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cumpanis

Poche note sulla questione delle classi

di Alessandro Visalli

Tema della "composizione di classe": dopo gli interventi, nei numeri scorsi di "Cumpanis", di Alessandro Testa e Carlo Formenti, pubblichiamo questo articolo di Alessandro Visalli, architetto, docente all' Università degli Studi "La Sapienza" di Roma

laclasseoperaia. Locandina.1In questo breve intervento sarà prodotta qualche divagazione a partire dai numerosi stimoli che derivano dai lavori di Alessandro Testa, “La lotta di classe oggi: tra teoria del valore ed organizzazione del lavoro”, e Carlo Formenti, “Composizione socioeconomica e composizione sociopolitica, questioni di metodo”.

Il mio omonimo Alessandro Testa parte dal concetto di “lotta di classe” (formula composta che, come proveremo ad argomentare, è utile pensare come inerente non già al suo apparente oggetto, ‘classe’, quanto al sostantivo ‘lotta’), e lo collega a modalità ‘tipiche’ del capitalismo e ‘specifiche’ del modo in cui questo crea il ‘valore’. Ovvero, in altri termini, a come questo organizza il lavoro a partire da specifici rapporti sociali.

Per entrare subito nel tema si può prendere un esempio. Come sottolineato anche da Carlo Formenti nel secondo capoverso la giusta istanza di analisi rigorosa dei mutati termini di formazione del lavoro e della classe consente, nella sua formulazione, al lettore meno attento di scivolare sul rischio sempre presente di oggettivare la ‘classe’. Accade perché viene auspicata una ‘analisi scientifica’ di essa. Sovrapponendo con ciò la confusa incertezza su cosa si intenda esattamente con ‘scienza’ a quella su cosa sia la ‘classe’ e quale materialmente sia. Intendiamoci, Testa fa bene a dirlo. Una ricerca sistematica, razionale, ben fatta, della sociologia e socioantropologia delle relazioni e rapporti sociali e dell’organizzazione del lavoro è utile e necessaria. Ma il lemma della (o delle) “lotte di classe”, o della/e lotta/e della/e classe/i è guidato dal sostantivo ‘lotta’ (e dal verbo “lottare”) e non dall’oggetto ‘classe/i”. Esiste quindi un limite insuperabile alla sua oggettivazione come conoscenza data.

Questo è quel che proveremo ad argomentare. Le classi sono creazioni specifiche del processo materiale e degli ambienti (anche simbolici e spirituali) in cui questo si svolge, ma questo è sempre una singolarità, non è catturabile in categorie universali. Se è così si tratta di una questione che non si può affrontare in teoria ma solo nella pratica. Solo attraverso un processo di presa di contatto partecipante e militante. Insomma, porre la questione della classe è porre quella della lotta. È, in altro modo, porre la questione della ‘filosofia della prassi’.

Questa affermazione, fatta anche dal testo di Carlo Formenti, è, però foriera di notevoli rischi e quindi va introdotta con circospezione. Ci torniamo alla fine, dunque.

Alessandro Testa riconduce il suo interessante discorso al materialismo dialettico e storico (che non sono ovviamente la stessa cosa), opponendovi classicamente ‘l’idealismo’. E quindi allo scontro ‘capitale-lavoro’, da cui deriva la necessità di individuare criteri discriminanti per stabilire oggettivamente chi farebbe parte ex ante della classe di riferimento della rivoluzione, il ‘proletariato’. La ricerca procede individuando prima chi, pur fondando la propria sopravvivenza sul lavoro, ha la forza sociale per imporre il prezzo (le star, i lavoratori apicali di successo, etc.) e chi comunque dispone di qualche rendita finanziaria. Secondo la conclusione raggiunta entrambi non ‘campano la vita’ e quindi non sono parte della classe. Poi non lo sono coloro che sono assorbiti nella funzione di comando del capitale (i manager) e non lo sono i lavoratori autonomi forti, ma, di converso, lo sono quelli deboli e gli artigiani e commercianti, purché piccoli e deboli rispetto alle dinamiche della finanza. Alla fine, l’analisi di Testa si fa guidare, mi pare, dall’antico ed illustre paradigma, di derivazione rinascimentale, tra il “popolo minuto” ed il “popolo grosso”. Tra chi sopravvive più o meno a stento e chi accumula capitale e ricchezze. È un’utile approssimazione.

Sulla base di questa partizione, che come detto ha sostanza ma a dire la verità anche il difetto di non essere tipica del capitalismo e specifica del suo modo di produrre valore, si passa nell’ultima parte a nominare il problema dell’estrema parcellizzazione del processo di produzione di valore. Frammentazione che è diventata dominante una volta che la fabbrica fordista è stata scacciata nella parte sud ed orientale del mondo (osservazione da tenere a mente e su cui torniamo).

È qui che riprende Carlo Formenti, raccogliendo lo spunto del superamento dell’opposizione binaria capitale-lavoro, almeno nella forma messa in pensiero dai fondatori nel contesto del medio ottocento europeo. Il lavoro è cambiato, il capitale pure, ma resta il fenomeno della dominazione (che, tuttavia, in sé non è certo caratteristico del capitalismo). Bisognerebbe capire quindi come è cambiato, ma più che capirlo occorrerebbe crearsi gli strumenti per la critica di questo stato dei fatti e quelli della lotta. Non è, infatti, dalla consistenza oggettiva delle classi che deve partire il movimento del pensiero, ma dalla critica, ovvero dalla lotta che genera le classi stesse. La questione feconda non è tanto di chi, o come, sia fatta la classe capace di attivare processi di trasformazione strutturale della società capitalista, quanto come si costruisca. Ovvero, attenzione, come si costruisca come classe.

Secondo l’impostazione marxiana il capitalismo non si distingue infatti dai regimi di accumulazione che l’hanno preceduto per la presenza di questa o quella fazione dominante (se sia la nobiltà, il clero, la borghesia), e dominata (i servi, i fedeli, i poveri), quanto per il modo in cui crea il valore e riproduce se stesso e la società con esso. Non è tanto il ‘capitale’ (è sempre esistito un qualche ‘capitale’, anche in forma monetaria), ad essere il problema, quanto la sua assoluta centralità nell’organizzazione sociale e nella dinamica dei poteri. Il capitalismo è quella forma di organizzazione sociale nella quale il capitale, in forma di appropriazione privata, domina completamente o sostanzialmente il sociale ed il politico facendosi scopo a se stesso.

Le classi ‘lavoratrici’ non sono tanto caratterizzate, quindi, da una maggiore o minore ricchezza monetaria (anche se è un buon proxy), o dal grado di libertà formale, quanto dal loro ruolo strutturale nel processo complessivo, che attraversa l’intera società, di riproduzione del capitale come ordinatore generale. Sono classi lavoratrici quelle che sono organizzate dal capitale e dai suoi fini.

Facciamo un passo indietro. Già Adam Smith attribuiva un ruolo alle classi dedite alla riproduzione e circolazione del capitale e quindi alla realizzazione del surplus (o, nel linguaggio marxiano, del plusvalore). Seguendolo, Marx individuava le classi sociali non già in relazione al reddito, bensì alla relazione con il modo di produzione. La prima tripartizione che è rilevante nell’analisi marxista è quindi quella tra:

– i lavoratori che sono produttivi di plusvalore, ovvero che vendono la propria forza-lavoro creando alle dipendenze di un possessore di capitale (e dei mezzi di produzione quali che siano) un valore scambiabile superiore a quello ottenuto come contropartita della prestazione;

– i lavoratori che non entrano direttamente in tale produzione ed assorbono parte del plusvalore estratto dai primi (impiegati alla contabilità, ai controlli di gestione, manager, addetti al marketing, …) restando comunque necessari al complessivo circuito di produzione e realizzazione (ovvero di circolazione);

– e i possessori del capitale e dei mezzi di produzione.

Bisogna qui subito notare che sono lavoratori produttori di plusvalore non solo i classici operai manifatturieri, ma, già per Marx (che, del resto si inserisce nella tradizione da Smith a Ricardo), anche tutti i produttori di merci immateriali, ad esempio, un maestro di scuola, o i camerieri in un ristorante. Il caso di un impiegato pubblico, invece, è quello di una figura intermedia che non produce in sé plusvalore ma lo impiega ed assorbe dai produttori, tramite le tasse, essendo tuttavia necessario alla riproduzione della forza-lavoro e quindi indirettamente coinvolto nel processo di produzione e riproduzione. Anzi, una maggiore valutazione dell’importanza della riproduzione (di classe e capitale) è una delle caratteristiche distintive del recente capitalismo. Inoltre vale la pena sottolineare come Marx, nei suoi testi più maturi, si guardi bene dal sostenere che il capitalismo tenda inevitabilmente allo schiacciamento tra lavoratori (come visto in senso allargato) e capitalisti, bensì abbia riconosciuto l’esistenza di una controtendenza alla crescita delle classi intermedie, ovvero al: “costante accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo, fra gli operai da una parte e i capitalisti e i proprietari fondiari dall’altra, in gran parte mantenute direttamente dal reddito, e che gravano come un peso sulla sottostante classe lavoratrice e accrescono la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila soprastanti”. Si parla qui, seguendo ancora Adam Smith, delle burocrazie statali, delle forze armate e delle classi professionali, poi già enormemente estese nella fase monopolistica del capitalismo e nel modo di produzione fordista, e poi ancora di più in seguito. Sotto questo genere di classificazione, lo ripetiamo ancora una volta, non è dunque in questione il reddito (ovvero il ceto) bensì la posizione strutturale rispetto al capitale. È in questione, cioè, la formazione economico-sociale.

Bisogna notare che, come ricorda Formenti e sa bene Testa, queste tassonomie sono del tutto inutilizzabili fuori del contesto di un progetto di società ‘ben organizzata’, ovvero ‘liberata’. In altre parole, sono strumenti per rendere possibile pensare il socialismo. Non ha alcun senso pensare che indichino una distinzione tra lavoro manuale e non, tra produzione e servizi, o tra lavoro riccamente pagato e meno (se pure questo è un indicatore di primo livello). Come controprova si può prendere il fatto che nella società data, questa distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo non ha senso. Essa tende a dissolverla in quanto il lavoro, nel capitalismo, produce sempre ‘valore’ nel senso di un certo accumulo di segni monetari. Ma la distinzione compare invece di fronte ad una diversa organizzazione sociale, ovvero compare di fronte alla questione del socialismo. Per una chiara enunciazione del tema si veda Paul Baran, 1956.

La questione non è quindi di stabilire una volta per tutte quale lavoro produca segni di valore sul mercato (denaro) e quale non li produca (distinzione per la quale, non a caso, il lavoro pubblico è dichiarato improduttivo perché non finalizzato alla produzione o realizzo di merci), ma è di affermare che una società ben ordinata è socialmente equilibrata ed ambientalmente sostenibile proprio a partire da cosa in essa è ‘lavoro’ e cosa non lo è. Dunque, che, ad esempio, in essa il consumo e l’investimento non sono rigidamente limitati dalle esigenze del massimo profitto e dalle funzioni di riproduzione dei rapporti di forze che fondano il dominio di una classe sull’altra (e ne confermano la riproduzione), ma sono orientati al pieno sviluppo del surplus economico potenziale della società ed alla equa distribuzione di questo (in realtà sviluppo del surplus potenziale significa attivazione delle forze sociali secondo la propria capacità e ruolo, e quindi implica necessariamente un’equa distribuzione). Nozione, questa, che presume un ordinamento sociale razionale e decente, in grado di consentire il giusto dispiegamento delle potenzialità produttive, tenendo conto degli obiettivi prioritari di sviluppo umano e armonia con la natura. Per concludere questa parte con una formula sintetica, un lavoro non è quindi produttivo o improduttivo in relazione all’efficienza giudicata dal mercato ma in relazione ad una società ordinata. Ovvero in relazione alla sua presenza o assenza in tale società.

Come ulteriore glossa, bisogna sottolineare che ciò non è, e non è mai stata, una questione solo economica, o solo ‘materiale’. Né si tratta di una questione interna al circuito di produzione e riproduzione solo a livello nazionale. La produzione e la riproduzione del capitale sono questioni di rapporti sociali e di potere istituiti a livello di sistemi-mondo. Ovvero, come scritto bene da Formenti, giova ricordare che per comprendere il processo di formazione delle lotte di classe, e della soggettivazione di queste, bisogna compiere nuovamente i due allargamenti che Lenin e Gramsci pensarono e praticarono (il primo) un secolo fa. Nel farlo spostare, da una parte, il focus dal modo di produzione capitalista astrattamente inteso (pensato sul modello statico della produzione di fabbrica e della realizzazione tramite il mercato e la circolazione delle merci), alla dinamica di sfruttamento, sviluppo ineguale e dominio delle nazioni e dei popoli gli uni sugli altri. Dall’altra, si pone la necessità di porre la questione della lotta anche sul piano “sovrastrutturale” e quindi la necessità di diventare egemone nella società, aggregando intorno a sé non più solo l’arbeiter marxiano, quanto l’intera società.

La questione della classe, o delle classi, si costituisce perciò necessariamente insieme all’azione, al progetto, ed al Partito. Si costituisce nella “filosofia della prassi” e senza “emergere dalla terra” (secondo l’espressione di Labriola). Le classi sociali non emergono dalla terra, diceva il grande filosofo di Cassino alla fine dell’ottocento, non sono già presenti in natura ma neppure si può dire derivino dal caso (o dal discorso). Esse sono formazioni che nascono storicamente “entro ed attorno” una determinata forma di produzione, ma nascono al punto di congiunzione delle volontà e della necessità, del progetto e delle condizioni.

La questione delle classi può essere condensata quindi nel prodotto dell’interazione tra teoria e pratica (tra ‘teoria rivoluzionaria’ e prassi ‘dell’inchiesta militante’), nella creazione di un progetto (e di un Partito che lo incarni) e nella capacità di calarsi nelle fratture e scontri tra i processi di formazione di status e tra i rapporti di distribuzione della ricchezza nei quali attori sociali si presentano ‘deboli e dipendenti’ o ‘autonomi e forti’. Tra i rapporti di riproduzione sociale in cui alcuni attori sono, o pretendono di essere, ‘produttivi’ o meno. Tra coloro i quali sono connessi a ‘modelli di accumulazione estrattivi’, beneficiandone, e quindi modelli capaci di determinare rapporti di dipendenza ed imperialisti, o a modelli ‘equilibrati ed autofondati’. Quindi tra ‘rapporti di dipendenza’ (che attraversano le scale nazionale ed internazionale e sono organizzati dal concetto di ‘autonomia’), ‘rapporti di riproduzione’ (nei quali compare la pertinenza della chiave ‘produttivo’/’riproduttivo’), ‘rapporti di distribuzione’ (e sono organizzati dall’antica coppia tra ‘forte e debole’). Questo campo certamente complesso, nel quale si formano e riformano status sociali, si determinano rapporti e creano sistemi di accumulazione, è da attraversare diagonalmente per aggregarlo.

Proviamo, per analizzare questo processo di scoperta/costruzione della classe antagonista che abita nel campo delle contraddizioni indicate, una riflessione influente come quella del filosofo argentino Ernesto Laclau (che, però, dissolve non per caso la terminologia marxiana di ‘classe’, preferendogli la più antica di ‘popolo’). Egli, muovendo da giovanili esperienze in formazioni trotskiste e più mature nel campo populista nel contesto argentino, ricentrò la sua attenzione sulla capacità dei discorsi politici di creare nuove soggettività a partire da una realtà che si presterebbe a risignificazioni quasi illimitate. La polemica era rivolta contemporaneamente verso il liberalismo ed il marxismo. Secondo alcune ricezioni, rese influenti anche dalla vis polemica dell’autore e da alcune forzature dei testi, il centro del processo di lotta e della costruzione di popolo è preso dalle narrazioni in assenza di riferimenti. E quindi da una sorta di tecnologia della vaghezza in grado di mobilitare le emozioni e creare identificazione (di qui il ruolo della leadership ed un ambiguo uso del termine gramsciano di ‘egemonia’). Con riferimento anche ai gusti ed ai tic del clima intellettuale nel quale si formò il centro del suo pensiero, quello ‘post-moderno’, per Laclau la narrazione, appunto in assenza di riferimento o nella possibilità di considerare contendibile ogni riferimento, deriva sempre profondamente e logicamente dalla comprensione del sociale come interamente soggetto a costruzione e riconfigurazione da parte del linguaggio. O, con il gergo prescelto, da parte di formule “vuote” e colonizzabili dalle soggettività date. Un termine come “onesto”, ad esempio, può in base alle esperienze di vita, agli interessi e sottofondi culturali di ognuno, assumere diverso significato senza essere per questo tematizzato. O, parimenti, un termine come “libertà”. I significati, proprio per il loro essere “vuoti”, in altre parole, si rendono disponibili a catturare il consenso e creare apparenti equivalenze tra soggettività diverse, e relative lotte ed ‘agende’, attraverso l’opportuna esibizione da parte di un leader credibile. La cosa poi regge, e ciò si è visto sia nel caso di scuola del Movimento 5 Stelle come nella parabola della Lega (ma anche di Renzi), fino a che questo leader e la sua stretta cerchia non vengono piegati dalla forza delle cose. Allora l’assenza di tematizzazioni emerge con tutta la sua devastante potenza, ovvero con il retro della potenza che ha espresso nella fase ascendente. Un’altra retorica, altri significanti vuoti vengono avanzati, o quelli posti vengono reinterpretati, e la politica muta di direzione. Per quel che a noi interessa, dato che non è certo la fortuna del leader, o dei suoi sodali, ad essere utile all’emancipazione della classe, tutto resta alla fine eguale.

La cosa abbastanza sorprendente, anche nello stesso Laclau, è che questa operazione di costruzione di superficiale e volatile consenso (come si è visto proprio in Italia e proprio nel miglior caso di successo) del tutto inutilizzabile per cambiare realmente le cose una volta che si giunga a contatto con la durezza materiale del mondo (che non è fatto solo di parole), viene etichettata come “costruzione di egemonia”. L’egemonia è ridotta, insomma, a “operazione di riarticolazione interna ad una formazione sociale e discorsiva” e quindi “costitutiva anche delle classi sociali in quanto soggetti politici”.

È chiaro, se pure forse non a tutti, che questo terreno abbandona interamente il terreno della concezione materialista della storia in ogni sua possibile declinazione. Lo fa, ovviamente, seguendo un’acuta sensazione di sconfitta storica che sul passaggio degli anni settanta (gli anni della militanza anche per il filosofo argentino) prese un’intera generazione. Il punto è che viene qui smarrita, insieme ai residui deterministi certo da respingere, ogni ancoraggio a qualche materialità e riferimento. Ogni linea di frattura diventa antagonista solo in funzione di una volontà di egemonia di un dato soggetto politico attivo; ovvero per effetto di una costruzione discorsiva fondata su “significanti vuoti” ben scelti e capaci di fratturare lo spazio rappresentativo e sociale. Significanti che creano, o ri-attivano “momenti populisti”. Tutto si muove quindi dentro il circolo attivato dal discorso.

Insomma, in opposizione a chi tenti ancora una volta di definire ‘la classe’ sulla base di contraddizioni ancorate a questioni materiali, o a funzionamenti economici, si tratta piuttosto di sollevare formule il cui scopo è, da una parte, di far intendere che nulla di sostanziale può essere detto, dall’altra, che tutto può essere ottenuto grazie alla potenza trasformativa dei discorsi politici. In termini più concreti, con la giusta rappresentazione anche movimenti del tutto alieni da una impostazione socialista, agiti da soggettività sociali confuse e orientate all’autoaffermazione individuale, se non direttamente ribelli ad ogni forma di solidarietà e coerenza, possono essere per questa impostazione ricondotti alla funzione antagonista. La ragione spesso evocata sarebbe che in fondo questo è l’unico terreno rimasto.

L’obiezione che si può e deve fare a questa influente impostazione, che ha peraltro il pregio di porre in modo esplicito la questione della costruzione della soggettività antagonista, è che non è tanto in questione la disposizione a “giocare nel terreno rimasto”, quanto quella di non giocarvi con armi che hanno dimostrato negli anni la propria assoluta inutilità. È triviale che se resta solo un terreno occorre ‘giocarvi’, ma bisognerebbe capire che certe armi sono state proprio forgiate dal nemico per essere inutili. Una cosa, e condivisibile, è non avere una rappresentazione rozza e schematica di “struttura” e “sovrastruttura” (cadendo nelle forme più metafisiche di economicismo e di determinismo storicista), un’altra, del tutto diversa, dissolvere ogni rilevanza alla materialità dell’esistenza e dei rapporti sociali che istituisce. Ancora, una cosa è ricondurre tutto alle forze produttive ed ai rapporti di produzione (disconoscendo l’importanza della decisione, della politica come apertura al possibile), altro far della decisione politica l’ontologia del sociale.

Attraverso questa discussione, insomma, e attraverso la scelta che sottende, passa a ben vedere la frontiera tra la prosecuzione della mascherata postmoderna, immagine propria della sconfitta del socialismo vista come fallimento (e delle sue infinite versioni di pensiero adattivo), e l’assunzione della possibilità di una ripresa effettiva della lotta. Ripresa determinata proprio dal mutamento delle condizioni materiali e dal rovesciamento e fallimento della ‘non società’ liberale. La riaffermazione quindi della possibilità di ritrovare l’ancoraggio solido nelle dure condizioni materiali, le uniche che possono dare piede al salto necessario.

Questa via fu abbandonata nel corso della grande ritirata del finire degli anni settanta, e nei primi anni ottanta che biograficamente ho attraversato e di cui serbo una vivida memoria. Prese allora piede l’idea che la frattura tra le classi sociali fosse superata o da superare, a seguito del crollo del ‘compromesso keynesiano’ e la trasformazione del ‘modo di produzione fordista’. Secondo questa visione se il proletariato, la classe operaia, non esisteva più o era sempre meno rilevante (in realtà si spostava in oriente) alla fine restavano solo classi medie e aspiranti tali. Dunque bisognava guardare solo a queste ultime come orizzonte di ogni possibile azione politica. Questa tesi ha avuto enorme peso nella ritirata della sinistra antagonista e nell’affermazione delle ‘terze vie’. Capita che coloro che si sentono ‘moderni’ ed ‘aggiornati’ nel criticare il materialismo siano, in realtà, dentro la ripetizione di un paradigma storicamente emerso ormai quaranta anni fa e le cui condizioni di esistenza e necessità sono venute meno.

Soffermiamoci.

Prendiamo, ad esempio, un famoso testo di Ulrich Beck del 1986:

“… la problematica dell’ineguaglianza ha perso la sua esplosività sociale. Persino di fronte a numeri di disoccupati nettamente oltre la soglia dei due milioni, considerata traumatica fino a pochi anni fa, non ci sono state fino ad ora proteste. Certo, la problematica della diseguaglianza ha acquistato negli ultimi anni una maggiore importanza (discussione sulla nuova povertà) e riemerge in nuovi contesti e varianti (lotta per i diritti delle donne, iniziative civiche contro le centrali nucleari, diseguaglianze tra le generazioni, conflitti regionali e religiosi). Ma se prendiamo la discussione pubblica e politica come indice di sviluppo reale, allora la conclusione che si impone è la seguente: oggi nella Repubblica Federale, sebbene le vecchie diseguaglianze non siano scomparse e ne sorgano di nuove, viviamo in condizioni che sono al di là della società di classe, e in cui l’immagine della società di classe è mantenuta in vita solo per mancanza di un’alternativa migliore.”

In questo argomento suona molto importante la ragione per la quale, in modo non dissimile, come vedremo, da Habermas e da Giddens o Inglehart, tra gli altri, questo effetto si produrrebbe. Bisogna fare attenzione, perché è esattamente un’illusione ottica propria di quegli anni e con essi, tuttavia, tramontata.

“[continua] Questa contraddizione si può superare se ci si chiede in quale misura negli ultimi tre decenni, al di sotto della soglia di attenzione delle ricerche sulla ineguaglianza sia mutato il significato sociale della diseguaglianza. La mia tesi è questa: da una parte le relazioni di diseguaglianza sociale sono rimaste largamente costanti nello sviluppo del dopoguerra nella Repubblica federale. Dall’altra le condizioni di vita della popolazione si sono radicalmente modificate. La peculiarità dello sviluppo della struttura sociale nella Repubblica federale è costituita dall’ ‘effetto ascensore’: la ‘società di classe’ è portata nel suo complesso ad un piano superiore. Nonostante tutte le nuove disuguaglianze che si vanno stabilizzando e le vecchie che si sono mantenute, c’è un sovrappiù collettivo di reddito, istruzione, mobilità, diritto, scienza e consumo di massa. La conseguenza è che le identità e i vincoli subculturali di classe si attenuano o si dissolvono. Nello stesso tempo si avvia un processo di individualizzazione e diversificazione delle situazioni e degli stili di vita che mina nelle sue basi il modello gerarchico delle classi e dei ceti sociali e ne mette in discussione il contenuto di realtà”.

Non è, secondo la tesi di Beck, tanto la differenza materiale ad essere perduta, ovvero la classe in sé, quanto il suo carattere sociale, quindi la classe per sé, a causa della mutazione di condizioni e forme di vita nella società cosiddetta dei “due terzi”. E ciò, sia chiaro, “anche se le strutture della diseguaglianza restano costanti”. La cosa si spiega con l’innalzamento delle condizioni di vita e di istruzione che è percepita come più rilevante della distanza (che resta immutata). Leggiamo ancora:

“con l’elevazione dello standard di vita nel corso della ricostruzione economica negli anni cinquanta e sessanta e con l’espansione dell’istruzione negli anni sessanta e settanta, larghi strati della popolazione hanno sperimentato mutamenti e miglioramenti nelle condizioni di vita che per la loro stessa esperienza sono stati più importanti delle distanze dagli altri grandi gruppi, rimaste ancora una volta immutate. Questo vale in particolare per i gruppi svantaggiati alla base della gerarchia sociale”.

Per tutti i gruppi sociali sono diventate, in altre parole, possibili le vacanze, o l’acquisto della casa. Essi hanno percepito quindi nelle proprie vite quel genere di ottimismo che si stabilisce quando sai che stai aumentando sempre di più il benessere, e individualmente o come famiglia ogni decennio sei sempre più ricco. Che aumenta la durata della vita, il tempo di lavoro ed il relativo reddito. Allora il consumo di massa mescola i ceti, allarga le aree di intersezione, crea stili di vita che si liberano degli angusti steccati di classe, aumenta mobilità ed istruzione. Gli ammortizzatori e lo stato sociale ed assistenziale producono un effetto molto specifico. Andiamo avanti con Beck:

“oggi non è più come nel XIX secolo, quando sotto la pressione del bisogno e dell’alienazione sperimentata nel lavoro, nei quartieri poveri proletari delle città in espansione gli uomini venivano fusi insieme in grandi gruppi – ‘classi’ che agivano sul piano sociale e politico. Oggi, al contrario, al riparo dei diritti sociali e politici conquistati, essi vengono svincolati dai legami di classe della vita quotidiana e indotti sempre più, per provvedere al sostentamento, a contare solo sulle proprie forze. Nel quadro dello stato assistenziale, l’estensione del lavoro salariato si trasforma in un’individualizzazione delle classi sociali”.

Si tratta chiaramente del frutto del successo delle lotte, che a sua volta, però, Beck lo prevede, “ora ne minaccia forse l’esistenza, almeno in quanto movimento ‘operaio’”. La questione è posta con chiarezza, come del resto farà Inglehart, la tendenza all’individualizzazione dipende strettamente da condizioni strutturali (sociali, economiche, giuridiche e politiche) tra le quali rientrano: “una prosperità economica generalizzata con relativa piena occupazione, l’ampliamento dei compiti dello stato sociale, l’istituzionalizzazione della rappresentanza sindacale degli interessi, l’espansione dell’istruzione, l’estensione del settore dei servizi con le derivate opportunità di mobilità, la riduzione del tempo di lavoro, ecc.” Ciò porta alla disintegrazione della società di classe.

Ma, attenzione, questo avviene perché:

“questa inclusione di persone nel mercato del lavoro, questa, in senso marxiano, crescita oggettiva della classe dei lavoratori salariati, avviene, nelle condizioni strutturali date, nella forma di una generalizzazione dell’individualizzazione – una forma tuttavia reversibile. Infatti, in secondo luogo, questo superamento delle classi dipende da determinate condizioni strutturali e può, a sua volta, essere superato se queste condizioni strutturali sono rimesse in questione”.

Una tesi del genere, del resto, era stata avanzata in termini marxiani già nel 1966 da Paul Baran e Paul Sweezy, che misero in connessione la rivoluzione sistemica allora in corso nel capitalismo (monopolista) maturo con l’effetto secondario di sviluppare un’enorme capacità di coinvolgimento ed egemonia. Il capitalismo nella forma monopolista ante mondializzazione tendeva infatti a soggiacere alla “legge della crescita tendenziale del surplus”, e quindi ad una costante moltiplicazione degli sprechi e dei ceti intermedi ed improduttivi. In questa capacità di creare e distribuire la ricchezza, moltiplicando i ceti e gruppi beneficiari intermedi, riposava la sua stabilità sociale. Dal punto di vista politico quello enunciato dai due studiosi marxisti americani era quindi una sorta di “teorema di impossibilità”. Fino a che cresceva la monopolizzazione del capitale, insieme alla sua composizione organica, il surplus tendeva ad aumentare e con esso i suoi percettori. Questo effetto spegneva la conflittualità sociale nel centro e l’esaltava nella periferia.

Tutto questo è stato revocato.

Come appare dolorosamente evidente nelle vite di troppi, nel frattempo all’altro estremo della parabola della società neoliberale di cui gli autori citati vedevano l’alba, ogni protezione è caduta, le distanze si sono allargate e con essa la loro percezione, la sensazione non è quindi più di crescere velocemente ma, al contrario, di cadere. Per esempio, il sogno di diventare proprietari, per chi non lo è già, è lontanissimo. L’acquisto di una casa, anche piccola, comporta l’impiego di risorse non commisurate con il reddito medio corrente. Il tempo di lavoro si è frammentato e il ritmo si è fatto serrato, l’alienazione domina incontrastata.

Come peraltro antevidero e dissero sia Beck, sia Inglehart, ed anche Giddens, tutto ciò revoca le condizioni dell’individualizzazione e della stessa dissoluzione delle classi. In realtà l’era neoliberale aveva come presupposto non posto da essa la società dei due terzi e la stabilità esistenziale, ma procedendo l’ha dissolta, insieme alle classi medie di massa, e con essa il suo presupposto. Lungi dal riuscire essa stessa a garantirlo (come invece prometteva) ha quindi scavato sotto i propri piedi. Ma naturalmente ci vuole tempo perché si completi il processo di salire a coscienza, sia degli interessati sia degli interpreti ed intellettuali. Forse per questi ultimi ce ne vuole anche di più. Bisogna aspettare il volo della Nottola di Minerva. Se tra economia e politica non c’è, infatti, una relazione meccanicista, per cui da quella consegue immediatamente questa, ma ogni genere di slittamento e di dialettica, è perché come ben mostra anche Inglehart la coscienza sociale deriva dall’interazione di molti diversi fattori e risente dell’inerzia dello sviluppo.

Bisogna quindi, nello sforzarsi di ricostruire la questione del riferimento alla ‘classe’, evitare opposti scogli. Da una parte evitare le debolezze e le ritirate, ormai invecchiate e probabilmente non più coerenti con il tempo, dell’impostazione post-strutturalista di un Laclau, o dei suoi compagni inconsapevoli Beck, Giddens, Habermas e Glotz, e dall’altra ogni arcaismo ed ogni astrazione e teoricismo dottrinario. Occorre, al contrario, nuovamente partire da un giusto schematismo e da un’analisi strutturale degli interessi sociali, cercando di produrre almeno abbozzi di analisi concreta, individuazioni di leggi di mutamento situate e storico-concrete, comprensibili solo a partire dai conflitti e dalle contraddizioni presenti (non da quelle degli anni novanta).

Per poter compiere questa analisi concreta, che deve passare per una robusta inchiesta militante, bisogna allora liberarsi dell’idea che l’assetto sociale postmoderno, creato storicamente dalle specifiche forze introdotte dall’equilibrio del dopoguerra e da nuove generazioni (i ‘boomers’) che si ribellavano a generazioni ‘materialiste’, sia di fatto irreversibile. Occorre tenere fermo che non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, è più vero il contrario, l’essere sociale determina la loro coscienza. C’è infatti una contraddizione inscritta profondamente, nelle ossa stesse, dell’attuale società del lavoro che scalza la coscienza postmoderna la quale a sua volta paralizza l’azione sociale: l’individualismo edonista ha perso le condizioni di sicurezza ed affidamento che lo rendevano possibile o almeno plausibile. Nelle condizioni del lavoro contemporaneo ed in quelle della vita della grandissima parte della popolazione (in particolare in coloro che non possono scaricare su altri, o sperare di farlo, i propri pesi), si affaccia dunque la semplice logica che solo l’azione collettiva, nuovamente, può o potrà rimettere in questione i rapporti di forza. Purtroppo, al momento lo fa confusamente, su parole d’ordine spesso neoliberali, dando seguito ad ogni possibile fenomeno morboso e aprendo spazi a ogni possibile avventuriero.

È tutta, sempre questione di rapporti di forza. Altrimenti mentre si giocherella con la pietra filosofale, con questo o quello ‘significate vuoto’ (sperando di essere finalmente l’avanguardia rivoluzionaria tanto attesa e magari di scalare il successo), il senso comune neoliberale, ovvero la coscienza data, lavorerà a riprodursi travestito. La cosa non potrebbe essere più seria, la crisi covid ce lo sta mostrando.

Invece di inseguire le mobilitazioni liberali (quella del ‘no-pass’, se pure ovviamente eterogenea e confusa, lo è nella sua sostanza), bisogna comprendere che il varco da prendere è già presente. La coscienza postmoderna è già scalzata dalle sue contraddizioni e permane solo come zombie. Andargli dietro, come alle forme populiste tradizionali, è vano. Al massimo servirà a chi lo fa, ma non certamente alla reale trasformazione della società data. Sul piano profondo bisogna invece oltrepassare l’impolitico neoliberale e tutti i suoi travestimenti e recepire il nuovo bisogno di collettivo e di umanità, dandogli forma. Bisogna avere la pazienza di lavorare sulle fratture che si aprono, giorno dopo giorno. Tessendo e cucendo, senza perdere il filo dell’interesse da difendere. Ovvero del miglior interesse del paese, che è sempre quello dei suoi lavoratori. È qui che si potrà costruire la classe.

Sforzarsi di identificare i luoghi ed i temi nei quali, intorno agli assi ordinatori centro/periferia ed alto/basso, da prendere come indicatori approssimativi, ed i tre livelli prima ricordati si stanno comunque polarizzando estetiche, linguaggi, priorità e valori, quindi soggettività di gruppo incompatibili con lo stato delle cose presenti.

Ciò deve significare svolgere, con il passo determinato e paziente di chi sa che le case si costruiscono un giorno dopo l’altro, due lavori insieme, sia diversi sia complementari, entrambi indispensabili:

– da una parte l’autochiarificazione teorica e la discussione, seria, decisa, onesta, sulle diverse ipotesi analitiche e meccaniche causali e funzionali;

– dall’altra l’immersione nelle lotte, nelle contraddizioni materiali, nei luoghi come via privilegiata della stessa formulazione teorica.

Riflessione in azione, dunque, e costruzione di sintesi e narrazioni rivolte alla manifestazione della proposta teorica e pratica (indissolubilmente teorica e pratica). Questo deve significare lavorare sulle manifestazioni del conflitto, dove si identifica la contraddizione figlia del caos sistemico, e renderle occasione di formazione ed autoformazione anche teorica.

Occorre dunque ancora più azione politica e “filosofia della praxis”, che deve essere interamente orientata a “trasformare il senso comune”. Si noti, “trasformare”, non assorbire. Se c’è stato un punto specifico nel quale il “primopopulismo” è divenuto solo “contenitore dell’ira”, fallendo la trasformazione in “contenitore di (nuovo) potere”, è l’aver preso da terra esattamente quel che ha trovato. Nell’essere quel che Gramsci chiamava movimento “di tipo boulangista”. Un movimento “di tipo boulangista” viene facilmente neutralizzato, quando fallisce lo sfondamento e si incastra nelle casamatte della seconda linea. Allora queste imparano in fretta ad incorporarlo. Non ha mai infatti rappresentato un’autentica sfida sistemica, un assalto al ‘senso comune’ e alla ideologia che tiene insieme lo Stato. È sempre stato solo l’effetto reattivo ed il cascame della rabbia, del risentimento, dell’offesa di tutti coloro che sono stati ostacolati nella loro ascesa individuale, che reputavano loro diritto individuale su tutti. Un movimento boulangista non esercita davvero quella “fantasia concreta” che è capace di “operare su un popolo disperso e polverizzato per suscitare e organizzarne la volontà collettiva”. Agisce su una grande ed importante risorsa, fornita dalla rabbia individuale e creata dal senso di tradimento ed offesa, ma fallisce nel trasformarla in una forza di effettivo cambiamento. Per questo non serve sperare nelle pietre filosofali, nelle mosse risolutive, occorre una diversa e più paziente fatica.

Il ciclo delle lotte populiste, di cui l’ultima versione e fiammata è l’attuale mobilitazione, fallisce perché si nutre mimeticamente, e senza riuscire a determinare né egemonia né un nuovo blocco storico, né tanto meno classe, dello stesso veleno che ha condotto entro il “momento Polanyi”. Esso ha per un breve momento aperto un varco, rompendo lo schema destra/sinistra polarizzato al centro tipico della ‘terza via’, che aveva da tempo esaurito la propria vitalità; ma ha fallito ad organizzare le proprie ‘truppe’, a creare quadri e, soprattutto, non ha creato concentrazione ideologica, assorbendo interamente quella del nemico di cui era imbevuta. Si è in sostanza limitato a trovare quel che già c’era in termini di concentrazione ideologica. Ha creato solo ‘contenitori di ira’ che a ben vedere raccolgono una forma dell’attivismo individualista neoliberale degli anni novanta e la sua attitudine alla sorveglianza. Inoltre, fa leva sul risentimento indirizzandolo sistematicamente verso false figure individuali (le “caste”, le “generazioni” dei baby boomers, la burocrazia, le regole, …) anziché verso strutture di nessi e produzione di potere. Antistatalismo, disintermediazione, moralismo e profondo individualismo ne sono la cifra.

Per concludere bisogna, quindi, guardarsi dal limitarsi a raccogliere il cascame della rabbia, del risentimento, dell’offesa di tutti coloro che sono stati ostacolati nella loro ascesa individuale, che reputano loro diritto individuale su tutti. Occorre quella “fantasia concreta” che è capace, come diceva Gramsci, di “operare su un popolo disperso e polverizzato per suscitare e organizzarne la volontà collettiva”.

E’ necessario nel processo di costruzione della classe molta pazienza, e compiere due movimenti complementari: lavorare incessantemente sull’inchiesta, la mobilitazione, la lotta concreta sui temi e nei conflitti nella sfera pubblica, il tesseramento, la militanza, la creazione di collettivo e di comunità, la divisione del lavoro e l’organizzazione, e, poi, produrre lavoro teorico, discussioni sulla fase, sulle opzioni, sulle idee, messa alla prova reciproca, creazione di lealtà. Questa è alla fine la classe. Partito e Classe sono tutt’uno e non possono che esserlo. E tutto questo è anche “lotta di posizione” dotata di una ‘teoria rivoluzionaria’, mentre si cerca di produrre collettivamente influenza, caposaldo per caposaldo, giorno per giorno. Ovunque.

Conquistando una piazzaforte dopo l’altra e fidando che l’essere sociale ha ricominciato a lavorare a nostro favore.

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