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sinistra aniticap

Ahimè!, s’è persa la classe

di Diego Giachetti

Quando si nomina la parola classe sociale è prevedibile l’obiezione di chi fa notare la necessità di declinare il concetto con quello di composizione di classe, nel senso che le classi sociali, definite dal posto che occupano all’interno di dati rapporti di produzione, sono dei “contenitori” il cui contenuto varia storicamente col variare del modo di produzione. Mutano le forme di organizzazione sociale e tecnica del lavoro, inevitabilmente nuove generazioni sostituiscono nelle classi quelle vecchie, tende a variare la composizione di genere, etnica, dovuta ai flussi migratori. Attualmente però l’obiettore della composizione di classe non mira unicamente a porre questa doverosa precisazione. Più che alla composizione di classe, a ben vedere, punta a una scomposizione della classe; assume cioè quelle variabili prima indicate per dire che il concetto di classe sociale è vuoto: perché si dà una classe solo se lotta e se ha piena coscienza, altrimenti no; perché oggi l’identità di classe, scomposta in altre identità, ha rotto i vecchi confini e ne ha tracciati di nuovi.


Intermittenza e dissoluzione della classe lavoratrice?


Chi ritiene che una classe sociale, in questo caso il movimento dei lavoratori salariati, esista solo nella misura in cui ha coscienza di sé e la esprime attraverso la costituzione di sinergie organizzative politiche, sindacali, associative e culturali ha risolto il problema. Poiché oggi le organizzazioni dei lavoratori o sono in crisi profonda, oppure sono sotto l’influenza delle idee della classe dominante, si deduce che quella narrazione ha cessato di esistere e, evidentemente, con essa il soggetto narrato. Il proletariato non è più rosso lamentano, quindi non esiste più.


Decostruzionisti volenterosi e narratori postmoderni si mettono all’opera per dimostrarci che il movimento operaio era una costruzione della narrazione novecentesca. Il dubbio è insinuato: esso è esistito in quanto tale o solo nella forma di un racconto? Se è stato solo un racconto allora altro non era che una soggettivizzazione, una personalizzazione interpretativa, una narrazione appunto. Che fare? Lo si può rinarrare in modo diverso, decostruendo la vecchia narrazione al fine di dimostrare che era sbagliata e quindi negando di fatto i presupposti narrativi coi quali si era rappresentato. Si dovrebbe tener conto invece di un detto semplice e banale, ma non per questo condiviso. Quella narrazione è finita perché la voce narrante che le aveva dato vita è stata zittita e/o trasformata dalla crisi che ha investito l’oggetto del racconto. La nuova narrazione non è un’invenzione della creatività letteraria, un’intuizione soggettiva del “nuovo”, una nuova idea, è un adattamento interpretativo a un soggetto sociale oggi poco visibile e modificato anche nella sua coscienza la quale riflette i mutamenti indotti nelle forme del lavoro.

Dal dato reale di un movimento operaio in permanente trasformazione bisogna invece partire, per non incorrere in quella che Marx ed Engels descrivevano come lotta di idee, dominazione dei pensieri. Gli uomini e le donne del Novecento si sarebbero fatte «idee false intorno a se stessi», intorno a ciò che essi sono o devono essere «basterebbe quindi insegnare loro a sostituire queste immagini con pensieri che corrispondono all’essenza dell’uomo e togliersele dalla testa»1. Così le nuove idee e/o narrazioni farebbero a pezzi la realtà considerata una forma ossessiva di pensieri sbagliati.

Tale ipotesi interpretativa ha inizialmente condiviso l’assunto che le classi e con esse il movimento operaio siano soggetti sociali in permanente trasformazione, legate come sono a quello che Marx definisce una formazione economico sociale storicamente determinata. Successivamente però, sull’onda del riflusso della lotta di classe delle classi subalterne, hanno sposato l’idea dell’intermittenza. Poiché sono drasticamente diminuite le manifestazioni di massa attribuibili a una data classe, poiché la lotta di classe è diventata meno visibile, si deduce che non esiste e più il movimento operaio e lo stesso proletariato arranca faticosamente nella moltitudine. E’ una conclusione singolare e paradossale.


Borghesia e basta?


E’ singolare infatti che nel dibattito sulle classi sociali, l’attenzione critica e scompositiva del concetto di classe sia tutta rivolta nella sola direzione dei ceti sociali subalterni. Quando ci si chiede se esistono le classi sociali, specificatamente si pensa agli operai, ai lavoratori, al proletariato. Raramente alla borghesia, alla classe dominante. Quest’ultima indubbiamente gode di ottima salute. Attualmente essa governa il mondo ed è

«formata da capi di governo, ministri, politici di rango; dirigenti al vertice delle maggiori corporations; accademici, tra cui molti economisti e qualche politologo; rappresentanti delle maggiori società di ricerca e consulenza industrial-finanziaria. Si tratta di una classe straordinariamente omogenea, poiché oltre ai comuni interessi economici e politici che li legano i suoi membri fungono da terminali operativi delle reti composte dalle maggiori corporations e dalle loro sussidiarie, occupano un gran numero di cariche direttive in corporations di nazionalità diversa dalla loro; hanno in genere la medesima formazione universitaria e post-universitaria; parlano lo stesso linguaggio – quello del business schools e dei consigli di amministrazione di tutto il mondo – e […] incontrano quasi esclusivamente i membri della stessa classe»2.

Il paradosso invece sta in questa domanda: come può esserci una classe dominante se non ci sono classi subalterne o sottomesse? Perché una classe sia dominante occorre ci sia almeno una o più classi subordinate. Che dire? La nuova narrazione risolve brillantemente con la perentoria affermazione che la classe lavoratrice, il proletariato è e non è una classe. E’ classe solo quando la sua coscienza corrisponde con la realtà della subordinazione e dello sfruttamento, altrimenti non è. O percepisce la propria posizione di classe e la rifiuta oppure non è classe, ma mucillagine frammentata, sconfitta, alla deriva, debole e dimostratasi incapace di essere all’altezza del compito che la filosofia della storia gli ha assegnato, “fottuta” dalle burocrazie sindacali e partitiche. Facendo propria solo una metà del ragionamento dello storico Thompson definiscono classe solo quel gruppo di «uomini che per effetto di comuni esperienze (ereditate o vissute) sentono ed esprimono un’identità di interessi sia fra loro, sia nei confronti di altri gruppi, con interessi diversi e, solitamente, antitetici»3.

Il proletariato, il lavoratore esiste solo nella misura in cui ha coscienza di essere tale? Esasperando in senso affermativo la risposta si precipita in una confusione fra quello che c’è e quello che si sa, così pensando s’afferma il primato dell’interpretazione secondo cui non esistono i fatti, le classi in questo caso, ma solo le interpretazioni e le coscienze. Com’è possibile interpretare se non c’è nulla da interpretare? Perché si produca interpretazione è necessario ci sia qualcosa da interpretare. Se non c’è autocoscienza interpretativa non c’è proletariato nè lavoratore? Possono esistere soggetti, gruppi, classi senza coscienza?. Sì, se si pensa che la coscienza sia il frutto di idee che vanno e vengono, che a volte ci sono e a volte no. La classe è quindi intermittente, va e viene come la luce di una lampadina mal avvitata.

Una classe non è né un’idea né un mero aggregato numerico, è una realtà vivente prodotta dai rapporti sociali di produzione, essa elabora pensieri e orientamenti non sul nulla ma sulla base delle condizioni sociali ed economiche che è costretta a vivere quotidianamente. Questa è la base reale su cui crescono le soggettività operaie, la cultura della solidarietà e la necessità dell’unità che possono esprimersi dai livelli minimi, ai tentativi di costruzione di coalizioni di resistenza elementari, fino a forme più organizzate e strutturate. Non a caso il già citato ma dimezzato Thompson prosegue affermando che l’esperienza di classe ha sempre un fondamento strutturale, «è determinata, in larga misura dai rapporti di produzione, nel cui ambito gli uomini sono nati – o vengono involontariamente a trovarsi»4, parole che riecheggiano l’assunto di un avversario del marxismo stesso, qual era Max Weber, il quale riconosceva che far parte di una classe sociale significa appartenere, al di là della propria coscienza e volontà soggettiva, ad una comunità di destino, e «subire tutte le conseguenze di tale appartenenza»5. Le comunità di destino, come le classi, sono le basi entro le quali gruppi di persone, che vivono le stesse esperienze, sentono un’identità di interessi.


Ma cosa sono le classi sociali?


Non solo non ci sono più le classi di una volta, mancherebbero le classi stesse. L’involucro che le rappresentava (capitale, borghesia, proletariato, dominanti e dominati) è lessicalmente obsoleto e quindi tutto è cambiato: un proletario o un capitalista può essere donna, gay, immigrato, proprietario, salariato, occupato, disoccupato e così via. Non è un’idea poi così nuova. Il sociologo Gerhard Lenski, negli anni Sessanta, riteneva che ogni membro della società si collocasse simultaneamente in qualche gruppo all’interno del sistema occupazionale, di proprietà, etnico-razziale, educativo, di età e sessuale. In questo modo le classi diventano unicamente un dimensione classificatoria mobile, a geometria variabile senza analisi delle leggi di movimento che governano i rapporti tra le classi nel quadro di un’economia e società capitalistica con le sue contraddizioni e distorsioni. Un’impostazione di quel tipo non è adatta a spiegare il modo in cui agiscono (o perché non agiscono) le classi sociali. Le loro azioni o non azioni tendono a non avere più significato, né possono essere spiegate poiché si presume che gli individui siano separati dagli altri sulla base di appartenenze a sistemi classificatori diversi: occupati, disoccupati, luogo di lavoro, redditi, professione, grado di scolarizzazione, età, sesso, gruppo religioso, etnico, ecc.

Una simile descrizione del panorama sociale è tipica della narrazione postmoderna, frammentata, soggettiva, neoliberista e ben si adatta a mettere in ombra o a evitare del tutto il tema dell’esistenza delle classi. Si dimentica infatti che esse esistono perché esiste un contesto storico concreto dato dall’odierno capitalismo rampante e globalizzato che produce e si regge su rapporti sociali di produzione i quali sovradeterminano quelli che il linguaggio alla moda chiama processi moltitudinari. Le classi e la lotta di classe, per dirla con Daniel Bensaid, «non sono solubili nel caleidoscopio delle appartenenze identitarie o comunitarie. Respinta sulla difensiva dalla controriforma liberale, la classe lavoratrice è diventata invisibile […]. Questa classe tuttavia non è scomparsa»6, si è trasformata nella sua composizione ed è decisamente in crescita se considerata nello spazio-mondo, come il capitalismo globalizzato ci impone di trattare.

Ammesso quindi che le classi esistono, come si trovano? Gettate via le mitologie operaie del Novecento, scoperto che Marx sul tema ha prodotto solo un gran pasticcio interpretativo (sic!), – e Lenin con la sua definizione di classi sociali ha complicato solo le cose -, ai ricercatori della classe perduta non resta altro da fare che “viaggiare” nel sociale alla ricerca di essa dopo aver strappato lo specchietto retrovisore, tanto dalla storia non viene alcuna indicazione, guardando avanti e sperando in qualche lepre o gatto (si spera non nero) che attraversi la strada del paesaggio sociale e fornisca qualche indicazione circa la presenza della classe finora non trovata.


Le classi senza Lenin


Per non infastidire chi lo ha già chiuso nel Pantheon dei grandi del Novecento, non ricorrerò alla definizione di classe di Lenin, ne userò un’altra: «Un’interpretazione dinamica delle strutture di classe richiede che vengano presi in considerazione almeno tre punti di riferimento: una definizione del fondamento o base della classe come categoria oggettiva, indipendentemente dalla coscienza degli attori; una scelta delle dimensioni o indicatori della posizione di una classe nella struttura di cui fa parte; una teoria della motivazione di classe»7. Detto in altri termini ciò che caratterizza le classi è la loro posizione rispetto ai mezzi di produzione; il posto che occupano nella divisione e nell’organizzazione del lavoro; la strategia politica che si danno (o non si danno) per governare o per opporsi a chi governa. In termini più narrativi le classi si possono definire con tre verbi: essere, sentire, conoscere. Essere come esistenza data dalla comunità di appartenenza e dai rapporti sociali di produzione; sentire come esperienza vissuta in quel contesto dato; conoscere come coscienza acquisita della propria posizione da cui discende il movente dell’azione politica organizzativa.

Se prendo separatamente i tre punti e mi diverto a ingrandirne solo uno, ecco che avrò buon gioco a dimostrare che la postmodernità e il frammento hanno vinto e che nell’attuale condizione le classi sociali altro non sono che una varietà di fatti disparati e sconnessi, sia per esperienza sia per coscienza: quindi sarebbe arbitraria ogni categoria o classificazione strutturale perché esse non esisterebbero al di fuori dell’ attiva percezione di essere una classe. Se le classi, quelle subalterne in particolare, sono mute e scomposte, dipende dalla configurazione dei rapporti di produzione capitalistici: «l’individualizzazione dei salari e la flessibilità degli orari di lavoro favoriscono una disintegrazione delle solidarietà e un indebolimento dell’organizzazione collettiva della forza lavoro»8. Lo aveva già segnalato anche Marx: «La concorrenza isola gli individui, non solo i borghesi, ma ancor più i proletari, ponendoli gli uni di fronte agli altri, benché li raccolga insieme»9. La divisione tra i proletari è dovuta al fattore esterno della concorrenza, non è nella natura stessa della classe, anzi «in maniera istintiva e normale, i salariati lottano per la cooperazione e la solidarietà collettiva»10. La concorrenza li isola e contemporaneamente li raccoglie assieme anche se ciò non significa renderli immediatamente omogenei nell’esperienza e nella coscienza, vuol dire solo che si danno basi strutturali alla solidarietà tra gli sfruttati: «malgrado tutte le segmentazioni inerenti alla classe lavoratrice –tutti i fenomeni ricorrenti di divisione, secondo linee di funzione, nazione, sesso, generazione, ecc.- non ci sono ostacoli strutturali intrinseci alla solidarietà generale di classe tra i lavoratori sotto il capitalismo. Ci sono soltanto differenti livelli di coscienza, che rendono più o meno difficili, più o meno diversificata nello spazio e nel tempo, la conquista di questa solidarietà generale di classe»11.

Trent’anni di lotta delle classi dominanti contro le classi dominate, con annessi i conseguenti mutamenti nella struttura economica capitalistica, hanno eroso la dimensione degli operai dell’industria, hanno macinato contratti di lavoro e garanzie sociali, hanno prodotto differenziazioni nuove e più accentuate all’interno del proletariato intaccando la solidarietà e la coscienza di classe. E tutto ciò è dipeso dalla lotta di classe, vinta in varie occasioni dal padronato, e dalla ristrutturazione organizzativa e produttiva del capitale che ha prodotto «un’accresciuta individualizzazione dei rapporti sociali»12. E’ sempre da questo, dalla produzione e dalla riproduzione della vita materiale e dalla lotta di classe che bisogna partire per trovare le classi il loro grado (o non) di solidarietà e di (o non) coscienza. Si tranquillizzino gli affannati ricercatori delle classe perduta. Purtroppo per quelle subalterne, le classi sociali «esistono ancora, sebbene siano scomparse dalla mente di quasi tutti noi; hanno come testimonianza della loro realtà lo stato del mondo in cui viviamo; e il futuro dipende da come l’interazione tra esse si evolverà»13. Ancora una volta non saranno le idee nuove che cadono dal cielo a decidere, ma la prassi della lotta tra le classi. All’interno di essa è data la possibilità alle classi subalterne di riorganizzarsi a cominciare dai livelli minimi di lotta alle quali sono costrette, riconoscersi nella solidarietà antagonista e ricostruirsi come soggetto organizzato, sinergico e costituente. Nel contributo dato alla ricostruzione di questo processo si misura la qualità e l’utilità del lavoro di una forza di sinistra pienamente coinvolta nei destini della propria classe.

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1 Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Roma, Editori riuniti, 1967, pp. 3-4

2 Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, Torino, Einaudi, 2013, pp. 76-77

3 E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Milano, Mondadori, 1962, p. 10

4 Ibidem

5 Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 4

6 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, Roma, Edizioni Alegre, 2013, p. 363

7 Luciano Gallino, L’evoluzione della struttura di classe in Italia, «Quaderni di Sociologia», n. 1, 1970, p. 121. «Si chiamano classi quei gruppi di persone che si differenziano per il posto che occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale, per i loro rapporti (per lo più sanzionati o fissati da leggi) con i mezzi di produzione, per la loro funzione nell’organizzazione sociale del lavoro, e quindi, per il modo e la misura in cui godono della parte della ricchezza sociale di cui dispongono» (Vladimir Ilic Lenin, La grande iniziativa, in Opere scelte, Edizioni Progress, Mosca, p. 499).

8 Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, cit., p. 321

9 Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 52

10Ernest Mandel, El capital, cien anos de controversias, Siglo XXI, Mexico, 1985, pp. 228-229

11Ibidem

12Daniel Bensaid, Elogio della politica profana, cit., p. 186

13 Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, cit., p. VII

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