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La rivoluzione passiva del governo Conte
di Renato Caputo
Per quanto sia una rivoluzione-restaurazione quella portata avanti dal governo Conte, non bisogna accordarsi a chi la critica da destra, ma rilanciare dal basso il processo rivoluzionario
In prima istanza, servirsi della categoria gramsciana di “rivoluzione passiva”, ovvero di “rivoluzione senza rivoluzione”appare fuori luogo per connotare l’attuale governo in cui pare avere l’egemonia Salvini e la componente oggettivamente reazionaria a lui legata. D’altra parte, se per “rivoluzione passiva” non si intende tanto una rivoluzione dall’alto, ma anche e soprattutto, come fa Gramsci, una “rivoluzione-restaurazione” le cose potrebbero cambiare. Tanto più che Gramsci definisce rivoluzione passiva nella sua epoca non solo e non tanto il “New Deal” rooseveltiano, ma piuttosto il fascismo, nel senso lato del termine che ha una dimensione oltre che pratica per l’Italia, ideologica per l’Europa [1].
Del resto, il concetto di rivoluzione passiva è utilizzato per la prima volta da Gramsci per designare il programma politico e la modalità di direzione egemonica del blocco moderato-liberale del Risorgimento, meglio noto come “Destra storica” (957). Tanto più che la direzione politica esercitata da quest’ultima è il prodotto, è l’espressione dell’“assenza di iniziativa popolare nello svolgimento della storia italiana” (Ibidem). Per cui lo stesso carattere “progressivo” della rivoluzione passiva non è altro che la “reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari con ‘restaurazioni’ che accolgono una qualche parte delle esigenze popolari” (Ibid.). In tal modo diviene pienamente comprensibile il significato di rivoluzione-restaurazione che ha in Gramsci il concetto di rivoluzione passiva, piuttosto che quello di Rivoluzione dall’alto più pertinente a descrivere forme di cesarismo progressivo. Tanto più che, a parere di Gramsci, la rivoluzione passiva è il prodotto della debolezza delle “forze progressive”, che consentono che la classe dirigente politica non sia espressione immediata della classe economica dominante ma sia espressione, piuttosto, del “ceto degli intellettuali” (1360).
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Soggettività marxiane, un libro a più voci
di Andrea Girometti
Il libro “Marx: la produzione del soggetto” (Derive Approdi, 2018), curato da Luca e Michele Basso, Fabio Raimondi e Stefano Visentin è un insieme di riletture dei testi sotto la luce della formazione dell’individuo nei suoi aspetti attivi e passivi. Con anche una critica femminista
L’incipit del bel testo Marx: la produzione del soggetto (Derive Approdi, 2018), curato da Luca e Michele Basso, Fabio Raimondi e Stefano Visentin – dedicato all’«amico e compagno Alessandro Pandolfi» recentemente scomparso – non può essere più chiaro negli intenti richiamando la non diffusa presenza del termine “soggetto” (inclusi i suoi derivati) nell’opera marxiana e allo stesso tempo scommettendo «sulla specificità e sull’operatività politica [di tale] parola».
Si tratta, peraltro, di un termine denso e ridondante nel dibattito filosofico-politico, e non di meno fantasmatico, come ribadiscono gli autori. È dunque sul «significato storico, teorico e politico che il concetto di soggetto svolge in alcune opere di Marx» che ruotano gli interventi dei diversi autori, sulla base del comune assunto che il marxiano «lessico della soggettività si presenta intrecciato e talvolta sovrapposto a una serie di altri termini significativi». Si pensi, come sottolineano i curatori, alla concezione del comunismo come realizzazione degli «individui come individui», degli «individui sociali», dei «liberi produttori associati». E ancora, si consideri quanto significativo fosse il fatto che Marx utilizzasse il termine Individuum (e non Subjekt) «in quanto portato del modo di produzione capitalistico» (pp. 7-8) o al tentativo, presente fin dai primi scritti, di superare la dicotomia soggetto individuale/soggetto collettivo.
In ogni caso, la scelta di utilizzare «la locuzione produzione del soggetto» rinvia all’ambivalenza intrinseca al termine in quanto indicante – insieme – un ente assoggettato e un ente autonomo, dunque la persistenza dei caratteri passivi e attivi che sempre lo connotano.
In altri termini, non si dà emancipazione che possa prescindere da limiti, presupposti e circostanze date. L’azione, individuale e collettiva, è sempre situata e sempre eccedente ogni determinismo nei suoi possibili risultati.
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Una questione di classe: perché la flat tax conviene al capitale
di coniarerivolta
La flat tax proposta dal Governo di Lega e Cinque Stelle viene presentata come una grande riforma fiscale che sarà di beneficio a tutti i ceti sociali, compresi quelli meno abbienti. Essa, in realtà, non farebbe altro che privilegiare una categoria assai ristretta di redditi elevati incrementando quel processo di erosione della progressività delle imposte già in atto da tre decenni. A ben vedere, la flat tax è il tentativo di un pezzo di classe dominante oggi in declino di rientrare sul carro dei vincitori del neoliberismo, a discapito solo ed unicamente dei lavoratori, sia in termine di maggiore peso fiscale sostenuto che in termini di minor welfare che sarà causato dalla riduzione delle entrate. In questo articolo cerchiamo di smascherare la retorica del governo giallo-verde sull’argomento.
Flat tax: chi ci guadagna?
La proposta del governo si articola come segue: per quanto riguarda i redditi delle persone fisiche, si passerebbe ad un sistema a due aliquote, al 15% e al 20%. La soglia di reddito che andrebbe a separare i due scaglioni dovrebbe essere fissata a 80.000 euro. Un’aliquota massima al 20% significa naturalmente un risparmio enorme di imposta per tutti i soggetti più benestanti o ricchi che attualmente pagano aliquote marginali fino al 43%. Risparmio tanto più intenso quanto più il reddito del contribuente è elevato.
Semplici calcoli hanno dimostrato che l’impatto della flat tax, anche nella versione a due aliquote del programma di governo, ridurrebbe fortemente le imposte sui redditi più elevati, con un effetto fortemente regressivo. A conti fatti un reddito di 30.000 euro annui finirebbe per pagare maggiori imposte, un reddito di 50.000 euro avrebbe un guadagno esiguo (1%), un reddito di 80.000 euro un guadagno del 15% e un reddito di 300.000 del 40% e così via, in un crescendo di regressività.
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La Comune e la somma dei possibili
di Mario Pezzella
Esce in questi giorni nelle librerie il numero speciale della rivista Il Ponte “Il tempo del possibile: l’attualità della Comune di Parigi” a cura Di F. Biagi, M. Cappitti, M. Pezzella. Pubblichiamo un estratto dell’articolo di Mario Pezzella, La Comune e la somma dei possibili
“Diciannove marzo 1871: la più bella aurora che mai abbia dato luce a una città, l’alba più splendente in cui si compivano le attese, i presentimenti, gli annunci dei tempi nuovi: i sogni, le ‘utopie’“(289)[1]. Con queste parole Lefebvre ricorda la nascita della Comune e possiamo chiederci cosa gli detti un tale entusiasmo: in fondo la Comune ha avuto breve durata e si è conclusa in una triste tragedia. Il fatto è che –sia pure in un tempo così breve- essa ha dato realtà a un possibile, che si è impresso per sempre nella memoria storica degli oppressi: è concepibile una vita senza rapporti di servitù e sfruttamento, senza il dominio esclusivo del danaro, senza Stato e senza capitale. Con tutti i limiti e le contraddizioni che hanno contribuito alla loro sconfitta, gli uomini della Comune hanno comunque avuto “questo merito immenso…mostrare che una grande città moderna può fare a meno dello Stato”(293), “l’uomo si libera dall’economia”(388). Ciò che sembrava fantasma e immagine di sogno si mostra invece come utopia concreta. La Comune ha realizzato una rivoluzione e una riorganizzazione della vita quotidiana, nella sua pratica sociale, molto più rilevante di qualsiasi atto di governo.
La Comune –e il suo tentativo di rivoluzionare lo spazio urbano e sociale- rappresenta per Lefebvre un possibile sconfitto, ma leggibile nel nostro presente: la realtà storica è composta da una pluralità di possibili coesistenti e non segue la linea univoca del progresso imposta dai vincitori. Un possibile dimenticato può riattualizzarsi e modificare retrospettivamente la nostra percezione complessiva del passato, ricostruirne il senso; d’altra parte esso non è una fantasia arbitraria, ma possiede una sua oggettività storica documentabile e ricostruibile, anche se esclusa dal dicibile: “Il passato diviene o ridiviene presente in funzione della realizzazione dei possibili oggettivamente inclusi nel passato. Esso si svela e si attualizza con essi”(36).
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Paul De Grauwe e il pendolo dell’economia tra mercato e pianificazione
di Sergio Marotta
Limiti interni e limiti esterni del sistema economico
È uscita in questi giorni per i tipi de «Il Mulino» la traduzione italiana del libro di Paul De Grauwe I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia? Si tratta di un testo importante se non altro perché è stato scritto da uno dei maggiori studiosi dell’economia dell’Unione europea, autore del manuale sul quale si formano le nuove generazioni di economisti nelle università di diversi Paesi dell’Unione.
Ma il libro è soprattutto un esempio di chiarezza nell’esposizione di problemi economici complessi che diventano immediatamente comprensibili anche per i non addetti ai lavori. De Grauwe non è un sostenitore di teorie economiche antisistema, ma è anzi un economista molto ascoltato che insegna alla London School of Economics: fonda le sue tesi sulle teorie di studiosi sicuramente mainstream come Daniel Kahneman, vincitore del premio Nobel per l’economia 2002, o Raghuram G. Rajan e Luigi Zingales[1], e su teorie politiche di grande successo come quelle di Robinson e Acemoglu[2].
La tesi principale sostenuta nel libro è che il mercato così come oggi lo conosciamo non ha ancora molto tempo innanzi a sé e che le prospettive per il futuro sono tutt’altro che rosee. Il mercato, infatti, rischia di raggiungere presto i suoi limiti e di andare a sbattere contro un muro. Secondo De Grauwe il muro che il mercato si troverà innanzi è costruito, innanzitutto, dall’interno attraverso l’accentuarsi, oltre ogni limite, della diseguaglianza nella ricchezza materiale. Ciò, alla lunga, non è sostenibile e darà luogo, come è già avvenuto in passato, a una reazione violenta da parte di coloro che si vedono privati dei necessari mezzi di sostentamento e che diventano ogni giorno più numerosi.
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LUDD ovvero dell’insurrezione permanente
di Sandro Moiso
La critica radicale in Italia. LUDD 1967-1970, con una Introduzione e una memoria di Paolo Ranieri e una ricostruzione storico-politica a cura di Leonardo Lippolis, NAUTILUS, Torino 2018, pp. 570, € 25,00
In questi giorni bui, in cui di fronte al riproporsi di un governo reazionario e razzista l’antagonismo sociale non sembra saper far altro che riproporre modelli di azione politica e di organizzazione ripescati pari pari dai vecchi Fronti popolari e dalla peggiore tradizione catto-comunista e stalinista, questo primo volume del progetto destinato a ripercorrere le vicende della critica radicale italiana dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta costituisce un’autentica boccata d’aria pura. Un po’ come aprire una finestra di un appartamento situato al centro di una grigia e inquinata metropoli per scoprire, inaspettatamente, che questa si affaccia su un magnifico paesaggio montano di nevi eterne, dirupi scoscesi e boschi verdissimi e selvaggi.
Le edizioni Nautilus che fin dai loro inizi pubblicano e ripubblicano testi di quel pensiero radicale che ha avuto nel Situazionismo una delle sue massime espressioni ma che, prima di tutto, affonda le sue radici nella insorgenza giovanile e proletaria che ha contraddistinto da sempre e, in particolare, fin dal secondo dopoguerra la “naturale” reazione di classe rivoluzionaria sia al capitalismo occidentale che al suo mostruoso alter ego rappresentato dal cosiddetto “socialismo reale”, con questo volume iniziano un’operazione che più che d’archivio pare essere più di riscoperta (per i lettori più giovani) e rivendicazione di un pensiero e di una pratica che dell’insorgenza continua contro ogni forma di potere costituito e ogni formulazione teorica tesa alla conservazione dell’esistente hanno fatto la propria ragione d’essere.
I due volumi che sono annunciati per il prosieguo dell’opera si occuperanno successivamente dei testi, giornali, bollettini e volantini prodotti all’interno del Comontismo, di Puzz, Insurrezione e Azione Rivoluzionaria e si intitoleranno Comontismo 1971-1974 e Insurrezione 1975-1981 e andranno ad affiancarsi ai due testi già precedentemente editi che raccoglievano tutti i numeri della rivista prodotta dall’Internazionale Situazionista1 e tutti i bollettini pubblicati dalla precedente Internazionale lettrista.2
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La guerra delle parole
di Carlo Galli
1. Strategie
Dopo la sconfitta del 4 marzo le élites politiche, economiche e mediatiche hanno reagito in modo diversificato. L’analisi del Pd è racchiusa nelle due affermazioni di Renzi: «la ruota gira» e «pop corn per tutti», che – per non ricorrere a giudizi impegnativi come quelli di nichilismo, cinismo, vuoto intellettuale – è quantomeno da definire una manifestazione di irresponsabile perdita di contatto con la realtà e di fatalistica attesa degli errori altrui.
La risposta delle élites tecnocratiche ed economiche della Ue, poi, è di alternare lusinghe e minacce, offrire 6.000 euro per ogni immigrato accolto, e minacciare con lo spread se ci saranno troppi sforamenti dei parametri dell’euro.
Le élites finanziario-mediatiche, un tempo portatrici del consenso mainstream, proseguono da parte loro la lotta con i loro tipici mezzi politici indiretti, nella speranza di delegittimare i vincitori e il popolo che li ha votati, in vista di riconquistare il potere grazie ai fallimenti del governo. Gli strumenti di questa lotta sono linguistico-culturali e vanno dal suscitare e coltivare la pubblica emotività sul tema dei migranti ad alcuni usi linguistici che i media mainstream non hanno inventato ma che rilanciano ossessivamente.
A parte l’accusa di “fascismo” agli avversari, elettori ed eletti, che pare eccessiva e fuori bersaglio se allude a una dittatura, a un “regime”, e che pertanto viene a significare poco più che una generica “malvagità” del popolo e delle élites vittoriose, fra le parole più frequenti ci sono i termini “sovranismo”, “populismo”, “nazionalismo”, “razzismo”. Si tratta di armi di battaglia, di macchine per la guerra linguistica, per lo scontro tra propagande: dalla parte opposta si mettono in campo infatti termini come “onestà” e “sicurezza”, generici e ambigui, e non meno mobilitanti e polemici; ma almeno capaci di vincere le elezioni, benché non altrettanto efficienti nella guerra linguistica.
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Del Manifesto politico di Carlo Calenda
di Alessandro Visalli
A fine giugno 2018 l’ex Ministro Carlo Calenda ha proposto apparentemente di sua iniziativa la formazione di un’alleanza repubblicana contro i populismi. L’ex Ministro (governi Renzi e Gentiloni), fresco di tessera del Partito Democratico (6 marzo 2018) viene da una carriera di manager (in società finanziarie, nella Ferrari sotto Cordero di Montezemolo e poi come responsabile marketing di Sky) e di funzionario di Confindustria (assistente del presidente con Cordero da Montezemolo dal 2004 al 2008), successivamente entra in politica, ovviamente ancora con Cordero, quando fonda Italia Futura e nel 2013 quando viene candidato in Scelta Civica. Malgrado la sua mancata elezione Letta lo nomina viceministro allo Sviluppo Economico e viene confermato da Renzi inizialmente come viceministro, poi è promosso ministro.
Con un simile curriculum il figlio di un giornalista e di una regista è naturalmente più che titolato a indicare la strada della sinistra liberale che da lungo tempo ha perso le sue radici novecentesche, per ricercarle più indietro. Con il suo “Manifesto politico”, dunque Carlo Calenda lancia il suo guanto di sfida e dopo indimenticabili tentativi come quello di Pisapia si candida a federare le disperse forze della sinistra contro l’orda dei barbari che avanza.
Detto in questo modo è un progetto del tutto velleitario, ma non è l’unico a ragionare sulla rotazione dell’asse politico dal destra/sinistra del novecento al centro/periferia (o all’alto/basso) dell’era populista che si avvia ancora una volta. Lo ha fatto, aiutato in modo decisivo dal sistema elettorale a due turni, il francese Macron (che è il modello di successo dell’area governista), lo vorrebbe fare lo sconfitto Matteo Renzi, dopo la slavina che lo ha travolto insieme a tutta la sinistra italiana (ma anche la destra berlusconiana gli è andata dietro, per non parlare delle microformazioni di centro confindustriale di cui Calenda è espressione).
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Il lungo viaggio verso la Flat Tax
L’ingiustizia fiscale ha radici lontane
di coniarerivolta
Nei primi mesi di vita del nuovo governo si è andata delineando sempre più chiaramente la proposta di riforma del sistema fiscale italiano, riassumibile nel cavallo di battaglia leghista della Flat Tax. Il governo ha provato in tutti modi ad associare a questa proposta un messaggio politico semplice e appetibile: si tratterebbe di una sostanziale riduzione delle tasse che sembrerebbe avvantaggiare tutti, lavoratori e imprese, ricchi e poveri, in grado di liberare risorse per l’economia tramite un supposto aumento di consumi e investimenti. A ben vedere, l’impatto macroeconomico della Flat Tax sul sistema italiano sarebbe disastroso dal punto di vista macroeconomico e produrrebbe un sostanziale indebolimento della natura redistributiva delle sistema fiscale. Con la Flat Tax, infatti i redditi più alti sono sottratti a quella maggiore pressione che fa di un sistema fiscale un utilissimo strumento di equità e di redistribuzione all’interno della società.
Per capire in quale contesto la riforma tributaria del governo andrebbe ad inserirsi è bene ripercorrere brevemente l’evoluzione del nostro sistema di imposte fino ad arrivare all’attuale struttura, con particolare attenzione alle imposte sui redditi.
Partiamo da una considerazione importante: il sistema tributario italiano non è lo stesso di 40 anni fa, quando fu introdotta l’imposta sul reddito delle persone fisiche e l’imposta sul reddito delle società di capitali. E’ già stato stravolto da una lunga serie di interventi, di cui l’ultimo annunciato è l’ennesimo di una coerente sequela, che ne hanno minato fortemente la struttura iniziale basata su una forte progressività.
Ad oggi in Italia esiste un sistema di imposte sui redditi articolato su tre pilastri. Un’imposta sul reddito delle persone fisiche, un’imposta sul reddito delle società e un’imposta sui redditi finanziari.
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L’Intendance suivrà: un “quotidiano comunista” per la guerra e la lotta di classe dell’Impero
di Fulvio Grimaldi
Cari amici, stavolta sono davvero lunghissimo. Era necessario. E’ la mia resa dei conti personale, ma spero anche di molti di voi, con un giornale e un gruppo che ha segnato la storia politica e culturale italiana dell’ultimo mezzo secolo: “il manifesto”, sedicente “quotidiano comunista”, nel quale la parola comunista ha assunto connotati rovesciati rispetto all’uso comune. E’ una storia lunga, piena di episodi, personaggi, eventi, illusioni, disvelamenti, divenuta però via via più trasparente. La trasparenza di un infiltrato imbolsito, che ha perso l’abilità mimetica dei suoi maestri. Ma gli illusi ci sono ancora. Diamogli una mano
“Se una minoranza vuole dominare deve agire per vie occulte, tramando, cospirando, pretendendo, ingannando. I suoi peggiori nemici saranno quelli che denunciano il complotto”. (Aldous Huxley)
“Il modo più efficace per distruggere popoli è negarne e obliterarne la comprensione della propria storia”. (George Orwell)
“La grande maggioranza dell’umanità si accontenta delle apparenze, come se fossero realtà, ed è spesso influenzata più dalle cose che sembrano che da quelle che sono”. (Nicolò Machiavelli)
Nostalgie amorose di Tommaso Di Francesco
“Linea notte” è quel ruscelletto di notiziole e opinioncelle d’ordine del TG3, spesso bruscamente alterato nel suo andazzo dall’epifania di una specie di convulsa menade da New York, che il mio ex-collega Mannoni, detto Mannoioni, conduce, tra un borborigmo e l’altro, indice di stomaco prospero ma non pacificato, con il placido compiacimento di chi poco sa, ma molto si fida degli ospiti. Accuratamente selezionati, ovvio. Ha una funzione salutare: ti tira giù piano piano le palpebre mentre Morfeo ti mette in assetto di dormitorio i neuroni.
Quasi mai, ma nella notte del 20 luglio 2018 sì, succede che un qualche neurone mezzo assopito venga elettrizzato da un’emissione audiovisiva fuori dal tran tran sulla rana e sulla fava. Ed è stato come un extrasistole nel pacioso elettrocardiogramma del fine giornata di regime. C’era l’ospite Tommaso De Francesco (non proprio giornalista da Pulitzer o poeta da Nobel) che, insieme all’ex-trafilettista di critica tv, Norma Rangeri (mi apostrofò per averla turbata con la messa in onda di scimmie fatte esplodere da scienziati vivisezionisti), oggi dirige il “manifesto”.
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Note filosofiche sulla politica
di Mario Quaranta
Una recensione di Mario Quaranta. L’avvincente lettura del libro «Scritti con la mano sinistra» di Mario Vegetti che, per sostenere l’attualità del discorso filosofico, mette in campo alcune cruciali questioni
Mario Vegetti ha pubblicato in questo breve volume i suoi scritti di politica nel senso che egli attribuisce al termine: scritti marginali rispetto alla sua attività professionale, e “a sinistra” per indicare la sua collocazione politico-culturale, fondata sulla sua “convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa i nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte”. Nella prima parte – Tra filosofia e politica (1981) –, sono selezionati scritti su problemi filosofici che scaturiscono dalla politica: nell’intervento Per un lavoro filosofico, Vegetti si sofferma sulla discussione dell’eclissi delle ideologie, della crisi della ragione, ritenute non più in grado di fornire “sistemi unitari di spiegazione del mondo”. Attraverso di esse, al vecchio razionalismo si è sostituito il “pluralismo dei segmenti della ragione”, che necessariamente sono locali, strumentali. Alla radice di queste posizioni c’è, secondo Vegetti, l’idea di una fine del marxismo e della tradizione hegeliana e, più in generale, della fine o addirittura dell’impensabilità di una rivoluzione capace di compiere un rinnovamento radicale del mondo.
Di fronte alla crisi della ragione, i filosofi si sono perlopiù dedicati alle diverse pratiche di indagini specialistiche come la sociologia, la politologia, la psicologia e via dicendo. In questo modo, però, per Vegetti la filosofia rischia di diventare un residuo storico, specie nel momento in cui prevale la razionalità scientifica come modello esplicativo della realtà. A suo giudizio, invece, occorre riconoscere che ci sono problemi che richiamano la radicalità d’indagine e la globalità di risposte che può dare solo la filosofia.
Per sostenere l’attualità del discorso filosofico, Vegetti mette in campo alcune cruciali questioni attraverso l’analisi del lessico filosofico che adoperiamo. È il caso delle categorie di sviluppo e di lavoro, presenti in vari ambiti di pensiero, come nel marxismo. La prima categoria ha prodotto una forte giustificazione del mutamento come fine in sé, consentendo di connettere scienza, tecnica, economia, società, e gli stessi valori in un plesso unitario.
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. VII
C'è mercato e mercato: protezionismi espliciti e impliciti nel conflitto interimperialistico in corso
di Paolo Selmi
Nella mia decennale attività di impiegato spedizioniere ho attraversato tutti i reparti operativi, in importazione e in esportazione. Posso dire quindi di aver completato l’album di figurine… e averne viste, e vederne, di tutti i colori. A me pare che la cosiddetta “guerra dei dazi” in corso sia soltanto la punta di un iceberg ben più grande, che interessa tutte, sottolineo tutte, le sfere degli scambi commerciali internazionali, a partire dalle stesse regole del gioco, diverse per ciascuna delle “cinquanta sfumature di ordinamento capitalistico” attualmente vigenti nei vari angoli del globo (liberistico spinto, regolamentato, di Stato, straccione o mafioso, e chi più ne ha più ne metta, difficilmente con la sua fantasia andrà oltre rispetto a quanto già immaginato e realizzato).
Partiamo da un esempio pratico, in cui tuttavia ogni riferimento a fatti o persone è puramente… casuale. Candido (di nome e di fatto) ha un cugino negli USA che lavora in un ristorante. Si dà il caso che Candido faccia vino. Il cugino apprezza il vino di Candido e gli fa l’ordine, quando arriva la merce in aeroporto consegna delega, documento di trasporto e fattura presso una casa di spedizioni qualsiasi, senza alcun problema si fa intestare la bolla a suo nome1 , paga dazio e spedizioniere e se la porta a casa.
Lo stesso discorso vale quando è Candido, con i soldini accumulati, a volersi togliere lo sfizio e a farsi mandare dal cuginetto quella Diavoletto della Gibson che rappresenta il suo sogno di una vita: la chitarra arriva in aeroporto, lui consegna i documenti allo spedizioniere che gli prepara la bolla doganale con il suo codice fiscale, paga iva, dazio e prestazione e la sera stessa è già sul palco della sagra dell’uva a sbizzarrirsi nelle pentatoniche più ardite.
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E.E.: Elettoralismo Estremista
di Leonardo Mazzei
«Coazione a ripetere»: l'interessante caso di Rifondazione Comunista
Ragazzi, stavolta spacchiamo il mondo! Ma, mi raccomando, con prudenza che intanto ci sono l'europee. E' questo il succo della risoluzione approvata dal Comitato Politico Nazionale (Cpn) del Prc il 15 luglio scorso. Un testo che suscita financo una certa tenerezza.
E' commovente, infatti, vedere la dedizione con la quale un partito prepara le sue nuove sconfitte. Toccante la fedeltà al principio del cambiare tutto per non cambiare nulla. E' da un decennio, del resto, che funziona così. Con tre precise costanti. In primo luogo, si cambia ogni volta nome e simbolo. In secondo luogo, si mettono insieme cani e porci. In terzo luogo, la "proposta politica" (vogliamo essere buoni) si riduce alla solita lista della spesa.
Inutile dire come queste tre costanti ne portino con sé altre due: risultati elettorali sempre più declinanti, riflessioni post-voto che ripropongono per il futuro lo stesso schema appena bocciato nelle urne dal destino cinico e baro che si accanisce, chissà perché, su tanta fantasia.
In psicoanalisi si chiama «coazione a ripetere». Un fenomeno così descritto dal Dizionario di medicina della Treccani:
«Tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze».
Lasceremo subito la psicoanalisi per tornare alla politica, ma bisogna ammettere che questa descrizione del fenomeno ci parla assai bene del rapporto tra il Prc e le elezioni. Naturalmente, il problema riguarda l'intera sinistra sinistrata, non solo dunque Rifondazione, che ne è però l'esempio più fulgido ed istruttivo.
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L'Europa e le false credenze della Sinistra
di Alessandro Somma
Tragedia greca
L’Unione europea ha finalmente dichiarato la conclusione del programma di assistenza finanziaria imposto alla Grecia nel maggio del 2010. In questi otto anni il Paese ha ricevuto prestiti per 243 miliardi di Euro dal fondi Salva-Stati, e per 32 miliardi di Euro dal Fondo monetario internazionale. In cambio ha realizzato centinaia di riforme strutturali con le quali ha tagliato la spesa sociale per l’istruzione, la sanità e le pensioni, ridimensionato la pubblica amministrazione, privatizzato i beni pubblici e le principali infrastrutture, liberalizzato i servizi, precarizzato il lavoro e indebolito il sindacato.
La dimensione della macelleria sociale provocata da queste misure si coglie dai dati che documentano l’esplosione della povertà, la compressione dei salari e delle pensioni, la crescita della disoccupazione soprattutto giovanile, la perdita dei posti di lavoro nel settore pubblico, la condizione miserevole in cui è ridotta la sanità e il sistema della sicurezza sociale nel suo complesso. Anche i parametri economici documentano in modo incontrovertibile l’insuccesso della cura imposta dall’Europa: il deficit è stato annullato e anzi il Paese è ora in surplus, ma al prezzo di un rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo passato dal 146% dell’anno in cui la Troika è giunta ad Atene, al 178,6% di adesso. Sono cresciuti anche la pressione fiscale e l’ammontare dei prestiti in sofferenza delle banche, mentre sono calati la competitività e il potere di acquisto.
Vi sono dunque riscontri notevoli di quanto l’assistenza finanziaria fornita alla Grecia sia stata fallimentare se non criminale, tenuto conto che il 90% delle somme prese a prestito hanno beneficiato le banche francesi e tedesche espostesi per aver tentato di lucrare sui titoli del debito greco.
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Domande e risposte sulla situazione storica della critica sociale radicale
Intervista a Robert Kurz
L'intervista che segue costituisce un'introduzione ad una raccolta di analisi e saggi dell'autore che verrà pubblicato in Francia
DOMANDA: Cosa rende questa crisi diversa rispetto alle precedenti?
KURZ: Il capitalismo non è l'eterno ritorno ciclico dello stesso, ma è un processo storico dinamico. Ciascuna grande crisi si viene a trovare ad un livello di accumulazione e di produttività superiore rispetto al passato. Pertanto la questione del dominio o del non dominio della crisi si pone in forma sempre nuovo. I precedenti meccanismi di soluzione hanno perso di validità. Le crisi del XIX secolo vennero superate perché allora il capitalismo non aveva ancora coperto tutta la riproduzione sociale. C'era ancora uno spazio interno di sviluppo industriale.
La crisi economica mondiale degli anni '30 costituì una rottura strutturale ad un livello assai più alto di industrializzazione. Essa venne dominata attraverso le nuove industrie fordiste e la regolazione keynesiana, il cui prototipo fu l'economia di guerra della II guerra mondiale. Quando l'accumulazione fordista andò a sbattere contro i propri limiti, nel decennio degli anni '70, il keynesismo sfociò in una politica inflazionistica, basata sul credito pubblico. Tuttavia, la cosiddetta rivoluzione neoliberista, ha solo spostato sui mercati finanziari il problema del credito pubblico. Lo sfondo è stato quello di una nuova rottura strutturale dello sviluppo capitalista, segnato dalla terza rivoluzione industriale della microelettronica. Già a questo livello di produttività qualitativamente differente, non è stato più possibile sviluppare qualsiasi terreno di accumulazione reale. Per questo motivo, nel corso di vent'anni, si è sviluppata - sulla base dell'indebitamento e di bolle finanziarie senza alcuna sostanza - una congiuntura economica globale basata sul deficit, che non avrebbe mai potuto essere sostenibile in maniera duratura.
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Il disagio dei marxisti: la crisi, la finanza e la caduta del saggio del profitto
di Alan Freeman
Alcune affermazioni sulla crisi che trovano riscontro nella realtà ma possono rendere infelici gli economisti borghesi, ma anche molti marxisti
Inizierò parafrasando George Bernard Shaw: sono state dette molte cose apprezzate sull’economia, e molte cose vere. Però ciò che è apprezzato è sempre falso e ciò che è vero è sempre impopolare.
Detto in altri termini ogni verità in economia infastidisce qualcuno e talvolta infastidisce quasi tutti. Eppure, come disse Rosa Luxemburg, l'azione più rivoluzionaria è dire come stanno le cose. Quindi l'affronto è inevitabile se si persegue la verità.
Perciò intendo dire alcune cose impopolari che, credo, si siano dimostrate vere. Potete decidere se siete d'accordo dopo aver letto i materiali in cui si presentano l’evidenza e le argomentazioni. Li cito alla fine. Alcuni non sono ancora stati pubblicati, ma scrivetemi e invierò un testo preliminare alla pubblicazione.
Potere scegliere di ignorare queste affermazioni se non concordano col vostro modo di pensare. Per aiutarvi sono disponibili molte strategie di diniego: potete liquidarle come assurde o irrilevanti; potete usare la tecnica ad hominem per ridicolizzare gli autori; potete incitare gli altri a schierarsi contro di esse, o semplicemente far finta che non esistano.
Oppure, come Marx, potete riconoscere che la conoscenza procede attraverso la contraddizione e il contrasto. Quindi che è preferibile spendere il tempo per disputare con gli avversari piuttosto che per concordare con gli amici.
In breve, il compito del marxismo, nello spirito di Marx, è di ri-imparare l'arte dell’opposizione. Con questo spirito, comincio con alcune dichiarazioni aggressive che spero vi disturbino. Altrimenti, avrò fallito.
Ecco la prima: non esiste il sottoconsumo e non esiste la sovrapproduzione.
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L'autonomia del socialismo
di Michele Prospero
È stato da poco ripubblicato, per opera della casa editrice Bordeaux, il terzo dei saggi che inaugura il percorso marxista di Galvano Della Volpe, La libertà comunista (1946). Per riconsiderare il significato dell'iniziativa teorico-politica di Della Volpe, pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice e dell'autore, il quarto paragrafo dell'introduzione al testo di Michele Prospero
Colpisce il tono anche aspro della riflessione etico-politica che è posta al centro della Libertà comunista. L’affondo portato contro i tentativi di annacquare la specificità e l’autonomia (anche filosofica) del marxismo è radicale. Il bersaglio, che viene centrato su molteplici aspetti, è l’eclettismo contemporaneo cioè la disinvoltura concettuale mostrata da teorici che cercano di gettare un ponte tra liberalismo e socialismo precipitando così in un acritico tentativo di “conciliazione”. Prendere un po’ di questo filone di pensiero e recuperare un po’ di quell’altra corrente per tentare una loro fusione estrinseca, che in Italia è il ritrovato sintetico proposto dalle correnti di Croce, Calogero, potrebbe minare l’autonomia culturale di un progetto di pensiero comunista[1]. Ciò che sfugge all’eclettismo contemporaneo è la congiunzione necessaria tra critica dell’economia (particolare) e istanza etica (universale). Solo questo intreccio degli eterogenei renderebbe possibile una soluzione coerente e su questa carenza di mediazione poggia la contestazione del sincretismo di chi si dichiara “liberale nell’etica e nella politica, socialista nell’economia” (p. 41). Una tale attitudine conciliatoria postula il divorzio tra valori e interessi, tra idee e bisogni. Nel quadro di una polemica molto accesa, anche nel testo del 1946 della Volpe non negava la rilevanza dei profili liberali dello Stato moderno, ne coglieva però la ripresa e quindi la riformulazione, entro un universo concettuale nuovo come quello di Marx che li trasvalutava mutandone l’assetto problematico-critico. Entro questo arco tematico rimodulato il rapporto tra socialismo e liberalismo appariva a della Volpe “non come uno sviluppo graduale” ma come uno sviluppo che si accompagnava a una “frattura storica” (p. 15).
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Fredrich Engels, “La situazione della classe operaia in Inghilterra”
di Alessandro Visalli
Un giovane di ventiquattro anni, figlio di un industriale tedesco con una importante filiale Manchester, scrive nel 1844 e pubblica quasi subito un libro che resterà come esempio di inchiesta sul campo e di vivida descrizione degli orrori lasciati dal primo capitalismo industriale nella regione in cui questo si sviluppa. Un classico della scienza sociale che evita accuratamente, pur nella crudezza delle descrizioni, ogni intonazione moralistica per cercare di individuare, con la freddezza dell’anatomopatologo, le ragioni dell’inumano spettacolo che ci sottopone. La storia del libro è di occasione: il padre, che aveva una fabbrica in renania, cerca di allontanare il figlio dalle sue cattive compagnie (il circolo degli hegeliani di sinistra a Berlino) e lo manda ad occuparsi appunto della filiale di Manchester.
Contemporaneamente Karl Marx stava scrivendo i cosiddetti “Manoscritti economico-filosofici del 1844” e lo stesso Engels aveva scritto in quell’anno “Lineamenti di una critica dell’economia politica”, quattro anni dopo insieme e su incarico della Lega dei comunisti i due scriveranno “Il Manifesto del Partito Comunista”.
C’è una fondamentale differenza tra lo sguardo che il giovane filosofo getta sulla condizione di immenso degrado dei quartieri popolari delle città industriali inglesi e quello dei contemporanei: la borghesia dell’epoca, per tutti i primi tre decenni dell’ottocento si è interrogata su questo degrado esclusivamente sotto la lente interpretativa dei “poveri”. Nel 1834 vengono quindi emanate le nuove “Poor Law” contro le quali nell’ultima parte del libro Engels si scaglia con veemenza, ma nessuno aveva inquadrato il meccanismo produttivo, e la costruzione di spazio e tempo dominati dalla logica fredda e spietata della concorrenza e del capitale che la muove. Quella di Engels è, invece, una inchiesta che legge le condizioni igienico-abitative della classe operaia, nelle sue diverse articolazioni, come effetto dei processi fisici di urbanizzazione interamente guidati dal profitto, e ne mostra il meccanismo. I protagonisti del libro sono le città, quindi le macchine entro le fabbriche, l’uomo ne è un effetto.
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Unità del blocco sociale subalterno e spirito di scissione
di Renato Caputo
L’esigenza prioritaria di contrapporre un blocco sociale a quello dominante è solo apparentemente in contraddizione con lo spirito di scissione
Un celebre detto di Mao Tse Tung sostiene: “grande è la confusione sotto il cielo, dunque la situazione è [per noi] favorevole”. Tale massima, apparentemente paradossale, diviene pienamente condivisibile quando la confusione domina nel campo avversario, o comunque si afferma in uno Stato nazione dominato dal nemico di classe. In quest’ultimo caso, significa che l’ideologia dominante, strumento di egemonia del blocco sociale che detiene il potere, è in crisi e anche lo Stato, quale strumento del dominio di classe di un blocco sociale, è in crisi, non riesce a imporre la propria volontà di potenza e questo crea la possibilità di sviluppare un dualismo di potere che produce una situazione potenzialmente rivoluzionaria. Ben diversa è la situazione se la confusione domina nelle fila delle classi dominate e nell’opposizione di classe al dominio della borghesia. Ciò non solo impedisce di sfruttare la situazione favorevole, prodotta dalla grave crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, ma impedisce alle classi subalterne e alle loro aspiranti avanguardie di mettere quantomeno in discussione l’egemonia e il dominio del blocco sociale borghese.
Dunque, è essenziale per i subalterni, gli oppressi, gli sfruttati, per uscire da tale condizione, cercare di contrastare in ogni modo la confusione nelle proprie fila. Tuttavia, sino a qui abbiamo detto cose ovvie, la questione più complessa che ci dobbiamo porre è se in questo determinato momento storico la confusione regni nel nostro campo a livello nazionale e internazionale. Evidentemente la risposta non può che essere in generale, purtroppo, affermativa.
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Sulla gig economy
intervista a Riccardo Staglianò
Le recenti mobilitazioni dei ciclofattorini in diverse città d’Italia hanno attirato l’attenzione dei media e della politica sulle problematiche della gig economy. Del tema Pandora ha parlato in diverse occasioni con articoli e interviste, inquadrandolo nella questione più generale della digitalizzazione e dei suoi rischi. Riccardo Staglianò, giornalista de La Repubblica, si è a lungo occupato di questi temi, che ha affrontato nel suo recente libro Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri (da noi recensito su questo sito) e anche nel precedente Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, entrambi editi da Einaudi. Abbiamo deciso di intervistarlo per approfondire il complesso di questioni che lega gig economy, sharing economy, automazione e digitalizzazione, polarizzazione sociale e concentrazione delle aziende del settore tecnologico. L’intervista è a cura di Giacomo Bottos, Raffaele Danna e Luca Picotti.
* * * *
Nel discorso pubblico, per parlare di alcune delle recenti trasformazioni economiche, si impiega spesso il termine “sharing economy” che, nell’immaginario collettivo, viene generalmente associato ad un insieme di significati positivi. In una seconda fase si è invece iniziato a parlare di “gig economy”, termine che viene generalmente usato con un’accezione critica, associato a lavori malpagati, scarsità di tutele e sfruttamento. Secondo lei esiste una reale distinzione tra “sharing economy” e “gig economy”? Insomma, esiste un “volto buono” e uno negativo delle trasformazioni che stiamo vivendo, o viceversa si tratta di processi complessivamente negativi, nei quali la retorica della condivisione nasconde una realtà diversa?
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Se si spera che la “difesa della democrazia” tocchi a Cia, Fbi, Ue…
di Redazione Contropiano
In fondo l'articolo di Michael J. Glennon
Spostarsi dal cortile di casa consente di guardare ai fenomeni con tasso di obbiettività decisamente superiore, specie quando i fenomeni sono perfettamente identici a quelli di casa nostra.
Michael J. Glennon, su Le Monde Diplomatique, svernicia senza pietà la “rivalutazione democratica” della Cia e dell’Fbi, negli Usa, che si è fin qui basata su un unico elemento: queste due servizi più o meno segreti sono entrati in conflitto con Donald Trump, a partire dall’indagine chiamata Russiagate. Un po’ come è avvenuto in Italia, con la magistratura e una parte dei “servizi”, tra Mani Pulite e gli scandali pubblico-privati di Berlusconi.
La debolezza e smemoratezza dei liberal statunitensi sono da questo punto di vista speculari ai deficit intellettuali della cosiddetta “sinistra” italiana, e il guardarle da lontano consente di far risaltare, senza troppa fatica, anche le illusioni degli “ingenui” che ci stanno intorno.
Il punto debole è evidente: incapaci di battere politicamente il mostro fuori dalle regole, emerso nonostante quelle regole, si spera che il vecchio orco antidemocratico – la Cia! – faccia il lavoro che i liberal non riescono a fare. Gli spioni incaricati di distruggere ogni parvenza di movimento o gruppo politico progressista improvvisamente rivalutati come “scudi della democrazia”. Nemmeno nel peggiore incubo…
La via giudiziaria sembra una scorciatoia, ma ha ovviamente le sue pesanti controindicazioni. In Italia (già dai tempi delle “leggi d’emergenza” contro la lotta armata) la magistratura è venuta un “ruolo politico” – scrivere le leggi al posto del Parlamento, decidere quali fenomeni contrastare e come, ecc – parecchio fuori dai limiti indicati dalla Costituzione.
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Appunti per un rinnovato assalto al cielo. VI
“Con due grami, miseri, semplici penny”
di Paolo Selmi
Uno sguardo al panorama bancario mondiale e a diseguaglianze più o meno ideologicamente nascoste
Continuiamo con i nostri appunti di viaggio. Riassumere in poche righe interi volumi dedicati alla storia della finanza mondiale sarebbe pura follia. Annotarsi qualche dato e trarne spunti di riflessione e approfondimento, in una prospettiva di superamento del modo capitalistico di produzione, non è solo cosa buona e giusta, ma doverosa. Occorre infatti, nell’opinione di chi scrive, uscire da quella logica “scacchistica” che qualcuno chiama, a torto o a ragione, “geopolitica”. In questo paragrafo cercherò di argomentare brevemente quella che non è solo una questione di metodo, ma anche di merito, pertanto molto più degna di approfondimento del trafiletto che le ho riservato. Ma di appunti, per l’appunto, stiam parlando.
Abbiamo delineato alcuni tratti fondamentali dei movimenti di truppe in atto sullo scacchiere mondiale. Abbiamo scelto di farlo con un taglio prevalentemente economico e di aperta critica al modo di produzione dominante a livello globale. Oggi, al contrario, è di moda presentare la situazione internazionale in un’ottica neutra, dove al posto del conflitto di classe domina la “geopolitica”: ogni parte in causa descrive soggettivamente i movimenti di nemici, avversari e concorrenti in relazione ai propri e da un punto di vista, si sarebbe detto un tempo, prettamente aderente al modo di produzione dominante. Limitatamente allo stesso, ne critica cause e conseguenze, adesione più o meno formale, piuttosto che infrazioni, a “regole del gioco”, norme scritte e non su codici di diritto internazionali divenuti sempre più carta straccia, individuando possibili traiettorie e prendendo le adeguate contromisure. Come risultato, ciascuna di queste letture, pur approfondita, dettagliata, argomentata, si muove entro i confini imposti, organicamente agli stessi, ovvero si differenzia da letture analoghe o apparentemente contrapposte soltanto perché – nella migliore delle ipotesi – anziché muovere il cavallo avrebbe mosso l’alfiere, oppure perché – nella peggiore – aderente ai neri o ai bianchi senza se e senza ma.
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La Cassazione contro gli operai
Critica alla sentenza sui cinque operai FCA di Pomigliano
di Andrea Vitale
“Non l’abbiamo mai nascosto. Il nostro terreno non è il terreno del diritto; è il terreno della rivoluzione. Il governo, da parte sua, ha infine abbandonato l’ipocrisia del terreno legale; si è posto sul terreno rivoluzionario; giacché anche il terreno controrivoluzionario è rivoluzionario”.
Così scriveva nel lontano 1848 il giovane Karl Marx. Siamo oggi di fronte a tutt’altra situazione di quella rivoluzionaria che nel ’48 sconvolgeva l’Europa, eppure questa frase è del tutto adeguata ad esprimere il giudizio sulla sporca faccenda che ha visto la Cassazione ribaltare la sentenza di appello e confermare il licenziamento dei 5 operai FCA di Pomigliano. Certamente non abbiamo a che fare con le titubanze e le indecisioni della borghesia tedesca né con la controrivoluzione prussiana, ma con una semplice e plateale denuncia della propria tremenda condizione fatta da un gruppo di operai e l’avallo che la magistratura fa della rappresaglia del padrone, il quale non può accettare nessuna critica e pretende il silenzio e la totale sottomissione degli operai che sfrutta. Nondimeno le parole di Marx risultano pregnanti in questo contesto.
“Non l’abbiamo mai nascosto. Il nostro terreno non è il terreno del diritto; è il terreno della rivoluzione”.
I licenziati di Pomigliano hanno sempre avuto presente questo concetto e non hanno mai avuto il timore di dichiararlo a gran voce. Lo hanno fatto quando hanno detto che loro non erano interessati alla lunga e spesso sterile trattativa sulla vite in più o in meno da avvitare sulla linea di montaggio. Questo livello di scontro, se assolutizzato come unico piano di azione degli operai, presuppone l’accettazione eterna della propria condizione di “prestatori di lavoro” sotto il comando del padrone. Un piano conflittuale che in particolare nella crisi rivela tutti i suoi limiti, quando, sotto il ricatto della disoccupazione e della concorrenza fra proletari, la forza contrattuale operaia viene drasticamente ridimensionata.
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I lati oscuri del web (e come possiamo ancora provare a salvarci)
di Luca Pantarotto
C’era una volta il futuro. Per buona parte del Novecento l’abbiamo sognato, inseguito e temuto, sulla cresta di un’onda tecnologica sempre più inarrestabile che sembrava porsi l’obiettivo di tradurre in realtà, nella seconda metà del secolo, ciò che i più audaci scrittori di fantascienza avevano immaginato nella prima. Negli anni ’80 e ’90 la mia generazione si è nutrita, a tutti i livelli dell’immaginario, di scenari futuristici in cui l’uomo si sarebbe invariabilmente trovato al centro di dinamiche di controllo o di conflitto legate a una crescita sfrenata del ruolo delle macchine nella nuova società, accompagnata di volta in volta da vari gradi di inquietudine, dall’ansia generica e sottile all’apocalisse imminente.
Un genere di storie che seguiva più o meno sempre la stessa curva: da una situazione iniziale di entusiasmo tecnocratico che portava l’umanità a delegare alle macchine funzioni e competenze sempre più estese, dall’amministrazione domestica al controllo degli armamenti nucleari, si scivolava verso un punto di non ritorno in cui le macchine stesse, ormai detentrici di intelligenza e capacità decisionali perfettamente autonome, si accorgevano di non aver più bisogno dell’uomo, apprestandosi quindi ad assoggettarlo, incorporarlo o sostituirlo. Finché qua e là iniziavano a formarsi nuclei di resistenza che, in formazioni via via più cospicue, sferravano l’attacco finale al centro del potere in nome del ritorno alla libertà e una società nuovamente antropocentrica.
Le implicazioni di un topos così fertile sono evidenti, e infatti negli anni si è costruita, intorno alla contrapposizione uomo-macchina, una vera e propria tecnomitologia coesa e perfettamente definita nelle sue caratteristiche. E poco importa che poi il futuro abbia preso un’altra direzione, e che oggi gli scenari catastrofici che per decenni hanno alimentato il nostro immaginario suonino più fantascientifici delle navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione.
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Dove porta il «né... né...»
di Leonardo Mazzei
A proposito di un articolo di Domenico Moro e Fabio Nobile
A sinistra non tutti hanno portato il cervello all'ammasso. Qualche giorno fa abbiamo segnalato, ad esempio, un intervento di Gianpasquale Santomassimo totalmente critico verso ogni ipotesi di union sacrée antifascista. Una prospettiva giustamente respinta anche in un recente articolo di Domenico Moro e Fabio Nobile. Purtroppo, però, il ragionamento di questi due compagni, sfociando nella più classica posizione del «né né», conduce nel vicolo cieco dell'assenza di una linea politica. E questo nel bel mezzo di un passaggio cruciale per il nostro Paese.
Il loro scritto vuol essere in realtà un contributo critico sulle vicende interne di Potere al Popolo, ma la parte che a noi qui interessa è quella che concerne il posizionamento proposto nell'attuale fase politica.
Moro e Nobile colgono bene la novità della situazione: «L’Italia presenta una situazione politica inedita: è l’unico Paese in cui non è al governo alcun partito afferente a uno dei due storici raggruppamenti europei, il Ppe e il Pse». L'unico Paese in cui «il bipartitismo tradizionale è collassato». Peccato che ad una descrizione così nitida di un quadro nuovo e dinamico, segua invece la grigia proposta di una linea politica centrista, quella che per semplificare definiamo del «né né».
Apriamo una parentesi per chiarire subito che anche il «né né» può essere talvolta legittimo. Ad esempio, durante i disgraziati anni del bipolarismo secondo-repubblicano (1994-2013, con uno stentato prolungamento nel quinquennio successivo), e nonostante i diversissimi scenari in esso prodottisi nel tempo, ogni seria posizione di classe non poteva che esprimersi in un simultaneo rifiuto tanto del "centrosinistra", quanto del "centrodestra".
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