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Il cielo in disordine è caduto sulla terra

di Commonware

0. C’è differenza tra l’ideologia e un ordine del discorso. Proviamo a rendere questa astrazione storicamente determinata, cioè politicamente utilizzabile. La divisione tra “fannulloni e start-up” affacciatasi sui media dopo il #19o ha evidentemente delle componenti ideologiche, ma queste poggiano su una base materiale costituita dai processi di segmentazione dentro la composizione di classe.

In questo senso l’ordine del discorso organizza i lessici e le retoriche del potere rispetto a una situazione concreta, è un dispositivo che fa apparire come neutrali quelli che sono interessi di parte, irreversibile ciò che invece dipende dai rapporti di forza e dunque è trasformabile. Allora, non si tratta semplicemente di disvelare la verità, ma di produrla.
 

1. Un dato di fatto, tanto per cominciare: come è stato sottolineato nel nostro dibattito, in Italia la consistenza effettiva delle start-up è trascurabile, potremmo dire che si tratta di un fenomeno marginale. Ma in questo caso più che il significato conta il significante, ovvero quella riproposizione di un lessico meritocratico che nella sua forma originaria (quella che è stata un problema reale dentro l’Onda, per intenderci) non è più riproponibile.

Non lo è perché in mezzo ci sono altri cinque anni di crisi, l’approfondirsi – o meglio l’irreversibile stabilizzazione – dei processi di declassamento e precarietà, l’ulteriore crescita della disoccupazione. I contributi al dibattito sottolineano la fine della leggenda del self-made man o woman: “sotto i colpi dell’austerity, l’attrattiva calvinista sembra definitivamente fiaccata”. Mentre il capitalismo cognitivo, sempre più parassitario nei processi di estrazione del valore, rovescia l’accusa di parassitismo sui neet, cioè su coloro che producono la ricchezza sociale quotidianamente catturata.

All’esaurirsi – almeno su numeri consistenti – del compenso che attende il sacrificio del duro lavoro dei meritevoli, corrisponde però un allungamento dei processi di stratificazione. Si stratificano le posizioni salariali e occupazionali. Si stratifica, per certi versi soprattutto, la percezione dello status legata a quelle posizioni, intendendo per status l’insieme degli elementi attraverso cui si produce oggi la soggettività capitalistica del lavoro vivo. Quante volte abbiamo sentito durante le mobilitazioni universitarie i ricercatori affermare di non poter fare sciopero perché il loro non è un lavoro bensì una “missione”? E precari cognitivi accettare condizioni di ipersfruttamento, fino al lavoro gratuito, pur di fare “quello che mi piace”? Oppure figure con un titolo di studio elevato lamentarsi per essere “trattati come lavavetri”? Lasciamo stare che spesso quei “lavavetri” hanno titoli parimenti elevati, il punto qui da sottolineare è che nell’esplosione della forma-salario tradizionale, la percezione dello status sempre più è una sorta di “salario psicologico” che sostituisce una parte consistente del salario monetario, talora addirittura tutto (qualche anno fa all’Università di Bologna bandirono contratti di docenza a zero euro).

In questo quadro, vi sono al contempo processi di stratificazione e di omogeneizzazione. A omogeneizzarsi è tanto la dipendenza della forza lavoro singolare dalle reti cooperative, quanto l’impoverimento complessivo, in termini di reddito e di capacità. E anche chi non è povero, sempre più è esposto al rischio dell’impoverimento. Si moltiplicano le storie di dirigenti e piccoli imprenditori (in una prima fase anche i manager della finanza) che precipitano, da un giorno all’altro, dai paradisi di profitti e rendite agli inferi della disoccupazione (l’Argentina del 2001 o la Grecia degli ultimi anni descrivono un contesto in espansione). Diventano tanto comuni dall’essere uscite dall’eccezionalità che nel passato era consegnata a film e romanzi. Mano a mano che si omogeneizza, tuttavia, la forza lavoro si stratifica e si spezzetta. I dispositivi di segmentazione della forza lavoro cognitiva (intendendo con questo termine un processo complessivo, in cui il sapere diventa nervo centrale del lavoro vivo e dell’accumulazione capitalistica, della cooperazione e dello sfruttamento) sono sempre meno aderenti alle competenze formalizzate. Anzi, lo stesso skill – supposta unità di misura della forza lavoro cognitiva – diviene interamente artificiale.

Di recente su un’affollata linea della metropolitana di Parigi è entrato un giovane francese, meno di trent’anni, a chiedere l’elemosina. Per farlo, ha recitato il proprio curriculum: titoli di studio, diploma, laurea, master, competenze riconosciute. Nella crisi la meritocrazia assume un’immagine grottesca e drammatica, gli skill servono – se servono – per dimostrare di meritare la carità. Quando si dice rottamazione del general intellect non si sta usando solo una metafora. Così, dopo che l’ex sindaco di New York ha consigliato ai giovani senza belle speranze di abbandonare gli studi e dedicarsi a imparare un mestiere, per esempio quello di idraulico, Carlo Petrini – simbolo della buona coscienza di sinistra – festeggia su un recente numero de L’Espresso dall’enfatico titolo “Green University” la crescita delle iscrizioni alla facoltà di agraria. Finalmente i giovani tornano alla madre terra! Ci tornano però carichi di saperi, coniugando così tradizione e innovazione. Poco conta per gli amanti bipartisan del politically correct alimentare che dietro alla multinazionale dello slow ci siano ritmi e forme di sfruttamento che nulla hanno da invidiare a quelle del fast. Ciò dimostra che saperi e cognitivizzazione sono oggi paradigmi e fili conduttori anche di processi di parziale “reindustrializzazione”. Non si tratta cioè di un mero ritorno all’industria, manifatturiera o agricola, bensì della moltiplicazione di dispositivi di banalizzazione delle conoscenze e dei ruoli produttivi funzionali ad aumentare la gerarchizzazione, e perfino appunto la rottamazione, del lavoro cognitivo. Quel giovane della metro parigina, high skill e no wage, ci parla allora e fuori di retorica della condizione del lavoro vivo contemporaneo.
 

2. Se dal punto di vista dei dispositivi di stratificazione è un compito relativamente semplice mostrare come essi poggino su processi complessivi di impoverimento, di declassamento e di attacco alle condizioni di vita di quello che una volta era definito ceto medio, dal punto di vista politico è molto più difficile comporre in una direzione radicalmente differente soggetti che nella crisi vengono al contempo accomunati e disgiunti. Lo abbiamo visto anche nelle narrazioni post-#19o, questa volta dall’interno di una parte dei movimenti. Si è in questo caso riprodotta, magari in modo inconsapevole, la retorica degli “sfigati” e dei “creativi”, i primi – occupanti di case, migranti, giovani delle periferie – che si esprimono in modo rozzo e cercano di soddisfare i propri bisogni sul piano locale, gli altri che si nutrono di tecnopolitica e hanno una vocazione immediatamente europea. A questa divaricazione corrispondono ovviamente specifiche figure del lavoro, che vanno dal proletariato “no future” al cognitariato non riconosciuto per le proprie capacità.

Ci sembra che queste narrazioni siano il frutto avvelenato di un’ossessione che da tempo, dal declino della centralità dell’operaio-massa e dalla difficoltà dell’operaio sociale di incarnarsi dentro processi di lotta e organizzazione, circonda la nostra riflessione e pratica politica: la ricerca del soggetto centrale, oppure – in modo speculare – l’ansia di ribadire che esso non esiste più. Sarebbe ora di uscirne. È vero, la continua ricerca di un soggetto centrale rischia di non tenere adeguatamente conto delle trasformazioni del lavoro, soggettive e non solo “oggettive”. Se poi diventa un’operazione da laboratorio, in assenza cioè di quelle lotte o movenze concrete con cui quel soggetto si esprime, rischia di riproporre una problematica identità tra composizione tecnica e politica, come se la seconda fosse un calco rovesciato della prima. D’altro canto, però, dobbiamo stare molto attenti a non cadere nella trappola opposta, quella per cui l’eterogeneità del lavoro vivo non permette più processi di ricomposizione (che è, concettualmente e politicamente, tutt’altra cosa dall’omogeneizzazione). Questa immagine ci conduce alla classica notte in cui tutte le vacche sono nere, in cui cioè non esistono differenziali di potenza tra le lotte e i soggetti che le incarnano. Quando proponemmo di “spacchettare” la precarietà, intendevamo questo: da un lato evitare un’immagine omogenea del precariato, analizzando i dispositivi di segmentazione che lo attraversano e continuamente modificano; dall’altro, immaginare come – a partire da questa realtà – è possibile distruggere questi dispositivi e costruire spazi comuni di soggettivazione. Le gerarchie tecniche della forza lavoro non possono essere combattute ribaltandole simmetricamente in gerarchie politiche (per cui le figure centrali nei processi di accumulazione diventano automaticamente quelle centrali nelle lotte), né astraendosi ideologicamente, immaginando quindi un piano di orizzontalità naturale segmentato dal capitale e dunque semplicemente da restaurare. Le gerarchie politiche, ovvero i differenti potenziali di incidere dentro e contro i processi di valorizzazione capitalistica, non dipendono meramente dalla condizione oggettiva ma innanzitutto dalla forza soggettiva, o meglio dalla possibilità costituente e di rottura che i soggetti collettivi praticano a partire dalle proprie collocazioni produttive e riproduttive.
 

3. Negli ultimi mesi la dimensione “spuria” che avevamo a suo tempo individuato come caratteristica della crescente conflittualità nella crisi si è amplificata. Quella caratteristica diventa bastarda e contraddittoria: in Ucraina ci sono, tra i molti, ultranazionalisti che erigono barricate per l’Europa, in Italia i “forconi” – commercianti, autotrasportatori, piccoli agricoltori, artigiani, un ceto medio delle professioni e della piccola imprenditoria tradizionale colpito duramente dalla crisi e dal debito, a cui si sono uniti in alcune piazze del #9d studenti, precari, giovani delle periferie, talora migranti, magari con bandiera tricolore al seguito, mentre c’era ben poco o quasi niente lavoro dipendente – utilizzano pratiche e linguaggi dei movimenti per claim spesso corporativi e per qualcuno in odore di reazione. Le categorie di lettura tradizionali rischiano qui di essere fuorvianti: o meglio, possono forse parzialmente funzionare per descrivere la situazione, certamente non per trasformarla (sull’esigenza di capire i cosiddetti “forconi” fin dalla loro nascita in Sicilia si veda l’articolo di inchiesta militante di Giorgio Martinico e Melina Tomasi). Siamo rassicurati nelle nostre identità a bollare come fascista la “sollevazione” del #9d, ma la conseguenza che ne dovremmo logicamente trarre è che c’è un pezzo significativo del ceto medio declassato o in via di impoverimento, e più in generale l’“uomo indebitato”, che ha come sbocco naturale la reazione. Così come, a proposito del M5s, si era ritenuto che in blocco i precari di prima generazione trovassero nel populismo la propria forma specifica di soggettivazione, oppure che il nichilismo individuale fosse il destino inevitabile di quelli di seconda generazione. Ancora una volta, ritorna la contrapposizione tra un’elite di “creativi” e una massa di “feccia” (che, tra l’altro, come il #9d dimostra usa la rete e le nuove tecnologie altrettanto bene e talora in modo ancora più efficace degli altri). Ma se così fosse, che fare? Attestarsi sugli argini della difesa dei residui margini costituzionali democratici, commettendo quindi lo stesso tragico errore che consentì al fascismo di imporsi quasi un secolo fa? Se invece, come crediamo, in questa situazione non ci si può orientare con quelle bussole arrugginite, dovremmo renderci conto che probabilmente si tratta di frammenti di società che, senza avere al momento la capacità di uscire dal proprio essere frammenti, iniziano però ad affermare “non pagheremo caro, non pagheremo tutto”. Non è affatto sufficiente, ci mancherebbe. E i tratti inquietanti sono lì sotto i nostri occhi: non solo la presenza di organizzazioni di destra, ma soprattutto il rischio che ogni frammento scarichi sull’altro, tendenzialmente quello che sta più in basso, il proprio desiderio di cambiare le proprie condizioni di vita. Nella crisi la composizione di classe è più che mai mostruosa. Ma dietro l’estetica filosofica del concetto, dobbiamo confrontarci con l’asprezza maledettamente materiale del mostro. E dentro il suo corpo impuro per definizione, trovare e costruire i fili soggettivi attorno a cui annodare le tracce di una nuova composizione. Ci piacerebbe che i movimenti venissero fuori belli e pronti, come Minerva dalla testa di Giove; ma se – come stiamo tentando di fare passo a passo – ci confrontiamo con l’insorgenza in Brasile, evento che in molti si sono affrettati a celebrare e poco a conoscere nel suo sviluppo, troviamo possibilità e problemi comuni.

É qui dentro che il “lavoro della talpa” può e deve trovare i propri canali e percorsi. Il #19o non abbiamo festeggiato la sua emersione alla luce, ma ci siamo detti che stiamo scavando nella giusta direzione. La strada è ancora lunga e tortuosa. E tuttavia, il nostro sforzo deve essere quello di scorgere profili e tendenze dei movimenti a venire dentro le lotte del presente. Per esempio, le cinque giornate di Genova ci dicono con chiarezza che anche claim apparentemente di categoria assumono immediatamente un carattere metropolitano, laddove l’aziendalizzazione e finanziarizzazione dei servizi (indipendentemente dal loro statuto giuridico pubblico o privato) è un tratto comune della città contemporanea. Dovremmo quindi partire dalle cose che già ci sono, per quanto forniscano segnali ancora precari, instabili e ambigui. Sono solo belle parole? Karim, avanguardia di lotta all’interporto di Bologna, ha di recente scritto un post su facebook per commentare le foto dei continui picchetti che bloccano il sistema della logistica: “Vi giuro che il direttore di Arco Spedizioni scarica e carica le casse con -2 gradi mentre i lavoratori si scaldano fanno la grigliata e ascoltano la musica. Non è questo il comunismo?”. Abbiamo davvero un gran bisogno di continuare a imparare, con umiltà, le straordinarie lezioni quotidiane che ci vengono dalla lotta e dall’odio di classe.

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