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Scontro fra temporalità: capitale, democrazia e piazze

di Massimiliano Tomba

Pearl Roundabout Bahrain Protests1Mentre l’Occidente stava celebrando la “pacifica transizione verso la democrazia” del mondo arabo, in molte piazze del mondo si potevano leggere i seguenti slogan: “La democrazia è uno scherzo” (Bruxelles), “La democrazia è un’illusione” (Londra), “La democrazia è stata sequestrata”, hanno detto gli Indignati spagnoli fuori dal parlamento il 25 settembre 2012: “abbiamo intenzione di salvarla.” “Democrazia reale adesso”, rivendicano i manifestanti scesi in diverse piazze del mondo. Perlomeno, la “transizione alla democrazia” richiede che si approfondisca una questione: quale democrazia stiamo parlando?

I poteri occidentali hanno tentato sia di neutralizzare che di cooptare le proteste nel mondo arabo mostrandole come transizione da una forma governativa a un’altra. Una transizione che, da un lato, permette all’Occidente di mantenere la sua egemonia nel golfo ricco di petrolio, dall’altro lato presuppone il modello di democrazia rappresentativa dell’Occidente come l’unica configurazione della democrazia contemporanea. Come tratterò nel presente articolo, questo modello democratico è in crisi. E non perché esso abbia brillato in una qualche golden age della democrazia, ma perché le tensioni interne ed esterne ne mostrano ora tutta l’obsolescenza. Anche e soprattutto per la sua capacità di autolegittimarsi.

Un articolo recentemente pubblicato sul New York Times (Krugman 2011) denuncia l’attuale livello di disoccupazione pericolosamente elevata sia in America che in Europa, e la sfiducia nei leader e nelle istituzioni come parte di un contesto generale in cui “i valori democratici sono sotto assedio”.

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Quando si paga il debito sovrano?

di Giorgio Gattei

La lotta delle classi nel mondo antico si muove principalmente nella forma di una lotta fra creditore e debitore, e in Roma finisce con la disfatta del debitore plebeo, che viene sostituito dallo schiavo. "
(K. Marx, Il capitale. Libro primo, Roma 1965, p. 168)
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1. Debito sovrano e "guerra di classe"

Alle volte l'indebitamento è necessario: altri ti prestano il denaro che ti serve per le necessità del momento e fino alla scadenza paghi soltanto gli interessi. Al termine rimborsi il valore-capitale, ma potresti anche non pagare niente se quel debito viene rinnovato con lo stesso od altro prestatore. Così l'obbligazione debitoria si può trascinare nel tempo, giusto il detto che "solo domani pagherò!". E' ciò che è successo al debito pubblico italiano che, di rinnovo in rinnovo, è raddoppiato dal 60% del PIL nel 1982 al 120% di oggi.

Eppure fino all'anno scorso nessuno sembrava preoccuparsene più di tanto: certamente ci si lamentava del peso finanziario che si stava accumulando sulle spalle delle future generazioni, ma si faceva ben poco per ridurlo. Tutto è invece precipitato con la firma del fiscal compact da parte del governo "tecnico" nel febbraio 2012 (e successiva ratifica parlamentare il 19 giugno): infatti col fiscal compact i cittadini italiani, volenti o nolenti, si sono impegnati a ridurre nell'arco di un ventennio il proprio debito sovrano fino al 60% del PIL, com'era peraltro la percentuale prevista dai parametri di Maastricht. Ma siccome quel debito ammonta a 2000 mld di euro (il 120% del PIL), ciò significa che, per portarlo a 1000 mld, i governi a venire, quale che sia la maggioranza che li sosterrà, dovranno iscrivere ogni anno al passivo di bilancio 50 mld di euro, da recuperare con imposte e tasse anche se si decidesse di non fare alcuna spesa pubblica!

Ma perchè è così precipitata la questione del rimborso del debito sovrano? Perchè si sono definitivamente rovesciati i rapporti di forza tra le classi sociali.

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I circuiti della ricomposizione

Verso e oltre lo sciopero del 22 marzo

di Anna Curcio e Gigi Roggero

Ripensare lo sciopero, trovare l’equivalente funzionale della forma-sindacato, costruire processi di generalizzazione. Ecco i rovelli con cui ci confrontiamo da anni, da quando cioè la nuova composizione del lavoro vivo e le trasformazioni produttive hanno reso inservibili o quasi molti degli strumenti organizzativi del passato. A fronte di tali nodi gordiani abbiamo fatto fatica ad andare al di là dell’enunciazione, magari dell’allusione simbolica, comunque a superare la semplice constatazione di ciò che non funziona più. Ancora una volta sono le lotte a indicarci forse non delle soluzioni, ma certamente delle corpose ipotesi verso cui direzionare le riposte. Così è per i blocchi e gli scioperi selvaggi dei lavoratori della logistica, in quello che ormai – per le caratteristiche comuni, per l’estensione e per la durata – possiamo definire un vero e proprio ciclo di lotte. É su questa base che è stato convocato per venerdì 22 marzo lo sciopero generale dei lavoratori della logistica: non sarà un semplice evento, ma un passaggio di straordinaria importanza che si colloca dentro un processo di accumulo di conflitti e di ulteriore espansione. Prima e dopo il 22 i facchini delle cooperative che gestiscono la circolazione delle merci del centro-nord Italia non faranno straordinari, per ribadire che vogliono colpire sul serio gli interessi della controparte. Definirlo uno sciopero di settore sarebbe riduttivo e probabilmente anche fuorviante, perché è proprio la settorialità che queste lotte stanno mettendo in discussione, ponendo con forza le questioni della generalizzazione e della ricomposizione.


Rottura della frammentazione e composizione di classe

I lavoratori della logistica al centro delle lotte, in particolare i facchini, sono nella loro quasi totalità migranti.

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I predatori del voto negato

di Ferruccio Gambino 

Gli immigrati non possono votare alle elezioni politiche. Ma "contano" come popolazione residente, gonfiando la torta dei seggi da spartire. Soprattutto al Nord-Ovest, dove vive più di un terzo degli stranieri. Lampante il caso della "Ohio d'Italia", la Lombardia

1. Una rendita elettorale che non fa notizia

L’esclusione di tutti i migranti residenti in Italia dal voto nelle elezioni politiche del 24 febbraio 2013 è uno dei tanti atti di discriminazione contro gli stranieri che si consumano nel mondo e che di solito passano inosservati. Ne sono autori molti governi e organi legislativi di paesi d’immigrazione, che negano il voto ai migranti e allo stesso tempo li contano come parte della popolazione nazionale, gonfiando così la torta dei seggi elettorali da spartire, una vera e propria rendita elettorale a favore dei sistemi politici vigenti.[1]

Nel caso italiano, ormai da più un ventennio perdura l’ostilità endemica al voto dei migranti nelle elezioni politiche, nelle quali possono votare solo i cittadini.[2] La legge per il difficile ottenimento della cittadinanza risale al 1992. Il ceto politico che allora non prendeva sul serio la questione del voto dei migranti ha finito poi per non prendere sul serio neppure il voto dei cittadini e per presentare liste bloccate di nominati dalle segreterie dei partiti (legge elettorale cosiddetta Porcellum del 2005).[3] A loro volta molti dei cittadini ricambiano o rifiutandosi di votare o acconciandosi passivamente a mettere una croce su quello che passa il convento.

Dunque, in sovrimpressione sul crescente numero dei non votanti, delle schede bianche e nulle nelle elezioni di febbraio andrebbe stampata la quindicennale parabola ascendente del numero dei migranti in età di voto, che non compaiono sui radar elettorali ma – in modo intermittente – sui radar della Guardia costiera e della Nato.

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marx xxi

Il salario sociale globale di classe come meccanismo di accumulazione

Il caso Cina

di Pasquale Cicalese

“Torniamo, al punto di partenza concettualmente più logico dal punto di vista del proletariato: la questione del salario; essa, in un preciso significato di classe, si pone correttamente come contraddizione della forma specifica di carattere di merce della forza-lavoro. Nella concezione critica marxiana, il salario è da in­tendere esclusivamente nella sua determinatezza sociale, e in termini reali (ossia non nominalmente monetari) e relativi (rispetto alla dinamica della ricchezza della nazione). Il salario - spiegava Marx - “vale non per il sin­golo individuo ma per la specie”. Il salario si concepisce perciò come grandezza sociale innanzitutto perché ri­guarda il proletariato intero come classe. Il salario non si esaurisce pertanto nell’acquisto diretto delle merci di sussistenza con la *spesa del reddito dei lavoratori*, ma è composto anche dall’insieme di *prestazioni colletti­ve* che derivano dalla ricchezza sociale generale”. G.Pala, Classe, salario, Stato.

Ti svegli la mattina presto per studiarti i mercati asiatici, gli unici ormai di qualche interesse. Lo fai andando a dormire presto, con i bimbi, perché tanto Wall Street non ti interessa, è tutta carta straccia, e poi tua moglie pensa che un film di Tim Burton valga di più dei tuoi studi, forse a ragione. Capita così che la mattina presto assisti agli sconvolgimenti industriali e monetari provenienti da quell’area, mentre l’Occidente continua imperterrito a guardare a New York, con i suoi 50 mila senzatetto.

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Lo sciopero precario è morto,
ma i precari per fortuna non se ne sono accorti

∫connessioni precarie

Il 2 novembre 2011 lo sciopero generale di Oakland ha segnato una svolta per i movimenti di lotta contro le politiche di austerità, precarizzazione e sfruttamento. La sfida di attaccare i profitti e colpire i precarizzatori si è saldata allo slogan «organize the disorganized», all’obiettivo di accumulare forza superando la frammentazione del 99%. Con il suo successo e con la sua capacità di portare il lavoro al centro dell’esperienza di #Occupy, lo sciopero generale di Oakland ha indicato la direzione alle lotte che nel 2012 si sono moltiplicate sul piano globale. A partire dal 29 marzo in Spagna, per arrivare all’appuntamento europeo del 14 novembre, lo sciopero si è però mostrato non solo una possibilità ma anche un problema. Al di là dei grandi entusiasmi e delle facili apologie, quello che soprattutto il 14 novembre ha portato alla luce è la difficoltà da parte dei «movimenti» di prescindere dall’iniziativa dei grandi sindacati, anche se tacciati di connivenza col nemico, imponendo nello stesso tempo un discorso e un’indicazione politica all’altezza delle sfide lanciate dall’organizzazione del lavoro nel tempo della crisi. Segnalare questi limiti non significa ignorare la presenza di massa che ha attraversato le piazze europee e americane negli scorsi mesi. Riconoscendo quanto di nuovo sta emergendo, è necessario interrogarsi sull’effettiva capacità di unire contestazione e protesta, cioè sulla capacità di comprendere fino in fondo la composizione soggettiva di chi sta effettivamente portando avanti delle lotte. Solo in questo modo, infatti, si può cominciare ad approssimare una definizione politica dello sciopero sottraendolo sia alla ritualità sindacale sia all’occasionale possibilità di uno scontro di piazza.

Che lo sciopero sia un problema, oltre che una possibilità, è dimostrato dall’assenza dei migranti dalle piazze del 2012, tanto da quelle sindacali quanto da quelle di movimento.

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Chiamare le cose con il loro nome

di Elisabetta Teghil

I soliti noti ci raccontano che, in Italia, ci sarebbero due sinistre: una sarebbe identificabile con il Partito Democratico, l’altra con i partitini frutto dell’implosione di Rifondazione Comunista.

La prima, di impronta riformista, sarebbe l’erede della tradizione socialdemocratica, la seconda si definirebbe come radicale, anticapitalista e, in questa stagione, anti-neoliberista.

La prima viene rappresentata, perché di rappresentazione si tratta, dato che non fa nulla per darne conferma, come attenta allo stato sociale, con una vocazione pacifista e con un’attenzione ai diritti dei lavoratori.

Peccato che anni di governo ne abbiano dimostrato la natura guerrafondaia, in particolare nell’aggressione alla Jugoslavia e alla Libia, nonché quella neoliberista con il proliferare legislativo che ha minato il diritto allo sciopero, lo stato sociale e che ha attuato la svendita del patrimonio pubblico ai privati.

La lettura di questa che alcuni insistono ancora, non si sa bene perché, come diceva Luigi Pintor, a chiamare sinistra, omette a piè pari che la socialdemocrazia si è fatta destra moderna, assumendo caratteri reazionari, caratteristiche clericali e punte fasciste.

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Tutti sanno, tutti zitti: un’analisi sulle condizioni di vita in Italia


Da qualche giorno sui giornali, nei tg, nei talk show televisivi, la domanda che tutti si stanno ponendo è: “Cosa succederà ora che riscende, per l’ennesima volta, in campo Berlusconi?”, “Il Pd come si comporterà? Riuscirà a vincere ma soprattutto a governare il Paese?”, “Quale sarà il ruolo di Mario Monti nel prossimo futuro?” e ancora “I mercati come si comporteranno ora, come valuteranno il sistema Italia?”.

Tutte domande legittime, per carità, per capire quello che sta succedendo nello scenario pre-elettorale che si sta delineando.

Peccato che siano domande lontane anni luce dai problemi veri.
I problemi di lavoratori, cassintegrati, disoccupati, studenti, famiglie che non possono più permettersi una settimana di ferie lontano da casa (dal 39,8% al 46,6%, dal 2010 al 2011), che non hanno potuto riscaldare adeguatamente l'abitazione (dall'11,2% al 17,9%, in riferimento sempre allo stesso periodo), che non riescono a sostenere spese impreviste di 800 euro (dal 33,3% al 38,5%) o che, se volessero, non potrebbero permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni (dal 6,7% al 12,3%).

Ma andiamo con ordine.. Stando ai dati forniti dall’Istat nel suo rapporto sui redditi e le condizioni di vita, pubblicato lunedì scorso, nel 2011 il quadro delle condizioni di reddito e di vita in Italia risulta alquanto allarmante.

Il primo dato grave che risalta subito da questa analisi riassume in sé la situazione: nel 2011 il 28,4% delle persone residenti in Italia è a rischio di povertà o esclusione sociale, secondo la definizione adottata nell'ambito della strategia Europa 2020

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Le spine del lavoro liquido globale*

di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto

A Tian Yu, lavoratrice a Shenzhen, che conosce il lato oscuro del mercato mondiale.

pun ngai cina la societ300x225Introduzione

Questo libro è un esercizio di avvicinamento a una condizione umana che in occidente è più rimossa che sconosciuta. In particolare, la discussione delle tendenze in atto nella Cina attuale sembra una foglia composta, della quale si fatica a leggere la nervatura che l’alimenta, ossia il sistema cinese della residenza. Dai primi anni 1950 tale sistema (hukou) ha separato la popolazione rurale da quella urbana in termini economici e politici dividendola orizzontalmente in due classi di cittadinanza, di cui quella inferiore era in larga misura, anche se non completamente, bloccata nelle campagne. Con la svolta del 1978, l’esodo di giovani dalle campagne verso le città ha assunto proporzioni bibliche, ma lo statuto di quanti hanno lasciato e lasciano i villaggi è rimasto perlopiù quello del “lavoro migrante rurale”. È questo flusso verso le periferie industriali che ha innervato la trasformazione cinese degli scorsi trent’anni. Tuttavia in occidente esso è stato sovente considerato come uno – e talvolta ovvio e secondario – tra i tanti ed eterogenei fattori del megatrend. È così capitato durante il trentennio scorso di dover ascoltare il ritornello della classe operaia come una specie in via di globale estinzione, mentre era snobbata la maggiore migrazione non coatta del-la storia umana e il principale fenomeno sociale di questi tempi, ossia lo spostamento dalle campagne alle città di circa 200 milioni di cinesi che si avviavano al lavoro salariato.

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marx xxi

Il voto di classe in Italia secondo le indagini sociologiche

di Domenico Moro

Magritte Decalcomanía e1353020488631Qui di seguito si offre una panoramica delle indagini sociologiche su due tematiche, il voto di classe e il voto degli iscritti al sindacato. Si tratta di questioni importantissime perché i flussi elettorali e le scelte elettorali delle classi permettono di gettare luce sull’azione dei partiti. Vogliamo precisare, però, che in questo tipo di analisi le classi sono definite in termini soprattutto sociologici e, quindi, non c’è perfetta identità con ciò che le classi sono dal punto di vista marxista. Ad esempio, spesso si parla non di classe operaia o di lavoratori salariati immediatamente produttivi ma genericamente di dipendenti privati e dipendenti pubblici, all’interno dei quali si ricomprendono varie categorie qualche volta differenti tra di loro. Inoltre, questi studi sebbene si fermino al 2010, delineano una tendenza, che successivamente si è andata accentuando e che è coerente anche con la recente affermazione del Movimento cinque stelle. Ad ogni modo, tali indagini rappresentano una base, a mio parere, molto utile per una analisi di questioni negli ultimi anni poco dibattute in ambito marxista. Colgo l’occasione per suggerire che sarebbe importante riprendere con nuova lena oltre all’analisi della “classe in sé”, cioè dello studio della nuova divisione del lavoro, anche l’analisi della “classe per sé” e, quindi, della produzione e manifestazione della coscienza di classe, abituandosi a farlo anche con l’ausilio di strumenti empirici e dati scientifici.


Classe e voto, permanenza del voto di classe

Sul rapporto tra voto e classe le posizioni che risultano dai diversi studi non sono sempre univoche.

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Il declino dello smart /soft power della Casa Bianca

Quando a crollare è l’ideologia liberale della rete

Relazione meeting “Contropotere nella crisi” Bologna 13 – 14 Ottobre

Abbiamo costruito questa relazione con l’intento di socializzare in un ambito il più possibile allargato una serie di indicazioni di orientamento politico-culturale arrivateci dagli ultimi due anni di mobilitazioni globali.

La rivoluzione tunisina, quella egiziana, il movimento #15M ed anche quello NoTav hanno messo al centro di un mondo in crisi l’attualità della rivoluzione, delle sue pratiche ma anche delle sue parole. In questo senso hanno anche ribadito la centralità di saper agire la dimensione comunicativa nei conflitti odierni, individuando in essa, ed in particolar modo nella rete (ma non solo), un campo di battaglia dove colpire per disarticolare quelle tecnologie politiche, quelle narrazioni e quei dispositivi retorici che legittimano le politiche di austerità e che, per utilizzare una metafora, sono le piattaforme, le rampe di lancio da cui partono le operazioni di aggressione neoliberista ai territori.

Social media, ambienti di comunicazione elettronica e piattaforme globali di comunicazione hanno messo a nudo tutta la loro ambivalenza, provocando così una torsione dell’immaginario: non solo formidabili dispositivi di cattura della cooperazione sociale e del valore prodotto in rete – grazie ai quali il tempo di lavoro si dilata fino a sovrapporsi perfettamente con il tempo della vita – ma anche luoghi dove sono andati dispiegandosi una pluralità di processi di soggettivazione ed organizzazione dei movimenti globali.

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La Cina è lontana, la Foxconn è vicina

di Rutvica Andrijasevic e Devi Sacchetto

Il migliore dormitorio in città ha il nome evocativo di Hotel Harmony e ospita qualche centinaio di lavoratori migranti reclutati quasi esclusivamente dalla Xawax, una delle circa 1300 agenzie di reclutamento che vi sono nel paese. L’agenzia Express People, invece, colloca la propria manodopera in una pensione di infimo livello, il Veselka, a pochi passi dalla stazione ferroviaria. In entrambi i dormitori le stanze sono a quattro letti, ma quanti alloggiano all’Hotel Harmony possono contare su una piccola cucina e un bagno interni alla stanza, mentre gli altri si appoggiano a una cucina malmessa, due bagni maleodoranti e una decina di docce per quasi ottanta persone. Al Veselka i bagni sono intasati e le porte non dispongono di alcuna chiave. Qui qualcuno ha lasciato due scritte: la prima con un gioco di parole dice – FuckFoxconn – «sto cercando la Foxconn»; la seconda invece è meno fantasiosa – Fuck Express People. Gli uni e gli altri lavorano in turni di dodici ore al giorno nello stabilimento della Foxconn. Non siamo in Cina, ma a Pardubice, un centinaio di chilometri da Praga, dove l’azienda all’inizio del nuovo secolo ha acquistato uno stabilimento. La città di Kutna Hora, qualche decina di chilometri più in là, ospita da circa cinque anni un altro stabilimento e se si scende fino a Nitra, passando il recente confine con la Slovacchia, si completa la presenza della Foxconn nell’Unione europea. È per la Hewlett & Packard che la Foxconn produce computer, laptop, server e cartucce a Pardubice e Kutna Hora, mentre gli ordinativi della Sony per le televisioni a schermo piatto alimentano le linee dello stabilimento di Nitra.

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Il lavoro e la politica

Francesco Ciafaloni

operai 000Mi riconosco nella ricostruzione di Mario Miegge (“Inchiesta”, n.174) del lavoro politico negli anni ‘50-’70, dalle analisi e proposte di Pino Ferraris, Vittorio Rieser, Vittorio Foa, dei “Quaderni Rossi”, all’intervento pratico dal basso, al lavoro di indagine, di elaborazione, di formazione, per il controllo sull’organizzazione del lavoro e sull’ambiente di lavoro di Ivar Oddone e della Flm, alla Fiat e in tutta Italia. Se qualcuno si meraviglia del peso che continuano ad avere i rappresentanti dei metalmeccanici, malgrado la crisi, la cassa integrazione, il rischio di chiusura degli stabilimenti, di perdita del lavoro, dovrebbe ricordare che gran parte dello Stato sociale che consente a noi tutti di vivere con un po’ di sicurezza e dignità viene da loro e dagli altri operai italiani che si sono mossi con loro. Il controllo della salute nelle fabbriche, il Sistema sanitario nazionale, deteriorato dalla corruzione e dalla tendenza a privatizzare, ma sempre uno dei più universalistici e meno costosi del mondo, il sistema pensionistico universalistico, vengono di lì, dalle lotte degli anni ’60 e ’70, dall’unità sindacale, dalla collaborazione tra medici, epidemiologi, sociologi ed operai, a Torino, Milano, Porto Marghera, Emilia. Il primo sciopero in grande, alla Fiat, nella primavera del ’68, fu per le pensioni. Il Sistema sanitario nazionale è stato pagato, all’inizio, dai soli lavoratori dipendenti, ma esteso a tutti. Tutti ricordano le baby pensioni dei pubblici dipendenti; pochi il carico sopportato dai lavoratori dipendenti privati. L’ambiente culturale di quegli anni fu il prodotto della collaborazione, del lavoro sul campo, di operai (Marchetto, Surdo, Mara, e migliaia di altri), medici (Tomatis, Maccacaro, Oddone), epidemiologi (Terracini), giuristi (Giugni), per nominare solo quelli emblematici. Può darsi che i meccanici più giovani di queste cose non ricordino nulla e che reagiscano come possono alle minacce e ai licenziamenti, ma la Fiom (il suo gruppo dirigente) lo ricorda; e non è disposta ad arrendersi a discrezione.

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Il proletariato europeo nel vortice dell’austerity

Monta la protesta in Spagna, Grecia, Portogallo. E in Italia?

Le epoche di massima oppressione sono quasi sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che conta è lo spirito di sacrificio.( Bertolt Brecht)

Che gli stati dell’Europa meridionale – simpaticamente chiamati PIGS, cioè “maiali”, dalle tecnocrazie dell’UE – siano in crisi, è cosa ormai nota. Come al solito, l’ottimismo dei governi ha avuto le gambe corte: in Italia si rivedono le cifre del PIL, che nel 2013 scenderà dello 0,6% (dopo che già quest'anno andrà giù del 2,4%); lo stesso si fa in Spagna, che vede il proprio PIL in calo del dell’1,4% invece che dello 0,6% finora pronosticato. Quanto alla Grecia, il suo baratro sembra senza fondo: il Ministro delle Finanze greco ha infatti appena annunciato che, dal 2008 al 2014, la contrazione del PIL è calcolabile intorno al 25%. Non meno preoccupante è la situazione in Portogallo, dove il PIL quest’anno è in calo del 3,3%. In queste condizioni lo spread con i titoli tedeschi ricomincia a salire, e non è più solo la Grecia a essere interessata dai piani di “aiuto”…

Ma queste cifre, che pure fotografano una situazione molto grave, non dicono tutto, anzi: vengono usate per nascondere qualcosa. I media infatti tendono a presentarci gli Stati – Italia, Spagna etc – come entità compatte, come unità nazionali che si siedono al tavolo delle trattative con unità nazionali altrettanto compatte – la Germania, la Francia etc –, come se fossimo ancora all’epoca degli Stati-nazione ottocenteschi e non in un’epoca di globalizzazione, di circolazione mondiale di capitali e di formazione di classi dominanti non più su base nazionale ma internazionale. Cerchiamo quindi di fare un po’ di chiarezza per provare a capire cosa sta succedendo per davvero.

È persino banale dire che gli Stati non sono ordinamenti super partes, ma costruzioni politiche mediante le quali la borghesia afferma il suo potere sulle classi lavoratrici facendolo passare per “volontà generale” e “interesse collettivo”.

Quello che sta succedendo negli ultimi mesi in Europa ce ne dà la conferma.

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Un riconoscimento ed una critica ad Anwar Shaikh

Antonio Pagliarone

Ma, forse, la rivoluzione sarà possibile solo una volta compiuta la contro-rivoluzione (Marx)

Questa raccolta di testi prodotti da Anwar Shaikh* avrebbe dovuto essere molto più corposa, purtroppo sono stati pochi ad essere disponibili nel collaborare ad un progetto del genere. La rivista Connessioni invece ha rivelato estremo coraggio nel voler pubblicare e diffondere questo volumetto in un ambiente poco incline ad affrontare uno studio approfondito sulle dinamiche economiche del capitalismo moderno. Si è scelto Anwar Shaikh poiché rimane, nonostante qualche deviazione dal corso originario, uno studioso attento che ha introdotto nell’ambito del marxismo quel metodo dell’Empirical Evidence totalmente estraneo agli intellettualoidi marxisti nostrani impegnati da sempre nell’analizzare rozzamente lo stato dell’economia sulla base di scelte politiche o della governance di dinamiche oggettive. I primi lavori di Shaikh, tra i quali abbiamo selezionato l’ottimo Introduzione alla storia delle teorie delle crisi del 19781, partono dal presupposto che tutto il marxismo del secolo scorso si è impantanato su analisi delle dinamiche economiche fondate su lavori proposti da economisti non marxisti introducendovi semplicemente il solito linguaggio di sinistra come farcitura di tesi, in realtà tutte interne al sistema capitalistico, impegnate nel risolvere i problemi derivati dalle crisi cicliche. L’eresia iniziale di Shaikh consisteva semplicemente nel rimettere al centro della analisi marxiana delle crisi e delle riprese fattori fondamentali come la profittabilità e l’accumulazione che lo stesso Marx aveva proposto nei suoi scritti più importanti ma in seguito completamente dimenticati dai mastodonti del 900 fatta eccezione per Henryk Grossmann, con il suo famoso Das Akkumulationsund Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems (Zugleich eine Krisentheorie)2 scritto nel 1929, ed in seguito Paul Mattick3. Non è importante rivendicare una sorta di fedeltà al marxismo, come molti si sforzano ancora di dimostrare, ma semplicemente di usare le categorie e l’approccio marxiano in quanto risultano ancora indispensabili per comprendere l’andamento del modo di produzione capitalistico.