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Per il buon uso dell'intelletto

Alcuni presenti e futuri lavoratori e lavoratrici dell'intelletto

Se c'è qualcosa che caratterizza drammaticamente questi tempi di "crisi" è il paradosso per cui ad un dilagare di povertà, all'emergere di nuovi (o al riemergere di vecchi) problemi sanitari ed ambientali, si accompagna una immane capacità tecnologica e scientifica inutilizzata – tra macchinari e laboratori inutilizzabili perché non profittevoli o in diicoltà finanziarie, ed intelligenze lasciate a riempire le fila dell'esercito di disoccupati.

Governi "tecnici" e tecnocrati di mezzo mondo ci assicurano che tanto l'origine quanto la soluzione del problema sia a sua volta tecnico-scientifica. La loro scienza economica, che promette di rimediare agli "errori" che ha finora giustificato, ci vorrebbe assicurare il modo in cui far ripartire la crescita. Con questa si riassorbirebbe la manodopera in eccesso, i mezzi di produzione tornerebbero in funzione, e soprattutto ripartirebbe il ciclo di innovazioni che può salvarci dalle catastrofi naturali, anche questa volta promettendo di non ripetere gli errori del passato.

Perché degli effetti controproducenti del sapere e delle applicazioni tecnico-scientifiche ne è piena la storia, anche quella recente: dai pesticidi che, colpendo tanto i propri bersagli dichiarati quanto i loro predatori, son finiti per far proliferare gli agenti infestanti, ai fertilizzanti che hanno finito per erodere la fertilità del suolo;

dagli antibiotici che hanno contribuito all'evoluzione di nuove, pericolose e resistenti, malattie infettive, ai modelli fisico-matematici che, incorporati in complessi strumenti finanziari, anziché distribuire il rischio hanno finito per amplificarlo, ecc. Sembra quasi che per ogni estensione del nostro dominio su un aspetto particolare del mondo che ci circonda, ciò che abbiamo trascurato di questo ci ritorni addosso come fosse la vendetta cieca di “madre natura”.

A guardar bene però questa vendetta non pare poi così cieca: anche la catastrofe della più grave entità ha un impatto ben diverso per quell'1% (ma anche dieci o venti) che ha straordinari mezzi materiali per far fronte ad ogni imprevisto, rispetto a quel 99% (ma anche novanta o ottanta) che è praticamente in balia del vento. Ben diverso è, ad esempio, l'impatto di un agente infettivo per chi ha il proprio jet privato con cui spostarsi in giro per il mondo, a disposizione le più avanzate cure mediche, cibo sano e "biologico", rispetto a chi ha il sistema immunitario già stressato da un lavoro estenuante, un ambiente vitale inquinato e ben poche possibilità di spostarsi senza perdere il poco che ha.

D'altronde questi ultimi sono abituati a subire sulla propria pelle anche gli effetti immediati e desiderati del sapere scientifico: basta chiederlo agli operai dello stabilimento Fiat di Pomigliano, i cui movimenti sono cronometrati e ritmati dall'applicazione di minuziosi studi ergonomici; oppure ai facchini dei magazzini che smistano le merci di mezza Europa, dove l'introduzione di macchinari innovativi non serve a diminuire e distribuire i carichi di lavoro, ma a licenziare alcuni e spremere maggiormente gli altri. In generale a tutti quelli che nel diritto formale alla proprietà privata trovano la privazione reale della propria vita. Diritto affermato con la forza di sempre più avanzati e tecnologici apparati di controllo e repressione.

Paradossalmente è proprio a questi che si chiedono i maggiori sacrifici in nome di quella stessa crescita e di quello stesso sviluppo che li spreme, li licenzia, li incarcera.

Nelle pur innegabili differenze, in quanto studenti/esse e ricercatori/ici noi siamo tra questi. Noi che passiamo il nostro corso di studio sbattuti tra uno stage e l'altro, con borse di studio sempre più carenti, magari costretti a dividerci tra mille lavoretti; noi che spesso spendiamo intere nottate in laboratorio o a scrivere articoli che poi non potremo neanche firmare, magari neanche pagati; noi che veniamo valutati secondo i "crediti" ottenuti, da test a risposta multipla, o da indici bibliografici, al di là di cosa effettivamente staremmo producendo. Anche a noi vien detto che la nostra abnegazione ed il nostro sacrificio è al servizio di un benessere generale che l'avanzamento scientifico porta inevitabilmente con sé.

Quando però questo ha significato accettare ulteriori tagli ai servizi, peggioramenti nelle condizioni contrattuali, inasprimento delle valutazioni, abbiamo detto di no. Quella stessa realtà che saremmo chiamati a conoscere sempre più dettagliatamente nel nostro potenzialmente infinito lavoro di ricerca, ci ha costretto ad agire. Anziché a fornirne una rappresentazione siamo stati chiamati ad intervenire dentro di essa, consapevoli che spesso non decidere in fretta significa farsi decidere per sempre. Purtroppo non è sempre una buona consigliera quella pazienza che pretendono di insegnarci nei laboratori e nella aule universitarie, e che nei fatti ci costringono ogni giorno a violare imponendoci tempi sempre più stretti.

Con le nostre lotte qualcosa abbiamo ottenuto, altro abbiamo perso, molto rischiamo di perdere nel futuro se non teniamo alta la guardia. Per farlo, oltre all'inevitabile e necessaria resistenza quotidiana, c'è bisogno di cominciare a guardare più in là, cominciando chiedendoci come e per cosa lavoriamo e studiamo.

Perché l'illusione di esser padroni del frammento specialistico su cui si concentrano avidamente le nostre ricerche, nasconde il fatto che siamo in realtà impadroniti dalla divisione del lavoro che ce lo pone davanti e che ci consegna i mezzi tecnici per indagarlo. Questo sta alla base della nostra fungibilità, che ci rende facilmente sostituibili da altri uguali a noi, sempre più addestrati ad una risoluzione via via più automatizzata degli enigmi che si propone di risolvere la "scienza normale". Costituisce quindi anche la base reale di quella che chiamiamo precarietà. Al contempo, proprio la ricerca ossessiva della rappresentazione più minuziosa ed oggettiva di un frammento del mondo che ci circonda – che lascia ad altri dipartimenti, gruppi di ricerca, università l'indagine sugli altri frammenti a cui questo si lega – e la deresponsabilizzazione rispetto agli effetti che queste ricerche possono avere; proprio questo costituisce la base per cui apparenti conquiste (forse per alcuni reali) possono tradursi in devastanti Nemesi (tali soltanto per gli altri). In nuove catastrofi decretate ancora una volta come naturali, così da richiedere ulteriori investimenti nella ricerca per essere risolte e contemporaneamente giustificare l'ulteriore spremuta di studenti e ricercatori per farlo.

Lasciarsi rapire dalle specificità delle singole questioni, allora, può al massimo produrre soluzioni parziali foriere di nuovi problemi nell'immediato invisibili. L'inesauribilità delle problematiche da affrontare, garantisce l'illimitatezza di principio tanto del carico di lavoro che ci è imposto quanto dell'uso dei mezzi di cui questo si serve. Fino a quando è giusto costringerci a nottate nei laboratori? Fino a quando è giusto torturare cavie? Fino a quando è giusto investire in strumenti costosi e velenosi da produrre? Sempre.

La scienza non lo dice, ma lo fa: ponendoci di fronte a continui nuovi problemi da indagare sempre più dettagliatamente con strumenti sempre più complessi a loro volta in grado di aprire nuove strade, che possono portare poi alla costruzione di nuovi strumenti.

Fino a quando. Per cosa. Per chi. Queste sono limiti che dobbiamo saper porre noi. Noi che la scienza la subiamo facendola – in quanto lavoratori e lavoratrici intellettuali persi tra turni infiniti e ripetitivi –, unendoci a quelli che la fanno subendola – cioè tutti quei lavoratori e lavoratrici manuali che rendono materialmente possibile l'apparato tecnico-scientifico che a sua volta li schiaccia.

Affrontando scientificamente i limiti e gli scopi della produzione materiale ed intellettuale. Che significa innanzitutto indagare i limiti della scienza per come attualmente la conosciamo – quindi operare una critica dell'attuale produzione accademico-scientifica. Ma che obbliga altrettanto ad una pratica che promuova strumenti diversi in grado di superarli.

In che modo farlo concretamente dipende solo da noi.

Alcuni presenti e futuri lavoratori e lavoratrici dell'intelletto

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