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manifesto

Politica al lavoro

 Mario Tronti

I lavoratori tra globalizzazione e territorializzazione. E la loro cancellazione come soggetto politico. Un convegno a Brescia, per riprendere l'inchiesta. Il 3 ottobre, organizzato da Crs, Associazione per il rinnovamento della sinistra e il manifesto

Appuntamento a Brescia, il 3 ottobre. Ne ha parlato già Paolo Ciofi sul manifesto del 18 settembre. Prende l'avvio il progetto di un impegno di ricerca di tipo nuovo. Il tema è: lavoro e politica. Sì, perché è una novità occuparsene. Questo dice molto della condizione in cui siamo. Quello che fino a qualche tempo fa era una vecchia convinzione è oggi una constatazione del tutto nuova: e cioè che o i lavoratori sono una forza politica o non esistono. E l'inesistenza politica dei lavoratori è il problema della sinistra certo, ma è anche il problema della società e dello Stato, è il tema vero della crisi di civiltà. Se non mettiamo la cosa così, non riusciamo a trovare la bussola che cerchiamo per orientarci nel mare aperto del capitalismo-mondo di nuovo in subbuglio per affari tutti suoi. E' questo che fa male oggi a vedere: che l'avversario di classe non se la passa bene e non riesce a far star bene la gran parte dei suoi subalterni, e tuttavia i suoi problemi sono tutti relativi ai rapporti tra le sue parti interne. In fondo anche la forza-lavoro era parte interna del capitale, ma quando smetteva i panni di produttrice di plusvalore e assumeva la veste di realizzatrice di valore politico, minacciava, come si diceva, l'ordine costituito e accennava a qualcosa d'altro e di oltre. Adesso invece le contraddizioni capitalistiche sono sempre e solo rese di conti tra pezzi delle forze dominanti, finanziarizzazione contro economia reale, liberalizzazione versus regolazione e viceversa, mercato e/o Stato, distribuzione mondiale delle risorse energetiche e quindi pezzi di mondo contro altri pezzi di mondo, dentro però un pensiero unico di rapporti sociali: comandano i padroni, privati o pubblici, e i lavoratori eseguono. Riportare il tema lavoro al centro dell'agenda politica.

Come si fa? Con chi si fa? La risposta a quest'ultima domanda sembra ovvia: con i lavoratori stessi. Tornando a conoscerli, questi sconosciuti. Tornando a farle parlare, queste persone mute. Riportando il luogo di lavoro nei non-luoghi della politica di oggi. Non mancano le ricerche empiriche. Non si parte da zero. Per fortuna le scienze sociali ci sono, non fanno difetto dati e numeri, inchieste ne sono state fatte, periodicamente, ultima quella della Fiom. Che cosa manca? Manca una lettura politica: seria, lucida, realistica, non ideologica, non passatista, non elettoralistica. Le famose trasformazioni del lavoro sono come le altrettanto famose trasformazioni del capitalismo: quando ce le siamo dette tutte, non cambia niente. Vengono i narratori del sociale a descriverci lo stato delle cose: il liquido al posto del solido, ciò che sfuma nell'aria invece di ciò che deposita a terra, il tutto che deve essere flessibile, il produrre che diventa molecolare, il potere che è dappertutto e in nessun luogo come lo spirito santo, perché è micro e non più macro, e poi l'immateriale, il cognitivo, la politica che è bìos, tagliata sulla misura dell'individuo asociale, altro che donne e uomini in carne e ossa che si organizzano per la lotta. Con santa pazienza leggiamo e ascoltiamo, attenti a non lasciarci sfuggire ciò che non sappiamo. Che fare con lo sfruttamento del lavoro? Ce lo teniamo, nascondendolo come la polvere sotto il tappeto delle buone maniere, o ricominciamo a denunciarlo, dimostrando che è questo che riunifica oggettivamente, materialmente, la forma attuale del lavoro in frantumi? O non è vero che la figura sociale di sfruttato accomuna adesso l'operaio della grande fabbrica, il lavoratore della piccola azienda di servizi, il giovane precario del call center, la ragazza laureata che fa la baby sitter, la maestra o professoressa pendolare in attesa di stabilizzazione, l'occupato a rischio vita nelle mille ditte appaltatrici, l'immigrato aiuto manovale del muratore, il tecnico ricercatore a tempo e il docente contrattista scandalosamente sottopagato, o addirittura non pagato, fino all'autonomo con partita Iva, che ha, rispetto agli altri, il privilegio di sfruttare se stesso? E si potrebbe continuare a lungo. Che cosa vuol dire lavoratore dopo la classe operaia è la stessa cosa che chiedersi che cos'è sinistra dopo il movimento operaio. Questo, sì, un problema d'epoca. Se è vero che la centralità politica dell'operaio-massa è stata sostituita dalla centralità politica del borghese-massa, allora si pone una grande questione antropologica sul terreno del lavoro umano. L'egemonia ideologica della destra - l'interesse del tuo padrone è il tuo stesso interesse e fai da te e non insieme agli altri - non si ferma davanti ai cancelli della fabbrica, come non aspetta di fronte alla porta di casa, dove abita la sacra famiglia, entra, penetra, invade, conquista, prende l'anima, se non c'è un corpo di forze collettive che la respinge indietro e le rovescia contro le ragioni di una solidarietà organizzata. La condizione materiale di lavoro subalterno - che sia dipendente o autonomo, stabile o precario - deve adesso fare i conti con questa situazione politicamente inedita, che il ceto medio non ha più bisogno di essere strato sociale separato, perché è diventato mentalità democratica diffusa. E' un velo illusorio che la presenza di un orizzonte alternativo, credibile e praticabile, ha il compito di squarciare. Ma chi denuncia oggi i mali della società? Qualche preziosa esperienza di movimento, qualche isolata mosca cocchiera di studioso, qualche rara omelia pontificale, qualche lodevole caritas di base. Manca la voce possente di un soggetto che conti e che faccia contare la sua autorevolezza armata di consenso e di pensiero. Lavoro e politica è il punto da cui ricominciare a tessere il filo interrotto di una tela di nuova organizzazione. Intorno a questo punto può nascere tutto, di discorso e di esperienze anche molteplici, ma senza questo punto non nasce niente. E' in principio una battaglia politico-culturale. Motivo che spiega perché un luogo come il Centro per la riforma dello Stato, eredità di Pietro Ingrao, si fa carico di questo tema. Siamo nel solco di una bella tradizione. Ma è una supplenza provvisoria, in attesa che l'iniziativa ritorni nelle mani della politica pratica. Certo che bisogna far parlare i lavoratori, anche in modi nuovi di conricerca. Ma bisogna anche tornare a parlare ai lavoratori, con programmi e progetti che direttamente, esistenzialmente, li riguardino. E qui le forme in cui attualmente è organizzata quella politica pratica a sinistra non funzionano, non rispondono al comando che il tema lavoro e politica innesca nella macchina operativa. Le ultime desolanti vicende insegnano. I democratici hanno parlato d'altro, l'arcobaleno non ha parlato a nessuno e non basterà il rinchiudersi in una generosa setta ereticale di rifondatori del comunismo per risolvere il problema. Una sinistra alternativa che faccia intanto quadrato intorno al campo del lavoro è necessaria e dunque occorre renderla possibile. Ma anche questo va pensato e praticato come un passaggio più che come un approdo. Una volta usavamo la formula «il mondo del lavoro». Oggi diciamo pure «il mondo dei lavori»: non cambia molto rispetto al fatto che siccome di un mondo si tratta, ci vuole una rappresentanza e una rappresentazione all'altezza. In parole semplici, in modo che anche le persone semplici capiscano, ci vuole una grande forza politica, una sinistra di popolo, radicata nel paese reale, con una fiducia di massa, sociale prima che elettorale, un moderno partito dei lavoratori e delle lavoratrici, che abbia l'orgoglio politico di nominare proprio così la cosa. Poi, si potrà anche perdere qualche battaglia, ma almeno sapendo che si sta lì a combattere una guerra giusta.

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