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C’era una volta il riformismo emiliano

Un bilancio critico

di Lanfranco Turci

L’esperienza di governo del Pci emiliano del dopoguerra – una socialdemocrazia pragmatica e inconsapevole – ha prodotto frutti eccezionali in termini di benessere, qualità della vita, dinamismo economico e coesione sociale. Ma con la progressiva egemonia del pensiero neoliberale sulla sinistra emiliana e nazionale, questo modello è entrato sempre più in crisi. E oggi è ormai soltanto un lontano fantasma del passato

Premetto per onestà intellettuale verso i lettori di questa nota che essa si conclude esplicitamente con una critica (e per quanto mi riguarda anche un’autocritica) dura ed esplicita della sinistra emiliana e nazionale attuale e di ciò che è stata la vicenda dell’evoluzione dell’eredità del Pci fino al suo esaurirsi sfinito e irriconoscibile nell’attuale PD. Questa fase di trasformazione post- Bolognina è stato anche il tema delle tormentate riflessioni di Giuseppe Gavioli dal ’90 in poi. Trasformazione che Gavioli avrebbe voluto in direzione della cultura della sostenibilità e del New Deal ambientale. Ma quei temi e quegli anni sono già oltre la fase dell’Emilia Rossa e del riformismo del Pci che è l’oggetto di questa relazione.


Riformismo e Emilia rossa

Credo pertanto che si debba subito precisare che per riformismo emiliano qui ci riferiamo a una esperienza strettamente riferita all’Emilia rossa, a quello che è stata l’esperienza di egemonia politica e di governo del Pci emiliano del dopoguerra.

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Quando arrivano i nostri?

Considerazioni sul libro dei Clash City Workers

nique la police

Es irrt der Mensch, so lang er strebt (Goethe)

Curiosamente, mentre leggo il lavoro collettivo dei Clash City Workers (Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, La casa Usher, Firenze-Lucca 2014) mi arriva un testo, ordinato, di due studiosi dell’Hamilton College di New York (Henry Rutz, Herol Balkan, Reproducing Class: Education, Neoliberalism, and the Rise of the New Middle Class in Istanbul, BerghahnBooks, Oxford-New York, 2013): insomma la questione del ripensamento del concetto di classe, e della sua morfologia reale, finisce sempre per raggiungerti da più parti. Certo, il lavoro di Rutz e Balkan non solo riguarda un’altra classe, quella media, ma anche un altro paese, la Turchia, in un periodo economico molto diverso. Infatti buona parte del lavoro etnografico di Reproducing Class risale al periodo in cui il Pil turco cresceva mediamente del 4% annuo, anni ’90, mentre una parte successiva è del periodo in cui il prodotto interno lordo ha sfondato persino il 7% (metà anni 2000). Eppure il lavoro di Rutz e Balkan, come vedremo, finisce per tornare utile proprio per completare il commento al testo collettivo dei Clash City Workers. Testo che parla, al contrario, non solo delle classi subalterne ma di un paese, come ricordato nell’introduzione, dove sono oltre 150 i tavoli di crisi aperti presso il ministero del lavoro. E in questo scenario la necessità impellente, che muove Dove sono i nostri, è quella di capire il profilo sociologico dei conflitti di classe in Italia.

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La questione di classe è una questione di genere*

Giovanna Vertova

Gli attacchi al mondo del lavoro, da parte del capitalismo globale finanziario, non hanno gli stessi effetti su lavoratori e lavoratrici. Inoltre, per comprendere il fenomeno, occorre distinguere i fenomeni esogeni, che hanno portato all’instaurazione di questo nuovo modello capitalistico, ed i fenomeni endogeni, economici ma anche politicamente voluti e controllati. Per esempio, la trasformazione della Cina e dei paesi del blocco sovietico in paesi ormai capitalistici ha avuto come effetto un raddoppio della forza lavoro mondiale, permettendo così un dumping sociale su scala globale. Questo è stato un fatto esogeno. Al contrario, la finanziarizzazione dell’economia è il risultato di scelte anche politiche. La finanziarizzazione è nata anche perché politicamente si sono permesse “innovazioni” degli strumenti finanziari, la nascita dei derivati, etc. L’amministrazione Clinton ha cancellato il Glass-Stegall Act – la legge bancaria del 1933, introdotta a seguito della crisi del 1929, che prevedeva una netta separazione tra l’attività bancaria tradizionale e quella di investimento – seguendo la logica della de-regolamentazione del settore bancario-finanziario. Anche la liberalizzazione dei movimenti di capitale è stata politicamente fortemente voluta. L’integrazione europea con questo tipo di euro è il risultato di scelte politiche.

Fatta questa premessa, va sottolineato che l’attacco al mondo del lavoro da parte di questo “nuovo” modello capitalistico avviene in un modo diretto ed in uno indiretto.

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Perché la lotta di classe è viva

Stefano Laffi intervista Carlo Formenti

Utopie letali. Capitalismo senza democrazia (Jaca book 2013) è l’ultimo libro pubblicato da Carlo Formenti, fra i più seri studiosi e da lungo tempo della mutazione economica e sociale che stiamo vivendo. È un libro scritto sotto un’urgenza particolare, che traspare già dal titolo, ovvero quella di non cadere nella fascinazione di categorie e letture che lanciano la palla oltre l’ostacolo, senza averlo mai davvero superato, bensì di guardare in faccia lo sfruttamento e l’impoverimento che viviamo ogni giorno, chiamandolo col suo nome. Per Formenti non sono i “lavoratori cognitivi” che lanceranno la rivoluzione, non sono i “beni comuni” a cambiare la perdita dei diritti che avanza, non è Internet un contropotere ma uno strumento di controllo in mano al capitale.


Mi pare che il libro voglia rimettere al centro dell’analisi della contemporaneità, e in particolare della profonda ingiustizia sociale che patiamo ogni giorno, la mutazione economica e politica di questi anni. I primi capitoli sono infatti dedicati alla finanziarizzazione e a quella che chiami postdemocrazia. Ci aiuti a capire bene cosa intendi e perché ritieni che da lì si debba partire?

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sinistra aniticap

Ahimè!, s’è persa la classe

di Diego Giachetti

Quando si nomina la parola classe sociale è prevedibile l’obiezione di chi fa notare la necessità di declinare il concetto con quello di composizione di classe, nel senso che le classi sociali, definite dal posto che occupano all’interno di dati rapporti di produzione, sono dei “contenitori” il cui contenuto varia storicamente col variare del modo di produzione. Mutano le forme di organizzazione sociale e tecnica del lavoro, inevitabilmente nuove generazioni sostituiscono nelle classi quelle vecchie, tende a variare la composizione di genere, etnica, dovuta ai flussi migratori. Attualmente però l’obiettore della composizione di classe non mira unicamente a porre questa doverosa precisazione. Più che alla composizione di classe, a ben vedere, punta a una scomposizione della classe; assume cioè quelle variabili prima indicate per dire che il concetto di classe sociale è vuoto: perché si dà una classe solo se lotta e se ha piena coscienza, altrimenti no; perché oggi l’identità di classe, scomposta in altre identità, ha rotto i vecchi confini e ne ha tracciati di nuovi.


Intermittenza e dissoluzione della classe lavoratrice?


Chi ritiene che una classe sociale, in questo caso il movimento dei lavoratori salariati, esista solo nella misura in cui ha coscienza di sé e la esprime attraverso la costituzione di sinergie organizzative politiche, sindacali, associative e culturali ha risolto il problema. Poiché oggi le organizzazioni dei lavoratori o sono in crisi profonda, oppure sono sotto l’influenza delle idee della classe dominante, si deduce che quella narrazione ha cessato di esistere e, evidentemente, con essa il soggetto narrato. Il proletariato non è più rosso lamentano, quindi non esiste più.

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Il cielo in disordine è caduto sulla terra

di Commonware

0. C’è differenza tra l’ideologia e un ordine del discorso. Proviamo a rendere questa astrazione storicamente determinata, cioè politicamente utilizzabile. La divisione tra “fannulloni e start-up” affacciatasi sui media dopo il #19o ha evidentemente delle componenti ideologiche, ma queste poggiano su una base materiale costituita dai processi di segmentazione dentro la composizione di classe.

In questo senso l’ordine del discorso organizza i lessici e le retoriche del potere rispetto a una situazione concreta, è un dispositivo che fa apparire come neutrali quelli che sono interessi di parte, irreversibile ciò che invece dipende dai rapporti di forza e dunque è trasformabile. Allora, non si tratta semplicemente di disvelare la verità, ma di produrla.
 

1. Un dato di fatto, tanto per cominciare: come è stato sottolineato nel nostro dibattito, in Italia la consistenza effettiva delle start-up è trascurabile, potremmo dire che si tratta di un fenomeno marginale. Ma in questo caso più che il significato conta il significante, ovvero quella riproposizione di un lessico meritocratico che nella sua forma originaria (quella che è stata un problema reale dentro l’Onda, per intenderci) non è più riproponibile.

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Amazon, un nuovo modello produttivo?

Militant

Tra le lotte più combattive che si sono palesate in quest’autunno, e in alcune casi e città anche in inverno, dobbiamo sicuramente annoverare quelle nate per iniziativa dei lavoratori e le lavoratrici delle multinazionali della logistica. TNT, DHL, Bartolini, tutte aziende che, grazie alle mobilitazioni di chi vi lavora sfruttato e senza diritti, sono oggi esempi paradigmatici del nuovo mercato del lavoro e delle contraddizioni che in esso vivono. Chi abitualmente legge il nostro blog sa che non stiamo parlando di una novità; da queste colonne abbiamo più volte raccontato le cronache di quanto accaduto, visto che proprio come Collettivo ci siamo impegnati nel supporto di alcune vertenze che, anche qui a Roma, hanno interessato gli stabilimenti di queste aziende. I più solerti, inoltre, ricorderanno anche che lo scorso 7 dicembre organizzammo un’iniziativa al Lucernario Occupato con i compagni e le compagne di Sapienza Clandestina: la presentazione del libro-inchiesta di Jean-Baptiste Malet, free lance francese che si fece assumere dal colosso dell’e-commerce Amazon durante le festività natalizie dello scorso anno. Tra gli scaffali dello stabilimento Amazon di Montélimar, Malet ebbe modo di sperimentare sulla propria pelle le condizioni di sfruttamento cui sono sottoposti i dipendenti: mantenimento di standard produttivi, negazione dei diritti elementari sul lavoro, mobbing agli iscritti al sindacato (laddove questo riesce ad interagire coi lavoratori), un accurato e soffocante sistema di controllo, paghe da fame. Caratteristiche che non sono proprie del solo sistema Amazon, ma che oggi sono il leit motiv che vige nella stragrande maggioranza delle aziende multinazionali del comparto logistico.

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Il Quinto Stato

Guido Viale

area20fC’è uno scarto enorme, e non solo un ritardo, tra l’evoluzione che il sistema economico ha attraversato nel corso degli ultimi tre decenni – da capitalismo industriale, fondato sulla grande fabbrica e sull’organizzazione del lavoro fordista a capitalismo finanziario, fondato sul predominio della finanza e la frantumazione e la delocalizzazione delle attività produttive – da un lato e, dall’altro, l’evoluzione dei conflitti sociali e delle sue prospettive che quel mutamento radicale ha portato con sé. Qui non vanno segnalati solo i ritardi dell’analisi sociale o, se vogliamo, della percezione delle nuove contraddizioni che attraversano il sistema; analisi e percezioni rimaste per troppo tempo abbarbicate a una concezione dicotomica del conflitto di classe – tra proletariato e borghesia – che il movimento operaio aveva ereditato dal pensiero politico addirittura di un secolo e mezzo fa; ma che sembrava comunque aver trovato conferma negli sviluppi del capitalismo della prima parte del secolo scorso, fin quasi alla metà degli anni ’70; né va sottolineato solo un altro ritardo: quello nei confronti di quella tripartizione dell’analisi e della percezione sociale che, tra le due classi antagoniste fondamentali, aveva introdotto il cuscinetto dei “ceti medi”: un contenitore di profili sociali scarsamente omogenei e ancor più scarsamente analizzati; spesso disprezzati (“topi nel formaggio” li aveva definiti Sylos Labini, come ci ricordano gli autori)  e utilizzati in sede analitica soprattutto per attribuire una base sociale al potere del grande capitale e “spiegare” così il fatto che la lotta di classe avesse finito per imboccare una strada diversa da quella delle magnifiche sorti e progressive del socialismo, della rivoluzione, della società senza classi.

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Genova per noi

Lotte operaie, organizzazione di massa, soggettività politica

Collettivo Noi saremo tutto Genova

Pubblichiamo di seguito una cronaca ed un’analisi del Collettivo Noi saremo Tutto di Genova sulle “cinque giornate” di lotta dei ferrotramvieri del capoluogo ligure.

Per cinque giorni a Genova, il trasporto pubblico cittadino è stato bloccato dall’iniziativa autonoma degli operai AMT. Ciò ha obbligato sia i sindacati di regime, il cui peso all’interno dell’azienda è ridotto all’osso, sia il “sindacato autonomo” a cavalcare la tigre della rabbia operaia. Sabato mattina, dopo una votazione farsa, lo sciopero è terminato sancendo, di fatto, una tregua armata. Al momento non ci sono né vinti, né vincitori. Una situazione di stallo che lascia aperte diverse prospettive. Questa lotta non si è limitata a questo, poiché da un lato ha assunto una valenza nazionale in relazione ai nodi del trasporto pubblico, dall’altro, ed è l’aspetto preponderante, ha indicato i non improbabili scenari che il conflitto capitale/lavoro salariato potrebbe riservare di qui a poco. Tutto ciò contribuisce non poco, sul piano del dibattito politico complessivo, a ricalibrare intorno alla centralità del lavoro operaio e subordinato i limiti e le genericità emersi dentro le giornate romane del 18 e 19 ottobre.

Nelle “giornate genovesi” si è ampiamente evidenziato come la reale posta in palio delle politiche governative sia la messa in mora della legittimità politica, sociale e sindacale dei lavoratori e la loro riduzione a puro e semplice capitale variabile. Semplici accessori dei processi di valorizzazione ai quali deve essere inibita ogni forma di esistenza e resistenza pubblica e collettiva.

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Freedom not Frontex

I migranti, i rifugiati e la loro lotta per la libertà globale di movimento

di Hagen Kopp – Kein mensch ist illegal, Hanau*

Il contributo che pubblichiamo è la versione fortemente rivista e aggiornata di un articolo pubblicato nel maggio 2013 in Forum Wissenschaft. La ricostruzione di alcune vicende degli ultimi mesi, così come delle campagne che cercano di opporsi alle condizioni che le hanno prodotte, mettono in evidenza il carattere immediatamente politico delle migrazioni. Il numero agghiacciante dei morti, l’indifferenza istituzionale, la miseria amministrativa, il razzismo esplicito e latente, la sopraffazione quotidiana esercitata sui confini e dentro a ogni Stato, non stabiliscono i contorni di una questione umanitaria. Esse sono l’esito di un inesauribile e insopprimibile desiderio di libertà che ottiene come risposta una deprivazione dei diritti. Quest’ultima, tuttavia, non è una lacuna giuridica, ma lo strumento politico per costruire soggetti che dovrebbero accettare come inevitabile e naturale la loro totale assenza di potere. I movimenti dei migranti rivelano invece lo scontro tra un potere mobile e disordinato e una repressione violenta e ottusa. Questo scontro si estende ben oltre la situazione dei rifugiati, ma investe l’intera condizione dei migranti, quotidianamente presi tra il potere della loro libertà e lo sfruttamento e il razzismo istituzionale.  

«Niente impronte digitali».

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Anzola è il mondo?

Alcuni/e compagni/e

A proposito della lotta alla Coop Adriatica di Anzola dell’Emilia, delle lotte operaie nel settore della logistica e di molto altro ancora

A mo’ di introduzione

Il problema e la soluzione

 

Le note che seguono non hanno alcun intento normativo, né si propongono di illustrare esaustivamente il percorso, peraltro ancora in divenire, delle lotte operaie nel settore della logistica; piuttosto si vorrebbe proporre una chiave di lettura altra per inquadrare la situazione attuale delle lotte rivendicative in Italia, ed anche al di là dei confini italiani. Le lotte dei facchini della logistica hanno dato modo di sognare o, per meglio dire, di fantasticare a molti. Esse hanno permesso agli sparuti nostalgici del Gran Partito e dei ranghi compatti della classe operaia, di menare innanzi i loro sogni di ricomposizione, e hanno egualmente dato modo ad un ceto politico neo-sindacale e “movimentista” di rifarsi momentaneamente un'innocenza da tempo perduta. I primi hanno dovuto cedere alla delusione un po' ovunque. La particolarità di Anzola è che anche i secondi se la sono vista brutta. Quanto ai facchini – i famosi diretti interessati, quelli che hanno lottato per davvero e ci hanno messo la faccia e la pellaccia –, loro sono usciti dalla lotta abbastanza malridotti. Dal paragone con altre esperienze nel settore della logistica, possiamo comunque affermare che ci siano assonanze nei percorsi, nonché epiloghi simili al caso di cui trattiamo qui.

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Per il buon uso dell'intelletto

Alcuni presenti e futuri lavoratori e lavoratrici dell'intelletto

Se c'è qualcosa che caratterizza drammaticamente questi tempi di "crisi" è il paradosso per cui ad un dilagare di povertà, all'emergere di nuovi (o al riemergere di vecchi) problemi sanitari ed ambientali, si accompagna una immane capacità tecnologica e scientifica inutilizzata – tra macchinari e laboratori inutilizzabili perché non profittevoli o in diicoltà finanziarie, ed intelligenze lasciate a riempire le fila dell'esercito di disoccupati.

Governi "tecnici" e tecnocrati di mezzo mondo ci assicurano che tanto l'origine quanto la soluzione del problema sia a sua volta tecnico-scientifica. La loro scienza economica, che promette di rimediare agli "errori" che ha finora giustificato, ci vorrebbe assicurare il modo in cui far ripartire la crescita. Con questa si riassorbirebbe la manodopera in eccesso, i mezzi di produzione tornerebbero in funzione, e soprattutto ripartirebbe il ciclo di innovazioni che può salvarci dalle catastrofi naturali, anche questa volta promettendo di non ripetere gli errori del passato.

Perché degli effetti controproducenti del sapere e delle applicazioni tecnico-scientifiche ne è piena la storia, anche quella recente: dai pesticidi che, colpendo tanto i propri bersagli dichiarati quanto i loro predatori, son finiti per far proliferare gli agenti infestanti, ai fertilizzanti che hanno finito per erodere la fertilità del suolo;

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Solo austerity?

l’Europa senza principi e la politicizzazione della povertà

∫connessioni precarie

Ormai da diversi anni la parola povertà è rientrata nel gergo politico europeo. La porta d’ingresso principale sono state le rilevazioni statistiche. Queste ultime, tuttavia, non fanno altro che ridurre a questione tecnica la quota di popolazione che si colloca sotto a una certa soglia di reddito. La costruzione di nuovi indicatori e di nuovi modi di indagare e classificare i soggetti impoveriti ha mutato l’approccio scientifico ai problemi del «sociale». Dal punto di vista delle politiche dei governi europei parlare di povertà ha voluto dire registrare il mutamento delle funzioni governative al tempo della crisi. In questo senso, la parola d’ordine della lotta contro la povertà istituzionalizza l’impossibilità di considerare la questione sociale come questione politica e la sua traduzione all’interno di un governo tecnico delle scienze. La fine del lavoro come canale di accesso ai diritti e lo spostamento del baricentro delle politiche pubbliche sull’occupabilità sono altre due manifestazioni della stessa dinamica strutturale, che risponde con criteri tecnico-umanitari al problema chiamato povertà e di quella che in questi anni abbiamo chiamato precarizzazione del lavoro. Questo processo è stato seguito dalla politicizzazione crescente della povertà nei discorsi di movimento. Anche le analisi seguite alla manifestazione del 19 ottobre, un corteo che per la sua dimensione e la sua composizione ha in parte sorpreso anche chi più vi aveva creduto, manifestano questa tendenza a mettere al centro i bisogni primari dei soggetti impoveriti, come la casa e il reddito.

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Salario o reddito?

Militant

Quello che segue è un primo nostro contributo al dibattito su salario e reddito. Comprendiamo benissimo che potrebbe risultare un po’ ostico, anche per via della lunghezza, ma confidiamo nella pazienza di chi ci legge e facciamo nostre le parole di Gramsci quando ammoniva che a voler esprimere concetti difficili in maniera troppo semplice si corre solo il rischio di scadere nella demagogia.

I.

Lottare per il salario o lottare per il reddito? E’ inutile girarci attorno, queste due parole d’ordine agitate con alterne fortune dalla sinistra anticapitalista alludono a concezioni politiche, pratiche sociali e analisi teoriche che se per molti aspetti coincidono per molti altri sono invece così distanti da risultare difficilmente conciliabili, tanto da destinare al fallimento ogni tentativo ecumenico di tener dentro tutto. Insomma, come spesso accade in politica, arriva un momento in cui un’organizzazione o un movimento si trovano di fronte ad un bivio in cui o si va da una parte o si va dall’altra. Oppure, ma è la peggiore delle opzioni, si resta fermi. A voler essere onesti fino in fondo oggi come oggi la lotta per il salario, sociale e globale (ossia diretto, indiretto e differito), non gode di particolare appeal, almeno non nel campo dell’estrema sinistra o quantomeno non a queste latitudini. Se è vero che l’egemonia che un pensiero o una corrente teorica esercitano su un dato campo politico si misura anche dal vocabolario che bene o male tutti sono portati/costretti ad utilizzare, allora basta guardare agli slogan sugli striscioni e sui manifesti e far caso ai termini adoperati, spesso anche impropriamente, su volantini e documenti per rendersene conto.

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La nuova morfologia del lavoro e le sue principali tendenze

Informalità, infoproletariato, (im)materialità e valore

di Ricardo Antunes

Tommy Ingberg Get in Line1. Introduzione

L’ampio processo di ristrutturazione del capitale, scatenato su scala globale agli inizi degli anni Settanta, mostra chiaramente un significato multiforme, presentando tendenze di intellettualizzazione della forza lavoro, specialmente nelle cosiddette tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e, su scala globale, accentuando i livelli di precarizzazione e informalità dei lavoratori e delle lavoratrici. La nostra ipotesi centrale è che, al contrario della retroazione o descompensazione della legge del valore, il mondo capitalista contemporaneo sta assistendo a un significativo ampliamento dei suoi meccanismi di funzionamento, in cui il ruolo svolto dal lavoro – o ciò che vado denominando nuova morfologia del lavoro – è emblematico.

Nell’era della finanziarizzazione e della mondializzazione, l’analisi del capitalismo ci obbliga a comprendere che le forme vigenti di valorizzazione del valore mantengono saldi nuovi meccanismi generatori di lavoro eccedente, attraverso i quali, nello stesso tempo, un’infinità di lavoratori vengono espulsi dalla produzione, diventando eccedenti, scartabili e disoccupati. E questo processo è molto ben funzionale per il capitale, perché permette l’ampliamento, su larga scala, della bolla di disoccupati. Questo riduce ancora di più, su scala globale, la remunerazione della forza lavoro, attraverso la retroazione salariale di quei salariati e salariate che si trovano occupati.