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L’armata dei sonnambuli, di Wu Ming

Consigli (o sconsigli) per gli acquisti

Militant

L’immaginario culturale consente la costruzione di quella specifica cornice politica nella quale inserire gli avvenimenti di questo mondo, dargli un senso e una prospettiva anche se non pienamente coscienti di tutto il loro portato. Nell’epoca della modernità politica, un qualsiasi contadino analfabeta, un operaio con la licenzia media o un qualunque manovale sfruttato e apparentemente “ignorante”, non avrebbe avuto troppe difficoltà a definirsi e collocarsi socialmente. Non era automatico definire la propria posizione politica o immaginare le soluzioni per la propria liberazione, ma erano immediatamente riconoscibili le condizioni del proprio sfruttamento. Queste figure percepivano chiaramente il proprio ruolo nel mondo. Il proprio ruolo di subalterni. Se qualcuno avesse ancora voglia di leggersi le testimonianze riportate in uno dei principali libri italiani del ‘900, Il mondo dei vinti,  quella massa di contadini senza nome aveva ben chiara, molto più chiara di oggi, la propria condizione di sfruttati: da una parte i lavoratori, chi si alzava la mattina ancora immerso nel buio, dove persino il pane era un lusso, e tirava avanti fino a sera, giorno dopo giorno fino alla morte; dall’altra i padroni, cioè chi traeva profitto da questo lavoro.

Bene, se oggi raccogliessimo le stesse testimonianze, chiedendo le medesime cose non già al contadino illetterato, ma al laureato precario, abituato a ragionare su di sé e sul mondo che lo circonda, fervido lettore di quotidiani e libri, difficilmente avremmo lo stesso genere di risposte.

Quella percezione di sé nella società è completamente venuta meno, sostituita da una serie di categorizzazioni indotte, utili solo a perpetrare lo sfruttamento impedendo culturalmente di immaginarsi parte di una collettività specifica.

Cosa distingue il contadino del ‘900 dal precario degli anni duemila? Al di là della fatica fisica delle proprie mansioni (che pure conta, ma che certo non impedisce al precario di sopportare livelli di sfruttamento tipici del lavoro servile), il contadino del ‘900 intuiva la propria vicenda personale in un contesto più ampio e collettivo, e tale “cornice” era determinata proprio da quell’immaginario comune dentro il quale si ritrovavano le masse subalterne di ogni latitudine. Quell’immaginario non era altro che una costruzione politica determinata, capace di raccontare alle classi sfruttate la possibilità di un’alternativa.

Questa doverosa premessa è necessaria per approcciarsi al lavoro di Wu Ming, perché Wu Ming racconta storie particolari, singoli episodi, ancorché meritevoli di essere raccontati, ma che acquistano significato solamente per la capacità degli autori di inserirli in un determinato flusso storico, che poi è la narrazione di vicende delle classi subalterne nel loro travagliato percorso di liberazione sociale e politica. Wu Ming contribuisce cioè alla ricostruzione di quell’immaginario di classe comune, che al di là delle differenze politiche facilita il compito di percezione di sè dei soggetti sfruttati. Un compito non sistematizzato a tavolino, artificiale, di chi si pone il compito di costruire in vitro quel percorso che manca nella realtà. No, quello di Wu Ming è il tentativo di portare acqua ad un mulino più grande, di contribuire alla narrazione attraverso storie che meritano di essere raccontate.

Nel fare questo, finalmente i narratori, dopo un percorso ventennale, giungono alla madre di tutte le vicende, quella che inaugura la modernità politica e avvia quel percorso cosciente di lotta per la liberazione della classi proletarie: la Rivoluzione francese. Non è un caso che tutta la vicenda del cosiddetto revisionismo storico parta dall’attaccare non tanto la Rivoluzione in sé, ma la sua deriva giacobina, il Terrore rivoluzionario, che per un momento nella storia sembrò dovesse procedere al di là del mero controllo borghese per affacciarsi laddove non era consentito, e cioè a porre le premesse del potere politico delle classi lavoratrici. E’ proprio questo che la storiografia revisionista, di destra e di sinistra, si è incaricata di combattere. Non il passaggio di consegne da un’aristocrazia improduttiva alla più adeguata borghesia economicamente egemone, passaggio di fatto indolore e suggellato dalla decapitazione del re Luigi. Ciò che la storiografia, e dunque la politica, si sono incaricate di attaccare, è la possibilità di evoluzione di quel passaggio di consegne interno al mondo del capitale ad uno che ne prevedesse anche la fuoriuscita. Non è la decapitazione del re a rovinare i sogni della borghesia finalmente al potere, ma la decapitazione dei borghesi stessi. Per un breve periodo, tra il 1793 e il 1794, questo fatto diviene all’ordine del giorno, posto proprio da quelle classi a cui finalmente la storia aveva dato voce e capacità d’espressione.

Wu Ming ci racconta esattamente questo tornante storico, e lo fa servendosi delle vicende di particolari personaggi, che attraverso le proprie storie ci restituissero la percezione della Storia, quella con la s maiuscola. Un racconto in medias res, nel vortice degli accadimenti, nel momento più alto della Rivoluzione e un attimo prima che questa imploda su se stessa. Quel vortice dove le forze della rivoluzione e della reazione si giocano loro la partita storica. Nel costruire tale impostazione, non è possibile non riconoscere il debito inevitabile con l’opera di Victor Hugo, 1793, probabilmente il miglior romanzo sulla Rivoluzione (di tutte le rivoluzioni). Il metodo utilizzato infatti è lo stesso. Impossibile dare un riscontro oggettivo degli eventi, come se questi costituissero un blocco omogeneo in marcia. Ogni avvenimento epocale si porta dietro tante vicende personali quanti sono gli essere umani coinvolti in quegli eventi. E se c’è un insegnamento che Wu Ming ci impone da anni, è quello di non sacrificare mai sugli altari delle ragioni della Storia le vicende dei singoli individui che la determinano. Soprattutto se questi individui fanno parte di quel mondo di sfruttati che la Storia dovrebbe farsi carico di emancipare. Dunque un ventaglio di voci, ognuna capace di descrivere un pezzo di Rivoluzione.

Questo atteggiamento non scade però mai nel suo (pericolosissimo) versante opposto, quello cioè di riportare tutti gli avvenimenti ad un piano soggettivo, individuale, l’unico in definitiva (per un certo mondo liberale) ad avere importanza. Non è la descrizione di questa o quella sofferenza personale ad impedire alla storia raccontata di avere una sua oggettività, che esiste, a discapito dei suoi detrattori liberali. Insomma, se il corso della storia deve sempre essere corretto, soprattutto da se stesso e da chi crede di personificarlo, non per questo va disconosciuta una sua precisa direzione, che può essere progressiva o meno. Non è dunque la vicenda individuale, tragica quanto si vuole, ad impedire al corso della storia di avere una sua direzione, e nel caso della Rivoluzione di avere una sua giusta direzione. Un fatto, questo, per nulla scontato in un epoca, la nostra, di scientifica individualizzazione di ogni evento, mirante a scardinare esattamente quell’opera di ricostruzione collettiva di un immaginario di classe di cui abbiamo prima parlato.

Nel romanzo si sviluppano, fino ad intrecciarsi, le vicende di alcuni personaggi emblema di quei soggetti sociali che la Rivoluzione ha messo in movimento. La plebe parigina è definizione troppo vaga per essere utile a definire chi incise sulle vicende storiche qui narrate. La plebe, il popolo di Parigi, è molte cose insieme. Ci sono i lavoratori, sia piccoli artigiani che servi di questo o quel bottegaio di turno; ci sono le donne, che la Rivoluzione scopre quale soggetto politico rivoluzionario, finalmente protagoniste della Storia e non solo mera propaggine degli eventi; c’è un mondo dell’intellettualità che si schiera a fianco degli ideali rivoluzionari, nei diversi accenti possibili, dal più tiepido al più convinto della necessità del Terrore; c’è l’enorme massa senza volto di disoccupati, semi-schiavi, nullafacenti e nullatenenti, che lo sconvolgimento rivoluzionario mette al centro delle vicende, perché il cuore del potere esce dal palazzo ovattato della formalità aristocratica o borghese e diventa la strada, la piazza, le continue assemblee pubbliche, i continui cortei, l’assalto ai “monopolatori”, quella vita in comune che è il tratto caratteristico principale della Parigi del 1793. E poi c’è la controrivoluzione, i nobili destituiti da ogni carica e spogliati degli averi, il clero spodestato dal suo millenario potere. Un insieme di fatti che nel libro acquistano le sembianze di altrettanti personaggi e altrettante storie.

Stilisticamente l’opera, che nelle intenzioni di Wu Ming è il “punto d’arrivo” del loro ventennale percorso e che segna un punto di non ritorno della loro ricerca narrativa, ultima opera storica “canonica” e primo esperimento collettivo verso nuovi lidi letterari, non presenta particolari differenze rispetto ai loro precedenti romanzi collettivi. Al contrario, sembrerebbero preferire una chiarezza espositiva maggiore, una più diretta accessibilità al testo, anche laddove si divertono nel riportare dialetti o quel francese di strada italianizzato che sembrerebbe costituire la voce narrante del popolo. La vera novità messa in piedi dal collettivo di scrittori non è più quella di narrare delle storie di fantasia calate in un contesto storico reale, ma romanzare delle vicende che sono storicamente verificabili, inserirsi nei buchi della storia cercando di raccontare com’è che andò in quei passaggi in cui mancano fonti o libri capaci di raccontarci effettivamente gli eventi. In questo senso il modello seguito ci pare essere quello del loro libro 54, proprio quello in cui le vicende si inserivano in un buco informativo che le rendeva opere di fantasia “plausibile”. Forse la storia non andò così, ma non è neanche da escludere in partenza, proprio perché quelle vicende e quei personaggi non solo sono storicamente esistiti, ma potenzialmente si sarebbero potuti comportare in quel modo. Le pagine finali del libro s’incaricheranno di spiegare meglio tale tensione verso questa sorta di nuovo realismo magico.

Per quanto ci riguarda, consigliamo vivamente il romanzo, che abbiamo letto tutto d’un fiato convinti soprattutto della necessità di recuperare le ragioni della Rivoluzione. Di ogni rivoluzione.

 

Wu Ming, L’armata dei sonnambuli, Einaudi Stile Libero Big, 21 euro

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