisibile del mercato, siamo arrivati alla mano seducente e benevola dei Big Data. L'economia dei Big Data è, se vuoi, la mano invisibile della libertà di circolazione dell'informazione. Più dati, sempre più dati, e saremo così sempre più vicini alla verità, in questo grande bazar che sono i processori di dati, l'universo degli algoritmi e del meta-algoritmi. Il razionale del dataismo consiste nel trovare una norma standard di comportamento e, a partire da essa, prevenire l'incertezza e la deviazione che viene sempre percepita dalla nostra imperfetta razionalità biologica. La grande ambizione dell'intelligenza razionale del dataismo è quella di sostituire la "nostra imperfezione", che dopo tutto è la nostra coscienza emozionale ed individuale e la nostra intersoggettività. In questo senso, con molta benevolenza, possiamo dire che gli algoritmi sono una sorta di fratelli più vecchi, se vogliamo, dei narratori autorizzati della nostra esistenza. Ed è meglio seguirli! In un oceano di informazioni, solo questi calcolatori universali, gli algoritmi, hanno la capacità analitica in grado di processare e trattare così tanti "dati irrilevanti" di natura infra-personale.
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Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx
di Costanzo Preve
Scritti fra l’aprile e l’agosto del 1844 a Parigi da un Marx ventiseienne, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 sono un’opera non destinata alla pubblicazione, che Marx non ha mai sistematizzato ed organizzato come è d’uso quando un testo è destinato ad una pubblicazione a stampa. Essi presuppongono la lettura e lo studio del saggio dell’amico Engels Lineamenti di una critica dell’economia politica, pubblicato nel febbraio 1844. Si tratta essenzialmente di appunti di chiarimento ad uso personale, come è stato recentemente stabilito da un accurato esame filologico (cfr. Jürgen Rojahn, in “Passato e Presente”, 3, 1983). Pubblicati per la prima volta nel 1927 in URSS per opera di Rjazanov, essi non entrarono nel dibattito filosofico europeo prima del 1932, ed il primo intervento autorevole di quell’anno che ne segnala la grande importanza per la comprensione del pensiero globale di Marx è quello di Herbert Marcuse (cfr. H. Marcuse, Marxismo e rivoluzione. Studi 1929–1932, Einaudi, Torino 1975, pp. 61–116). La presa in considerazione dei Manoscritti è quindi del tutto estranea al processo di sistematizzazione e di coerentizzazione dottrinale del pensiero di Marx, che divenne appunto “marxismo” nel ventennio 1875–1895 per opera pressoché esclusiva di Engels e Kautsky. E questo non è un caso. Questo “marxismo”, costruito di fatto come una teoria del crollo della produzione capitalistica, non avrebbe saputo che farsene di una teoria dell’alienazione e neppure di una critica filosofica dell’economia. I Manoscritti hanno quindi letteralmente “dormito” per quasi un secolo. Si tratta di una sorte comune a molte altre opere filosofiche. L’Aristotele che conosciamo aveva “dormito” per tre secoli fino al primo secolo avanti Cristo, e Lucrezio, del tutto ignoto a Dante, dovette attendere il quindicesimo secolo per essere “scoperto” in Germania da un umanista italiano in “trasferta”.
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“I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia?”
di Massimo Aprea
Recensione a: Paul De Grauwe, I limiti del mercato, da che parte oscilla il pendolo dell’economia? il Mulino, Bologna 2018, pp.192, 16 euro (scheda libro)
«La storia economica degli ultimi duecento anni è una storia fatta di movimenti ciclici. Movimenti che hanno accresciuto l’influenza dei mercati a spese dei governi e che poi hanno riportato il predominio dei governi a spese dei mercati».
Come aggrappata a un pendolo, l’umanità oscilla continuamente tra gli estremi di stato e mercato, ritenendo di volta in volta l’uno o l’altro più adatto per tutelare il proprio benessere. È questa l’immagine con cui nel suo nuovo libro I limiti del mercato, Paul De Grauwe, noto economista belga, interpreta gli sviluppi del capitalismo moderno.
Ma qual è il meccanismo che innesca un’inversione del pendolo dell’economia? La risposta a questa domanda costituisce il cuore dell’argomentazione del libro e ha a che fare con i limiti dello stato e del mercato. In estrema sintesi, lo stato, senza mercato, non è in grado di generare un livello sufficiente di prosperità materiale; il mercato, invece, senza le necessarie azioni correttive da parte dello stato, esclude dal grande benessere che è in grado di produrre un’ampia fetta della popolazione. In entrambi i casi il malcontento e la frustrazione si accumulano fino ad esplodere in un evento traumatico; a quel punto il pendolo dell’economia inverte la sua rotta e a procede verso l’estremo opposto. In queste oscillazioni del pendolo, dunque, i punti di svolta coincidono con momenti di grande sofferenza per un gran numero di individui. È per questo motivo che gli sforzi di politici ed economisti si devono concentrare sulla ricerca di quell’equilibrio magico tra stato e mercato che consentirebbe al pendolo, finalmente, di riposare.
Quello che è certo, infatti, secondo De Grauwe, è che l’eterno dibattito stato vs mercato è fuorviante e puramente ideologico: stato e mercato sono, in verità, due elementi coessenziali di un sistema economico che si proponga al contempo di generare prosperità e di fare in modo che sia condivisa. Due strumenti che devono lavorare insieme, ognuno ponendo un freno ai limiti dell’altro, per accrescere il benessere delle persone e consentirgli, in ultima analisi, di essere felici.
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I rischi della guerra economica Usa-Cina
di Vincenzo Comito
La guerra economica tra Stati Uniti e Cina è partita il 6 luglio. Potrebbe riguardare, tra dazi, controdazi e perdita di produzioni, qualcosa come mille miliardi di dollari e portare a una recessione mondiale
La guerra economica tra Stati Uniti e Cina, nell’ambito di una offensiva commerciale più vasta scatenata da Trump contro quasi tutto il resto del mondo, è dunque partita davvero, il 6 luglio, nonostante lo scetticismo e l’incredulità di molti.
Sull’argomento sono state scritte molte migliaia di pagine e sono state dette moltissime cose. Cercheremo quindi di concentrare la nostra attenzione, per la gran parte, su alcuni degli argomenti meno esplorati dai media.
Le motivazioni di Trump
Ci si è a lungo interrogati sulle ragioni di queste iniziative di Trump.
La spiegazione ufficiale fornita dal presidente è quella che sono presenti degli squilibri inaccettabili nella bilancia commerciale del Paese con la controparte asiatica, mentre per di più le imprese cinesi rubano con la frode o con contratti iniqui le tecnologie americane, mentre intanto le imprese Usa vengono bloccate nei loro tentativi di penetrazione del mercato cinese e mentre infine la Cina sostiene con grandi aiuti statali lo sviluppo delle nuove tecnologie da parte delle imprese locali.
Ma queste motivazioni non sembrano tenere conto, tra l’altro, del fatto che circa il 50% delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti sono fatte da imprese statunitensi e che, più in generale, oggi le catene del valore dei singoli prodotti sono molto complesse e che spesso la loro produzione tocca oggi anche 10-20 Paesi.
Per altro verso e più in generale, come ci ricorda Paul Krugman (Krugman, 2018), Trump e soci fanno affermazioni sugli effetti delle loro politiche che non hanno alcun riscontro nella realtà: Trump inventa cose di sana pianta e i suoi consiglieri di solito raccontano trionfi economici immaginari.
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Il falso liberismo dell’ordoliberismo
di Cristina Re
In Occidente, dalla Seconda guerra mondiale e fino agli anni Settanta del secolo scorso, l’ideologia che ha vinto la battaglia all’interno della società civile diventando egemone è stata quella keynesiana. Dagli anni ’80 in poi è invece avvenuto un netto cambiamento con l’affermazione della egemonia neoliberista, sia pure con differenti configurazioni a seconda dei diversi contesti nazionali. Dapprima in Germania e poi in Europa è stata la variante tedesca “ordoliberista” a vincere il dibattito culturale, così da diffondersi attraverso gli “apparati ideologici di Stato”, diventando senso comune e creando i presupposti per un complesso sistema di controllo. Spesso questo avviene senza percezione da parte della maggioranza della popolazione, tant’è che vi è una grande confusione in merito al suo effettivo contenuto. Nelle prossime pagine, si cercherà di fare chiarezza su questo tema, ricostruendone le idee e il periodo storico nel quale si è affermato.
Il momento fondativo del neoliberismo è collocabile al convegno Walter Lippmann tenutosi a Parigi, nel 1938 e in cui parteciparono, tra gli altri, von Hayek, Röpke e von Rüstow (Dardot e Laval, 2013). Al convegno per la prima volta venne usato il termine “neoliberismo” (Davies, 2014) e questo rappresenta di fatto il primo tentativo di creazione di una vera e propria “Internazionale neoliberista”. Nove anni dopo, nel 1947, Hayek fondò la Mont Pelérin Society con l’obiettivo di darne seguito con un think tank che riunisse tutti gli intellettuali neoliberisti del mondo. La nuova associazione diventerà il baluardo del neoliberismo agendo nell’accademia, nei media e nel business allo scopo di inserire membri e simpatizzanti in ruoli chiave, sia politici che economici, e divenendo famosa grazie anche agli otto premi Nobel assegnati ai suoi membri (tra i quali Milton Friedman e lo stesso Hayek) (Miroski e Plehwe, 2009).
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La fine dell'”eccezionalismo” americano
di Redazione
I vertici a due sono sempre un po’ problematici da leggere. I protagonisti – in questo caso Trump e Putin – raccontano quel che a loro conviene far sapere, tacciono su tutto il resto. La stampa internazionale si muove assecondando gli interessi delle rispettive proprietà, e quindi gioca a rilasciare interpretazioni sulla falsariga del “a chi giova” oppure “chi vince, ci perde”.
I media mainstream – a cominciare dall’orrenda Repubblica – si sono concentrati sullo scontro Trump-Fbi, sugli strascichi del Russiagate e le presunte interferenze di Mosca nelle elezioni presidenziali Usa. Hanno insomma proseguito una sorta di campagna elettorale post-elettorale per conto dell’establishment Usa (democratici e repubblicani uniti, entrambi spiazzati dal “pazzo”).
Impossibile sapere o ricostruire, da quelle fonti, la mappa degli interessi economici e geopolitici in gioco, le implicazioni dirette e indirette, i cambiamenti nei rapporti di forza che in questi vertici vengono registrati e formalizzati.
Siamo perciò andati a cercare le analisi di due dei migliori interpreti delle dinamiche globali per consentire anche ai nostri lettori di orizzontarsi fuori dal blob della propaganda. Due punti di vista specialistici molto diversi e proprio per questo utili. Sul piano geopolitico riportiamo di seguito l’analisi di Alberto Negri, storico inviato di guerra de IlSole24Ore, ora battitore libero di grande indipendenza e chiarezza espositiva. E quello di Guido Salerno Aletta, editorialista di Milano Finanza, che privilegia naturalmente i dati dell’economia globale.
Dall’incrocio di queste analisi molto informate emergono alcuni “trend” che cerchiamo di tenere d’occhio da molto tempo:
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Lenin: l’imperialismo rende necessaria la rivoluzione
di Renato Caputo
Dalla distinzione fra guerra imperialista e guerra rivoluzionaria, alla critica agli Stati uniti d’Europa
Il nodo centrale su cui, secondo Lenin, è necessario fare chiarezza, per smascherare davanti alle masse popolari i social-sciovinisti – ovvero coloro che si definiscono socialisti per meglio occultare la propria adesione allo sciovinismo – è imparare a distinguere nettamente la sacrosanta lotta dei popoli per l’autodeterminazione nazionale, dal sedicente diritto dei socialisti di sostenere una guerra imperialista con la scusa della necessità della difesa della patria: “per spacciare la presente guerra – la Prima guerra mondiale – come una guerra nazionale i socialsciovinisti si richiamano all’autodeterminazione delle nazioni. Contro di loro vi è un’unica lotta giusta: bisogna dimostrare che la guerra in corso non si combatte per emancipare le nazioni, ma per stabilire quale dei grandi briganti debba opprimere più nazioni” [1].
D’altra parte Lenin è altrettanto duro con i social-pacifisti, ovvero coloro che si dicono rivoluzionari a parole, ma sono riformisti nei fatti, in quanto sono contrari a trasformare la guerra imperialista, in una guerra sociale rivoluzionaria, mediante cui abbattere l’imperialismo, quale causa principale delle guerre nel mondo contemporaneo. Perciò, a parere di Lenin, “giungere a negare la guerra, condotta realmente per liberare le nazioni, significa fornire la peggiore caricatura del marxismo” [2]. L’appello al disarmo e alla non violenza rischia di non essere altro che il tratto distintivo dell’impotenza propria del cavaliere della virtù o dell’anima bella inevitabilmente travolti dall’implacabile destino, ovvero dal necessario sviluppo del corso del mondo. In effetti, come mette in guardia Lenin: “solo dopo aver disarmato la borghesia il proletariato potrà buttare tra i ferri vecchi, senza tradire la sua funzione storica mondiale, tutte le armi, ed esso non mancherà di farlo, ma solo allora, e in nessun caso prima” [3].
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. V
"Timeo Danaos et dona ferentes": sulla politica imperialistica degli "aiuti"
di Paolo Selmi
“Все счастливые семьи похожи друг на друга, каждая несчастливая семья несчастлива по-своему” (“Tutte le famiglie felici si assomigliano l’una all’altra, ciascuna famiglia infelice lo è a suo modo”): così inizia Anna Karenina, così verrebbe da iniziare questo paragrafo su uno dei tasti più dolenti di questo capitalismo globalizzato, dilaniato dai ruggiti dei nuovi imperialismi e dai rigurgiti dei vecchi. Non c’è nulla di più infelice, di più ipocrita, di più falso, della cosiddetta “cooperazione internazionale”. Ognuno la rende infelice “по-своему”, “a suo modo”: l’Occidente, come alibi per la propria politica neocoloniale, e oggi la Cina, come copertura alla propria politica “di prosperità comune”. Del primo aspetto si è parlato molto, del secondo poco o niente. Colmeremo tra poco questa lacuna ma prima, giusto per capire di cosa si tratta, occorre fare un passo indietro.
Inutile a dirsi, Pechino interviene a gamba tesa su alcune precise, non casuali, situazioni debitorie consolidate, laddove l’imperialismo occidentale, in particolare statunitense, nella figura di quel mostro a due teste di nome FMI-BM (fondo monetario internazionale-banca mondiale) fino a oggi l’aveva fatta da padrone. Occorre quindi fissare alcuni punti cardine, onde riportare la nostra analisi entro un campo di esistenza definito da categorie certe, che non siano la semplice simpatia o antipatia per questo o quello schieramento. Parliamo quindi di dipendenza, meglio, di economia della dipendenza. Non possiamo comprendere le dinamiche del sottosviluppo se prima non affrontiamo la sua causa prima. Ad aiutarci, uno dei fondatori di questa teoria, Theotonio Dos Santos (1936-2018), recentemente scomparso. La sua fama diveniva mondiale nel 1970, con un breve saggio, “La struttura della dipendenza”1 , da cui citiamo i seguenti estratti.
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La crisi dell'estetica trascendentale occidentale
di Pierluigi Fagan
Kant, iniziava la sua indagine sulla ragione umana[1], premettendo l’analisi sulle forme della mente entro le quali si ambientano poi tutte le altre funzioni. Le chiamò -estetica-, dal greco àisthesis che significava “sensazione” e -trascendentale- ovvero che si danno prima ancora di farne esperienza, sono apriori, sono condizioni di possibilità per tutto il resto. L’ET quindi indagava proprio le forme a priori che permettono la collocazione mentale di quegli oggetti e fenomeni di cui poi facciamo esperienza sensibile. Queste forme, secondo il nostro, erano due: la spazio ed il tempo. Queste due forme sono nella nostra mente. Kant visse mezzo secolo prima di Darwin e quindi non poteva dedurre che queste forme fossero il portato dell’evoluzione, ma oggi sappiamo che sono presenti in noi perché ci danno la possibilità di entrare in relazione con ciò nel quale siamo immersi. Ai fini pratici, poco importa disquisire se queste forme esistono oggettivamente fuori di noi o meno, se esiste davvero lo spazio e proprio così come ci sembra che sia -sappiamo ad esempio, con la fisica quantistica, che dello spazio si danno altre forme oltre a quella che sperimentiamo sensibilmente- o se esiste il tempo, tema su cui molti fisici si appassionano in seguito ai portati della relatività einsteniana. Prendiamo atto che così funziona la nostra mente, “come se” davvero la realtà in cui siamo immersi rispondesse a queste forme che ci aiutano a percepirla per poi -in essa- orizzontarci ed agire.
Detto ciò sul piano generale ed impersonale, trasferiamoci al piano sociale ovvero storico e culturale. A priori le forme di spazio e tempo sono scenari del possibile, a posteriori queste forme pluri-possibili, hanno preso alcune inclinazioni discriminanti, alcune forme determinate dalla storia e dalla cultura che, cumulandosi, fanno la nostra mentalità. E’ quindi una corruzione del trascendentale puro, è un apriori in cui la forma pura si declina con quella acquisita nella storia.
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Putin, Trump, Deep State, Coppa del Mondo, Mattarella
di Fulvio Grimaldi
Brevemente, sugli splendidi (più per organizzazione, atmosfera, che per gioco) Mondiali 18 di Russia, riflessioni di uno spaparanzato al sole, irradiato da un incontro Putin-Trump che, riprendendo i toni positivamente alternativi del ciuffone di polenta nei suoi trascorsi elettorali e anche prima (rapporti con la Russia, Nato, messa in discussione della False Flag 11 settembre), incontrando quelli, da sempre saggi e corretti, di Putin, non ha potuto che trasformarsi in puntura di speranza per i giusti e onesti del mondo. Ma come i vaccini con i residui di metalli pesanti e altro, dal cui morso coatto ora pare voglia almeno parzialmente liberarci la ministra 5 Stelle, anche questa fialetta, al promesso bene, aggiunge un fondo rancido.
E qui le riflessioni escono dall’area di luce per disperdersi nel buio di un’ombra affollata dai ectoplasmi neri della mediacrazia uccidentale, dall’Huffington Post al manifesto, attraverso le sette montagne di Mordor popolate dai giornaloni e televisionone. Frustrata oltre ogni limite da un rapporto cazzate-cose buone del governo, che l’ha fatta sbroccare già solo per museruola ai biscazzieri, sindacato dei militari, riposo domenicale degli esercizi, possibile veto alle sanzioni alla Russia, freno al precariato, tagli alle borse gonfie d’oro sottratto, approccio culturale anziché mercantile alla Cultura, il Comandante della Forestale all’Ambiente, sabbia negli ingranaggi dello spostamento indotto di popoli, mazzate ai delocalizzatori (d’accordo, lo so, non ci basta, vorremmo tutto subito, ma la marcia delle donne su Versailles non è ancora partita, per ora le fanno fare la guerra ai maschi), l’élite, subiti questi graffi, ha scatenato i suoi media.
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Il punto di non ritorno
di Riccardo Achilli
La domanda centrale se vi sia un futuro per una sinistra autonoma ed influente è, in un orizzonte temporale ragionevole per poter fare previsioni (diciamo 5-10 anni), a parere di chi scrive, ha riposta negativa. Ho già scritto in relazione alle condizioni necessarie per riavviare sin da subito un percorso di ripartenza della sinistra in un recente articolo ("Sinistra: estinzione o rinascita?" su L'Interferenza) ma, diciamoci la verità, tali condizioni non sono realisticamente praticabili. I gruppuscoli dirigenti attuali, responsabili in massima misura della catastrofe, non hanno alcuna intenzione di mollare, se non celandosi dietro qualche uomo/donna di paglia manovrato/a alle spalle in un simulacro di rinnovamento. Anzi, il governo gialloverde fornisce a questi scellerati l’occasione di ricompattare le loro scarne truppe in una battaglia di sopravvivenza contro immaginifici pericoli razzisti e fascisti artatamente agitati e patologicamente interiorizzati in una sorta di coazione a ripetere ideologica da parte dei propri seguaci. E’ una acquisizione clinica il fatto che alcune delle peggiori psicosi, come ad esempio la paranoia, siano disturbi della funzione del “dare senso” alle immagini, ai simboli ed alle rappresentazioni (Hillmann ha scritto un saggio sulla paranoia molto utile per identificare alcuni sintomi indicativi del morbo mentale che affligge la sinistra radicaloide italiana).
Non essendovi alcun ricambio significativo di ceto politico, non vi sarà alcun ricambio di messaggio e di parole d’ordine e, di conseguenza, non vi sarà alcuna espansione rispetto ai residuali presidi sociali della sinistra (il Pd non fa parte della definizione di “sinistra”, ovviamente) consistenti in segmenti minoritari di ceto medio riflessivo e di militanza tradizionale. Nell’incapacità di dare senso alla fase storica, e quindi di immaginare un posizionamento ed una linea politica attualizzati al contesto reale e non a quello fantasmato, la sinistra terminerà la sua agonia (che dura sin dagli anni Novanta, con il tracollo dei riferimenti ideologici e culturali principali, nelle macerie del muro di Berlino) nella morte definitiva.
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