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Per una critica dell'immaterialismo storico

Mario Tronti

Ce n’è per tutti, in questo libro di voluta e bentornata «polemica ideologica, al limite del pamphlet», come si esprime lo stesso autore: Carlo Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro. I lettori di «alfabeta2» ne hanno già saggiato un brano nel numero precedente. Ce n’è per tutti i novatori, che sono una tribù, accampata nei deserti dell’Occidente, comunicatori di un senso comune intellettuale di massa, con i suoi riti e miti, le sue credenze, i suoi tecnologici fondamentalismi. Sono gli utopisti, in buona e cattiva fede della rivoluzione digitale, «evangelisti del software libero, teorici dell’economia di rete come “economia del dono”, entusiasti del Web 2.0 come strumento di “democratizzazione” di imprese, istituzioni e mercati», oltre che, naturalmente, profeti di una paradisiaca liberazione dal lavoro materiale.

Colpiti dal fuoco, niente affatto amico, di Formenti, sono qui i novatori della struttura, più sopportabili, certo, degli insopportabili novatori della sovrastruttura. I primi infatti sognano la fine del lavoro sans phrase, in virtù dell’avvento dell’immateriale nel mondo e in attesa – si tratta di pazientare solo qualche giorno – della fine del capitale, qui e ora. I secondi, non sognano, vedono un’economia finalmente libera da lacci e lacciuoli della politica, una società finalmente libera dalle ingerenze dello Stato, e cittadini finalmente liberi dalle tutele dei partiti. Un altro mondo finalmente non possibile, ma reale: meraviglioso intreccio – si dice qui – di neoliberismo e di «taylorismo digitale».

In comune, tutti i novatori hanno la fedeltà al motto brechtiano, parafrasato così: dietro di noi stanno le fatiche delle montagne del Novecento, davanti a noi la jouissance delle pianure del Duemila, secolo, appunto, delle meraviglie che, superati gli anni Zero, dove persistevano alcune brutte cose, sempre eredità del maledetto passato, l’11 settembre, la guerra infinita, Bush e neocon, adesso, Obama volendo, si avvia trionfalmente a dare a ciascuno, non più secondo il suo lavoro ma secondo i suoi bisogni. Come si vede, mi sono messo subito nel climax del testo che, con una gradazione crescente di sarcasmo, si propone si smontare entusiasmi, dogmatismi, e anche pentitismi, dominanti nel popolo, e nella cultura, della cosiddetta rete. Quando si parla di un libro, bisogna mettercisi dentro, per capirne il segno e per darne il senso.

Carlo Formenti è da un decennio che si occupa di queste cose. Dietro quest’ultimo lavoro, c’è la trilogia di Incantati dalla rete (Cortina 2000), Mercanti di futuro (Einaudi 2002), Cybersoviet (Cortina 2008). Ora, qui c’è tutta l’aria di uno show-down finale. È un grido liberatorio, di cui si sentiva il bisogno, oppressi come siamo, ciascuno di noi, ogni momento, da questa nuova religione del virtuale. Perfino il tumulto di piazza, il gesto collettivo più materiale che storicamente esista, viene ormai ascritto alla virtù del mezzo di comunicazione. Collegati in rete, e con le armi degli sms, si abbattono i tiranni e si eleggono i presidenti. Scompaiono le motivazioni di fondo delle rivolte e i poteri occulti che muovono le scelte. Non ci si ferma a riflettere sul fatto che, magari proprio perché quegli eventi assumono quella modalità, risultano effimeri, momentanei, esposti a una eterodirezione, di cui non si sa nulla, ma che è molto più solida e radicata e duratura. Insomma, mi piace questo libro, per questa ragione: quello che pensavo da sempre, per intuito – ma l’intuito, quando è ben educato dall’esperienza, raramente sbaglia – mi viene qui documentato da una mole di letture, che io non ho fatto e che, prometto, non farò mai. Consiglio di leggere bene, per bene orientarsi. Felici e sfruttati, poi, non è titolo da lasciare in copertina, è slogan da scrivere sui muri.

Faccio emergere solo qualche spunto, per incuriosire il lettore, ma la lettura va fatta per intero, dalla Prima parte, di critica della letteratura dell’ottimismo tecnologico, compresi i pentitismi dell’ultima ora, di fronte alle repliche della storia, alla Seconda parte, più politica, dove prendono il centro della scena lavoro e capitale al tempo della rete. Si parte dal ritorno in grande del fantasma di Menenio Agrippa, dice Formenti, a cavallo della metà del Novecento, ma io direi piuttosto, dagli anni Ottanta, quando nelle scienze umane, sempre più civettando con le scienze cosiddette esatte, orientate dalla tecnica, le teorie dell’equilibrio spodestano le teorie del conflitto. L’89-91 darà il suo bravo contributo. Quella che è stata declinata come la fine delle grandi narrazioni ideologiche inaugura in realtà una grande narrazione alternativa, dove la storia e la politica, il moderno e l’umano, divengono fossili di un’età di dinosauri estinti. Comincia l’era del post-, postmoderno, postumano e una serie infinita di post. «Innovazione» emerge come parola magica, risolutrice dei problemi, annunciatrice di miracoli. Si rovescia il paradigma teorico, che aveva dietro di sé due secoli di storia del movimento operaio: d’ora in poi i capitalisti saranno il nuovo, gli anticapitalisti il vecchio.

È qui che si innesta la vicenda contro cui Formenti tira fuori gli artigli della critica. Da ascesa e caduta della New Economy al trionfo della Wikinomics. In mezzo, le cose più strane, cioè le più improbabili Utopie 2.0: capitalismo senza proprietà e digitalsocialismo, anarcocapitalismo e autocomunicazione di massa, tecnodeterminismo e comunismo della rete. I testi sono esaminati uno a uno, e uno a uno sono decostruiti gli autori: da Rifkin a Castells, da Benkler a Kelly e Lessig, a Shirky e Tapscott. I nostri Rullani e Bonomi, che si muovono, bisogna dire, su un altro più ragionevole piano, non vengono risparmiati. Gustoso il paragrafo su Nostalgia Hacker, dove c’è, tra l’altro, un’inedita lettura del personaggio Assange e della vicenda WikiLeaks.

Ma mi interessa di più, per ovvie ragioni, la seconda parte, dove vengono affrontati gli autori delle tematiche dette della fine del lavoro e del rifiuto del lavoro. Formenti li interpella come «becchini del lavoro». «Se gli apologeti della New Economy ci invitano a dimenticare lo slogan “nessun pasto è gratis”, le teorie che stiamo per analizzare vogliono fare piazza pulita di un altro slogan novecentesco che – in un certo senso – ne rappresenta la variante di sinistra: “Chi non lavora non mangia”». Qui Arendt e Polanyi, dalle loro postazioni classiche, vengono evocati contro i futurismi di Beck e Negri. Alla fine si salvano, giustamente, solo Marazzi e Arrighi, perché tutto il discorso si protende verso le incombenti «ombre cinesi».

Sono d’accordo su un punto fondamentale, che io direi così: non si possono giocare i Grundrisse contro Das Kapital, il general intellect contro il Capitolo VI° inedito. Soprattutto – e c’è qui un passaggio di stringente attualità politico-pratica – non si possono giocare i knowledge worker, e nemmeno i lavoratori autonomi di seconda o terza generazione, contro gli operai di fabbrica, che non sono un residuo in via di estinzione, sono una corposa realtà sociale, civile e umana, in Italia come, tanto più, nell’arena globale del mondo che sta per venire. Lasciamo questo lavoro – di soluzione finale nei confronti degli operai organizzati – ai Marchionne e piuttosto pensiamo, politicamente, a combatterlo. Io non chiamerei quei teorici di un «operaismo senza operai», neooperaisti. Sono anch’essi espressione di una cultura egemonica del post-. I neo-operaisti consiglierei di andarli a leggere in un recentissimo volumetto di DeriveApprodi, Nuova Panda schiavi in mano (pp. 168, € 12,00), che porta opportunamente questo sottotitolo: La strategia Fiat di distruzione della forza operaia.

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