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Lenin a Pechino?

Leggendo «Utopie letali» di Carlo Formenti

Damiano Palano

IMG00013Nel suo ultimo libro, Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna (Jaca Book, Milano, 2013), Carlo Formenti sembra tornare all’ottimismo dell’operaismo degli anni Sessanta e alla convinzione che l’estensione del capitalismo a livello globale debba produrre il ritorno al ‘classico’ conflitto tra capitale e classe lavoratrice. Proprio per questo Formenti critica le letture che ritengono che il soggetto trainante dei nuovi conflitti sia costituito dalla nuova ‘classe creativa’ prodotta dalla rivoluzione digitale, ma soprattutto attacca quelle «utopie letali» che, nel corso degli ultimi tre decenni, hanno spostato il terreno dei conflitti dal piano ‘materiale’ della contrapposizione tra capitale e lavoro al piano delle rivendicazioni ‘identitarie’ e ‘culturali’. Se questa critica ha merito di riportare l’attenzione sull’importanza dei fattori ‘materiali’, o sul ruolo che i ‘vecchi’ conflitti continuano ad avere anche nel XXI secolo, c’è però un limite nella posizione di Formenti: un limite che riguarda proprio il ruolo della dimensione ‘culturale’, e delle identità collettive, all’interno della «composizione di classe».

 

Ritorno al futuro

Nata proprio mezzo secolo fa, nel 1964, «Classe operaia» chiuse la propria esperienza teorico-politica dopo meno di quattro anni di vita, nel marzo del 1967, con la pubblicazione dell’ultimo fascicolo, che un po’ goliardicamente invitava i lettori interessati a non abbonarsi. Con quel numero si concludeva l’effimera parabola di una delle riviste fondative dell’operaismo italiano.

Ma, invece di esplicitare le motivazioni che avevano condotto a nuova lacerazione teorica, dopo quella che aveva sancito la rottura con Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi», i redattori decisero di lanciare lo sguardo molto lontano. L’editoriale di chiusura si soffermava soprattutto sul nodo del partito, perché agli occhi dei giovani operaisti degli anni Sessanta il partito non poteva più essere quello del passato, e doveva confrontarsi con la nuova realtà della classe operaia della grande industria. Ma, proprio mentre tentava di prevedere quali forme e dimensioni avrebbero assunto le nuove mobilitazioni operaie, l’editoriale si lanciava anche in una previsione quasi fantapolitica. Non si volgeva infatti solo verso quel ciclo conflittuale che di lì a poco avrebbe effettivamente cominciato a investire le fabbriche occidentali, ma proiettava addirittura lo sguardo oltre il XX secolo, articolando quello che poteva allora apparire solo un esercizio di immaginazione. Di fronte alla diffusione globale del capitalismo, alla futura industrializzazione dei paesi arretrati e alla nascita di una classe operaia realmente mondiale, argomentava l’editoriale, «la storia operaia dell’occidente sarà il racconto delle piccole storie dell’infanzia». E aggiungeva: «È spesso difficile lasciarsi convincere dai fatti elementari. L’intelligenza ha l’impressione di crollare quando scopre ciò che è ovvio. Ma dal punto di vista del suo prossimo sviluppo materiale, anche solo quantitativo, la classe operaia di oggi nel mondo non è forse appena nata? Si fa il conto di quanti miliardi di uomini si metteranno in movimento, fuori dell’Europa, fuori degli Stati Uniti. Ma chiediamoci: quante centinaia di milioni di operai di fabbrica si concentreranno in quel clima di tensione rivoluzionaria? Questa è la nuova classe operaia e non quei quattro tecnici che si vantano di produrre plusvalore spingendo bottoni. La semplice crescita di questa immensa massa di forza-lavoro industriale, e al suo interno il passaggio politico da proletari a operai, sarà essa la sfida di questo scorcio del millennio e non già l’avvenirismo tecnologico di chi vede ormai nella fabbrica automatizzata tutto il lavoro trasferito nelle macchine»[1].

Non è affatto sorprendente che Franco Berardi, commentando il recente volume di Carlo Formenti, Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna[2], abbia evocato proprio l’editoriale conclusivo di «Classe operaia»[3]. L’ipotesi al cuore del libro è infatti quella «di un’enorme espansione della classe operaia globale nell’epoca che si pretende postfordista», ossia la medesima ipotesi che veniva enunciata come prefigurazione da «Classe operaia», e che Formenti – come d’altronde i vecchi operaisti degli anni Sessanta – legge come promessa di una nuova stagione di conflittualità. Utopie letali torna proprio ad attingere alla lettura di Marx con lo stesso spirito con cui i giovani operaisti degli anni Sessanta scoprivano il Primo libro del Capitale. E Formenti sembra così davvero tornare a un modo di guardare al futuro molto simile a quello del Novecento, nel senso che la diffusione globale del capitalismo viene percepita non (o non soltanto) come una globalizzazione della miseria, o come l’annuncio di un irreversibile declino dell’Occidente destinato a precipitarci nella povertà, bensì (almeno potenzialmente) come la premessa di una radicale trasformazione sociale, che le pagine di Utopie letali non esitano a chiamare con il nome di «transizione». In questo recupero della vecchia fiducia operaista nel futuro, Formenti sembra però anche riconciliarsi con alcuni dei motivi centrali del marxismo novecentesco. Non senza un piglio chiaramente provocatorio, utilizza infatti termini ormai banditi dal lessico politico e, soprattutto, viene a discostarsi nettamente anche dalla koinè del discorso radicale, nel momento in cui torna a pronunciare la fatale parola «partito». Una parola sempre accompagnata di un’ombra sinistra, ma che non può non risultare ancora più minacciosa, dal momento che la forma politica di cui Formenti ripropone la centralità ha davvero molti elementi in comune con quella visione del partito costruita dal leninismo nei primi decenni del Novecento[4].

 È d’altronde anche per il riferimento cruciale al «partito» che Utopie letali presenta qualche tratto di notevole discontinuità rispetto al percorso precedente di Formenti. Non si tratta comunque dell’unico elemento di ripensamento auto-critico ravvisabile nell’itinerario compiuto dallo studioso, che in effetti ha progressivamente rivisto l’iniziale valutazione ottimistica del potenziale delle nuove tecnologie. Registrando le sollecitazioni del movimento cyberpunk, nell’ultimo decennio del Novecento Formenti aveva infatti guardato con convinzione all’ipotesi che effettivamente la rivoluzione microelettronica potesse dare avvio a una dilatazione degli spazi democratici e che, in ogni caso, fosse possibile una riappropriazione ‘dal basso’ delle nuove tecnologie. Certo già allora Formenti non aveva mancato di ravvisare notevoli elementi di ambiguità nella mitologia della Rete, ma – come osservava in Incantati dalla rete, un lavoro pubblicato proprio a cavallo tra i due secoli – ai suoi occhi questa ambiguità non doveva essere considerata come «un ostacolo da eliminare», bensì come «il terreno sul quale si fonda la possibilità stessa del conflitto»[5]. In questo senso, a Formenti era ben chiaro fin da quel momento come attorno alla Rete fosse cresciuta, negli anni Ottanta e Novanta, una mitologia in cui confluivano materiali vecchi e nuovi. E, nonostante contribuisse a ‘demistificare’ l’immaginario tecnologico, riconosceva, in qualche misura, la necessità di quelle narrazioni per lo sviluppo di un «sincretismo antagonista». «Dal Dio della rete», scriveva infatti alla conclusione, «ci si salva se lo si pensa piuttosto come gli dei (minuscolo plurale) della rete»[6]. E, così, sottolineava come «le strategie di resistenza del corpo, delle comunità locali e del territorio alla sussunzione da parte delle reti globali» potessero (e dovessero) alimentarsi anche di «‘piccoli miti’»[7].

Per quanto dunque la sua condivisione dell’immaginario della rivoluzione digitale fosse fin da allora tutt’altro che incondizionata, nel decennio seguente Formenti avrebbe intrapreso un percorso fortemente critico (oltre che autocritico), e la demistificazione delle rappresentazioni più entusiastiche della Rete sarebbe diventata progressivamente più radicale. I due lavori successivi – Mercanti di futuro e Cybersoviet[8] – rappresentano così le sequenze di una sempre più marcata disillusione, alla luce della quale i margini per un utilizzo ‘alternativo’ delle nuove tecnologie sembrano assottigliarsi sempre di più, mentre si affievoliscono fino a svanire del tutto le speranze che la «classe creativa», avanguardia della rivoluzione elettronica, possa diventare anche il perno del nuovo «sincretismo antagonista». In questo percorso un capitolo a suo modo definitivo è probabilmente costituito da Felici e sfruttati[9], perché in questo testo le speranze degli anni Novanta si rovesciano davvero in un pessimismo radicale[10]. La severa posizione cui giunge in Felici e sfruttati non comporta che per Formenti i progetti emersi sul finire del Novecento fossero fin dal principio privi di fondamento e ingenuamente velleitari, e che tutto fosse già scritto in partenza, ma tende piuttosto a sottolineare come riproporre quelle utopie dopo un decennio, dinanzi a rapporti di forza ormai completamente mutati, risulti oggi quasi grottesco, oltre che politicamente disastroso. «L’orizzonte del conflitto», scriveva per esempio Formenti al termine di Felici e sfruttati, «si è progressivamente ristretto alla lotta tra vecchia e nuova economica, finché quest’ultima si è installata al posto di comando, avviando un fulmineo processo di colonizzazione degli spazi sociali che la rivoluzione tecnologica aveva contribuito ad aprire»[11]. Ed è proprio a questo punto che «utopie e speranze, nella misura in cui non assumono consapevolezza del proprio fallimento, né si rovesciano in denuncia delle forze che lo hanno provocato, si trasformano nel discorso dell’utile idiota»[12].

Dopo circa tre anni il discorso svolto da Formenti in Utopie letali non è sostanzialmente differente, anche se la critica si inquadra in questo caso all’interno di una prospettiva interpretativa più ampia. Innanzitutto Formenti considera la crisi iniziata nel 2008 come il «sintomo di un irreversibile mutamento del modello di accumulazione capitalistica», che in particolare si riflette in quattro modificazioni intervenute sul terreno delle relazioni sociali: «1) nello smisurato arricchimento dei già ricchi e nel progressivo immiserimento dei già poveri e delle classi medie»; «2) nello smantellamento dello Stato sociale, accompagnato da estese privatizzazioni e dalla trasformazione in servizi commerciali di una quota crescente di attività che prima rientravano nelle sfere delle relazioni private, famigliari e comunitarie»; «3) nella frammentazione del proletariato dei Paesi occidentali e nella parallela crescita di grandi masse proletarie nei Paesi in via di sviluppo»; «4) in un’evoluzione dei sistemi politici che segna il divorzio fra mercato e democrazia: gli Stati-nazione […] si trasformano in regimi postdemocratici incaricati di gestire gli interessi locali del capitale globale»[13]. Queste trasformazioni non sono però considerate da Formenti solo il risvolto della fisiologica alternanza tra fasi di crisi e fasi di crescita, perché quella presente viene piuttosto intesa come una crisi «senza fine», «sia perché non è immaginabile un ritorno al modello di accumulazione novecentesco, sia perché le classi subalterne non potranno riconquistare rapporti di forza accettabili senza tornare a praticare forme di lotta antagonistiche, sia perché le sue proporzioni sono effettivamente tali da configurare la possibilità (non la necessità!) di una svolta di civiltà»[14]. E se sui primi due punti indicati da Formenti è probabile che ci sia un consenso piuttosto vasto, è invece soprattutto attorno alla terza ipotesi – in cui viene evocata la possibilità di una «svolta di civiltà» –  che inizia a delinearsi la specificità del discorso svolto in Utopie letali. Quantomeno perché la percezione della «possibilità» di una «svolta di civiltà» induce Formenti a esplorare il terreno della «transizione», a interrogarsi sugli strumenti politici che la renderebbero praticabile (o solo pensabile), e dunque a riflettere su uno dei grandi rompicapo della tradizione operaista, il nesso problematico tra organizzazione e composizione di classe.

 

Derive culturaliste

Nel corso di una riflessione ormai più che trentennale, Formenti ha sempre intrattenuto un rapporto polemico con il post-operaismo, e non casualmente – sin da La fine del valore d’uso[15] – in quasi tutti i suoi lavori non manca mai qualche accenno fortemente critico indirizzato alla teoria dell’operaio sociale o, più di recente, all’immagine della «moltitudine». A ben vedere, la critica rivolta al post-operaismo non è comunque mai tanto da radicale da mettere del tutto in questione la sensazione che la Formenti rimanga in fondo sempre all’interno dello stesso paradigma teorico operaista, pur articolandone una specifica versione. Ma soprattutto, al di là di alcuni elementi di continuità, i termini del confronto e della critica mutano nel corso del tempo anche piuttosto sensibilmente. Nelle pagine conclusive di Felici e sfruttati Formenti si volgeva verso Oriente, perché proprio nel travolgente sviluppo cinese venivano individuate le tracce di un ritorno sulla scena dello spettro rimosso del conflitto di classe. «Un’opinione francamente operaista», confessava allora Formenti, che non solo ritorna nel suo nuovo lavoro, ma che addirittura indirizza l’intero discorso di Utopie letali, con cui in qualche modo si conclude un percorso di riavvicinamento al marxismo: un marxismo inteso in larga parte nella sua declinazione ‘operaista’ o ‘neo-operaista’ (ma non post-operaista), e nel quale non sono assenti persino alcuni accenni che sembrano anche alludere ai canoni della tradizione ‘terzinternazionalista’[16]. D’altronde, le «utopie» cui si riferisce il titolo del libro in termini così critici sono quelle teorie radicali che nel corso dell’ultimo trentennio hanno accantonato il lessico e la strumentazione teorica propria dell’analisi marxista, e che hanno progressivamente spostato il cuore del loro discorso su un terreno ‘culturale’ e ‘identitario’. Formenti si volge così, per esempio, contro il «costruttivismo» dei cultural studies americani e contro la teorie delle identità politiche formulata da Ernesto Laclau. Ad accomunare tutte queste posizioni, secondo Formenti, è la convinzione secondo cui «la classe esiste solo come manifestazione intermittente di una soggettività collettiva di natura eminentemente linguistica»: una visione secondo cui, dunque, «quando questa soggettività non appare in grado di esprimere autoriconoscimento, essa letteralmente sparisce, si dissolve in una galassia di individui e gruppi frammentari»[17]. «Si tratta di un punto di vista che», osserva Formenti, «cancella la distinzione marxiana fra ‘classe in sé’ e ‘classe per sé’, cioè fra classe intesa come mera categoria socio-economica e classe come soggetto politico organizzato»[18]. E, sulla base di queste premesse, il conflitto di classe di fatto viene sostituito da altre rivendicazioni, centrate su conflitti i cui protagonisti stati «studenti, minoranze etniche e donne»[19].

A queste posizioni Formenti contrappone invece una tesi che riafferma la centralità della relazione capitale/lavoro, anche se è ovviamente ben consapevole che la trasformazione degli assetti produttivi rende la classe «per sé» un soggetto tutt’altro che operativo dal punto di vista politico. Dato che l’obiettivo di Formenti è, per molti versi, riproporre uno schema ‘operaista’ – e cioè uno schema che utilizza i cardini della riflessione dell’«operaismo italiano», delineati nel corso degli anni Sessanta del Novecento da Raniero Panzieri, Mario Tronti, Romano Alquati e da molti altri ‘intellettuali-militanti’ – è però quasi inevitabile che debba confrontarsi con la riflessione teorica e con le proposte politiche del ‘post-operaismo’, ossia con le proposte di quel filone che ha preso forma già negli anni Settanta, e le cui ipotesi hanno trovato una fortunata sintesi nella trilogia di Hardt e Negri costituita da Impero, Moltitudine e Comune[20]. E non è certo la prima volta che Formenti rivolge la propria critica alle tesi di Negri, perché già nelle pagine di Fine del valore d’uso, più trent’anni fa, erano prese di mira le tesi di Marx oltre Marx e di altri testi degli anni Settanta. Se Utopie letali eredita dunque questa vocazione critica, non è però difficile riconoscere un notevole aggiustamento nella traiettoria della critica rispetto a quanto sostenuto in precedenza. Al termine di Incantati dalla rete, mentre sviluppava l’idea di un «sincretismo antagonismo» e discuteva alcune ipotesi di Aldo Bonomi, Formenti non sembrava concedere infatti spazi ulteriori al concetto di «composizione di classe». Dinanzi alla realtà del nuovo capitalismo, non solo risultava improponibile «trascinare Marx oltre Marx», ma diventava a suo avviso impraticabile – o quantomeno infruttuoso –  «trascinare Marx oltre Ford». E a farne le spese era proprio il concetto di composizione di classe. In sostanza, proprio «perché il livello di unificazione del ‘soggetto di classe’ raggiunto nel corso del ciclo di lotte contro il fordismo è un fenomeno irripetibile», osservava allora Formenti, «il concetto di ‘composizione di classe’ difficilmente potrà assumere senso diverso da quello d’una metafora che rinvia alla memoria storica dei movimenti»[21]. Nel corso del tempo la posizione di Formenti si è però modificata in termini sostanziali, e Utopie letali pone infatti tra i propri obiettivi la riapertura del confronto sulla composizione di classe, oltre che sul rapporto fra questa e le sue espressioni organizzative. Ma proprio perché afferma la necessità di analizzare la frammentazione odierna del lavoro «in termini di composizione politica»[22], Formenti non può evitare di attaccare severamente la lettura che del concetto di composizione di classe è stata proposta negli ultimi decenni dal post-operaismo, una lettura accusata di perdere completamente i concreti riferimenti alla realtà materiale delle relazioni di classe.

Per la riflessione operaista, così come prende forma negli Sessanta, analizzare la composizione di classe, sintetizza Formenti, significa «prendere atto che la classe operaia non è un blocco omogeneo, bensì un corpo striato da divisioni che rispecchiano le gerarchie professionali, separazione del lavoro manuale e intellettuale, differenze di età, genere e provenienza geografica, ecc.»; e, inoltre, comporta «distinguere fra composizione tecnica, che legittima questa stratificazione piramidale, e composizione politica, che, al contrario, la sovverte dal momento che coscienza dei propri interessi di classe e carica antagonistica si concentrano alla base»[23]. Per quanto risulti ‘eretico’ rispetto al «marxismo ortodosso» e alla teoria del partito canonizzata dalla Terza Internazionale, l’operaismo si profila in tal modo come un lineare e coerente svolgimento dell’analisi marxiana, e in particolare dell’analisi del processo lavorativo compiuta nel Primo libro. Ma, anche sull’onda del tramonto dell’«operaio massa», protagonista del ciclo conflittuale degli anni Sessanta, molti operaisti iniziano gradualmente a modificare l’idea della composizione di classe. «Nel corso di tale percorso», osserva infatti Formenti, «il riferimento alle categorie marxiane viene progressivamente allentandosi, fino a ridursi al richiamo pressoché esclusivo – per di più ‘contaminato’ da altri paradigmi teorici – ad alcune sezioni dei Grundrisse; alla sterilizzazione dello ‘storicismo’ marxiano […] – si affiancano prestiti sempre più cospicui del pensiero post-strutturalistico di Foucault e Deleuze, dai cultural studies e da vari contributi della New Left e del femminismo»[24]. Così, all’interno del nuovo «postmodernismo metodologico» che prende forma, «il concetto di composizione di classe, benché non venga abbandonato, subisce una torsione verso l’approccio ‘americanistico’ e ‘costruttivistico’», tanto che «la soggettività antagonistica perde ogni aggancio con la realtà strutturale e diventa pensabile esclusivamente in termini di costruzione linguistico-narrativa»[25]. Ma il problema, per Formenti, non sono solo le influenze esercitate dalla filosofia francese o dal postmodernismo. Il problema è piuttosto dato dal fatto che gli eredi dell’operaismo non hanno ‘relativizzato’ una dinamica che era specifica dell’«operaio massa» e della grande fabbrica fordista, e dunque non hanno messo in discussione l’idea secondo cui è la soggettività operaia a determinare lo sviluppo capitalistico: un’idea che funzionava in quel contesto, ma che invece non funziona – o comunque non negli stessi termini – in altre fasi storiche. Il tentativo di ritrovare nuove conferme della precedenza della soggettività operaia sul capitale ha così indotto a un graduale slittamento delle tesi originarie, tanto che si è giunti col tempo a rinvenire nel lavoro vivo dell’era digitale una capacità autonoma di organizzazione, che renderebbe del tutto parassitaria la funzione dell’organizzazione capitalistica del lavoro. In tale contesto, osserva dunque Formenti, la composizione di classe perde il riferimento materiale alla relazione tra capitale e lavoro, e finisce col diventare piuttosto il riflesso di operazioni ‘culturali’ di costruzione di identità (collettive e individuali).

Contro tutte queste operazioni – che sono le «utopie letali» contro cui il libro è rivolto – Formenti punta invece a riproporre «un punto di vista sostanzialistico»: e cioè una prospettiva secondo cui «la classe esiste a prescindere dall’esistenza di strutture politiche, associative e/o di ‘discorsi’ che la rappresentano, essendo definito dall’appartenenza a una ‘comunità di destino’ e dalle conseguenze economiche, culturali e sociali associate a tale appartenenza»[26]. Quando cerca di riportare al centro la dimensione ‘sostanziale’ delle relazioni produttive, Formenti non nega comunque l’importanza degli elementi culturali, ma tende a considerarli all’interno dell’assetto ‘oggettivo’ definito dalle relazioni economiche. E, a questo proposito, richiama alcune formule importanti di Edward P. Thompson, secondo cui una classe nasce «quando un gruppo di uomini, per effetto di comuni esperienze (ereditate o vissute), sentono ed esprimono un’identità di interessi sia fra loro, sia nei confronti di altri gruppi con interessi diversi e, socialmente, antitetici»[27]. Così, se l’esperienza all’origine della classe «è determinata, in larga misura, dai rapporti di produzione nel cui ambito gli uomini sono nati», la «coscienza di classe» coincide invece con «il modo in cui queste esperienze sono vissute e riplasmate in termini culturali»[28]. Questi strumenti teorici sono però soprattutto utilizzati per decifrare la composizione della classe operaia globale, strutturata su cinque livelli: i) le masse contadine impegnate nel Sud del mondo in attività agricole di sussistenza; ii) i migranti che si spostano per sfuggire alla miseria e alle guerre locali; iii) le masse di lavoratori poveri che si ammassano negli slum delle grandi metropoli del Nord e del Sud del pianeta; iv) la nuova classe operaia dei Paesi emergenti; v) la vecchia classe operaia dei Paesi occidentali. Ovviamente è proprio sugli ultimi due livelli che si concentra l’attenzione di Formenti, perché la sua ipotesi ‘neo-operaista’ è fondata sulla convinzione che ci siano tre grandi fattori che spingono verso la ricomposizione dei due segmenti: «1) il costante aumento del peso numerico della forza lavoro operaia a livello planetario, visto che l’aumento del proletariato del Sud compensa e supera largamente la diminuzione della classe operaia al Nord; 2) il crescere delle conoscenze scientifiche e tecnologiche incorporate nella produzione del Sud, le quali – inizialmente concentrate in settori low tech come l’industria tessile – tendono ad estendersi sempre più in termini di composizione tecnica del lavoro; 3) infine la crescente capacità di lotta del proletariato periferico, che contribuisce a ridurre parzialmente le differenze di reddito e le condizioni di lavoro fra centro e periferia»[29].

Naturalmente Formenti è ben consapevole delle insidie che rendono tutt’altro che automatico il processo di ricomposizione politica. Ciò su cui nutre pochi dubbi è invece l’esclusione dal novero della classe operaia globale dei lavoratori della conoscenza, i quali risultano comunque presenti nella composizione dei cinque livelli (e soprattutto negli ultimi quattro). Gli esempi cui Formenti guarda per contrastare la tesi del tramonto (economico e politico) della classe operaia sono relativi a due paesi emergenti, come Cina e Sudafrica, oltre che agli Stati Uniti. Pur molto differenti, questi tre casi consentono a Formenti di stilare una sorta di catalogo delle caratteristiche che identificano gli strati capaci di svolgere un ruolo di «avanguardia» nei processi ricompositivi: «concentrazione massiva in alcuni luoghi di lavoro, lavoro stressante e prevalentemente esecutivo, retribuzioni miserabili e ritmi di lavoro massacranti, assenza quasi totale di diritti sociali e civili, elevata percentuale di donne e migranti»[30]. E da questo punto di vista, il suo discorso non sembra discostarsi molto dalla classica lezione operaista (o, persino, da una lettura nettamente ‘fabbrichista’), non solo perché vengono esclusi dal perimetro della classe operaia gli ‘intellettuali massa’ o la ‘classe creativa’, ma anche perché l’elemento cruciale che innesca il processo di ricomposizione è individuato nella «concentrazione», ossia nel fatto che i lavoratori si trovino effettivamente ammassati – per lavorare o per dormire – in specifici luoghi fisici. A differenza del classico ‘fabbrichismo’, Formenti rifiuta però la retorica del «lavoro produttivo», nel senso che rilegge la classica dicotomia tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo alla luce del processo di dilatazione della cooperazione produttiva. E, così, impiegati, tecnici e ‘lavoratori creativi’ sono – o possono essere – lavoratori effettivamente ‘produttivi’, nonostante non siano in grado di esprimere una reale «coscienza di classe».

 

La rivincita del partito

Non è comunque questa sorta di ritorno all’operaismo l’unico elemento che contrassegna l’operazione svolta da Formenti in Utopie letali. Perché è proprio a proposito del partito che emerge la novità principale. A ben vedere, si tratta di un elemento che già incominciava ad affiorare nelle pagine conclusive di Felici e sfruttati. In quel caso, il percorso di Formenti non si concludeva infatti soltanto con una sorta di ‘ritorno alle origini’ dell’operaismo, che spingeva lo sguardo verso Oriente, ma anche con una prima enunciazione della necessità di tornare a considerare il vecchio nodo dell’«autonomia del politico», e dunque di capire «se il vero problema delle istituzioni – stato, partito, sindacato ecc. – non sia la loro funzione di rappresentanza, bensì la capacità o meno delle classi subalterne di usarle»[31]. In questo senso, Formenti dunque si distanziava piuttosto nettamente dallo ‘spontaneismo’ che aveva contrassegnato l’operaismo degli anni Sessanta, e che, soprattutto, sarebbe diventato dominante – non senza qualche notevole contraddizione interna – nel post-operaismo, soprattutto a partire dagli anni Ottanta e Novanta. Contro le speranze ‘orizzontaliste’ dei teorici della moltitudine e gli entusiasmi di Manuel Castells, Formenti riproponeva dunque la necessità di una sintesi politica ‘verticale’: «Senza un fattore che irrompa ‘da fuori’ – tanto dalle relazioni economiche quanto dalle relazioni politiche di governance – non c’è speranza di interrompere il circuito di feedback che alimenta l’egemonia. Il che riapre l’ineludibile nodo dell’autonomia del politico: il fatto che partiti e sindacati abbiano esaurito il loro ruolo storico non esclude minimamente la necessità di risolvere il problema dell’organizzazione politica della resistenza anticapitalistica»[32]. È proprio da questo punto che riprendono le considerazioni di Utopie letali, e Formenti non esita a interrogare, da tale nuova (e al tempo stesso vecchia) prospettiva, le famose pagine di Marx sulla Comune di Parigi, il Che fare? di Lenin e i Quaderni gramsciani, ma si confronta anche con le riletture fornite più recentemente da Žižek e Tronti. I cardini della riflessione dei ‘classici’ rimangono per Formenti validi, sia per quanto concerne la ‘necessità’ di un’organizzazione politica, di «partito», sia per quanto concerne la problematica convivenza fra istituzioni di autogoverno e organizzazioni politiche (tanto che proprio quest’ultima questione rimane «la maggiore sfida teorica che la tradizione novecentesca ci ha lasciato in eredità»)[33]. Ma la riflessione sull’organizzazione non si limita comunque a evocare le vecchie pagine dei padri del marxismo, perché si confronta anche con novità rilevanti emerse negli ultimi anni, come Occupy Wall Street e il Movimento 5 Stelle. Ma il dato che più interessa a Formenti non è relativo al carattere ‘orizzontale’ di queste forme di organizzazione, che hanno scoperto nella Rete lo strumento per consentire di costruire una sorta di ‘agorà virtuale’ integralmente democratica. In qualche modo, rileva Formenti, entrambi questi esperimenti si sono trovati a scontrarsi con la ‘verticalità’ di uno strumento tutt’altro che effettivamente ‘orizzontale’ e tale da garantire una piena simmetria fra tutti i partecipanti: «l’orizzontalismo della democrazia digitale, mentre rivendica le regole e i princìpi delle partecipazione e del controllo dal basso, si trova controintuitivamente a dover fare i conti con il principio di verticalità che è immanente alle modalità di funzionamento di un medium in cui il 90% dei contenuti è generato dal 10% degli utenti. In conclusione, i lavoratori cognitivi non sembrano capaci di sfuggire alla trappola che il capitalismo digitale ha fabbricato per loro: consentire, o addirittura favorire, la più vasta partecipazione dal basso è il modo migliore per ottenere la più ferrea concentrazione del potere decisionale del vertice»[34].

Sulla scorta di questo duplice esame, Formenti delinea uno schema che dovrebbe servire a prefigurare i contorni di una forma organizzativa adeguata ai tempi. In generale, ritiene infatti che «il concetto di partito – per lo più nel significato di organizzazione antagonistica di una parte sociale – possa svolgere ancora un ruolo», anche se precisa che «tale concetto non è inevitabilmente associato al professionismo politico, o a un centralismo incarnato da leader e apparati burocratici»[35]. E questo dunque significa che il «partito», ai suoi occhi, «può e deve essere reinventato, costruendo per tentativi ed errori una cultura e un’organizzazione politiche capaci di integrarsi nelle istituzioni di democrazia diretta create dai movimenti, nonché di guadagnarsi un ruolo egemonico al loro interno»[36]. Più specificamente, cerca però di capire in cosa possa e debba consistere l’«autonomia del politico», ossia la ‘verticalità’ necessaria per dar forma a un soggetto politico. Ed è a questo punto che il compito di Formenti diventa particolarmente complesso, non tanto per l’oggettiva difficoltà di immaginare concrete soluzioni politiche, quanto per il problema di far interagire la dimensione ‘strutturale’ delle relazioni sociali (e dunque il livello ‘oggettivo’ della relazione tra capitale e lavoro) con la dimensione invece ‘culturale’ della memoria, delle identità etniche, delle narrazioni. E si tratta di un passaggio particolarmente complesso per Formenti, soprattutto perché buona parte di Utopie letali è una critica a tutte quelle posizioni che tendono a ricondurre i conflitti alla dimensione ‘culturale’ delle identità collettive.

In sostanza, il paradigma di organizzazione si fonda per Formenti su cinque punti principali: i) «nessun movimento è interamente spontaneo», perché «memoria storica di antiche lotte, presenza di idee, narrazioni e soggettività politicamente formate da precedenti esperienze offrono sempre l’indispensabile innesco affinché un movimento possa sorgere e crescere»; b) «composizione di classe e caratteristiche socio-culturali di un settore o di un distretto produttivo, di un territorio o area urbana, pur non determinando meccanicamente intensità e contenuto di una lotta, ne rappresentano l’imprescindibile presupposto»; iii) «una lotta non ha carattere politico finché non assume esplicitamente natura antagonistica, cioè finché non riesce a identificare un nemico e a definire la rete di interessi economici, relazioni istituzionali e narrazioni ideologiche che ne definiscono l’identità»; iv) «il salto alla dimensione politica non può avvenire attraverso dinamiche puramente orizzontali»; v) «l’elemento di verticalità, inteso come imprenscindibile funzione di sintesi e decisione politica, può e deve essere garantito dalla figura del militante, vale a dire da una soggettività pienamente consapevole della natura antagonistica della lotta, quindi del suo carattere anticapitalistico e dell’obiettivo strategico della transizione a una società postcapitalistica»[37].

Gli esempi che Formenti ha presente quando elabora questa griglia concettuale non sono tratti né dai ‘nuovi movimenti’ e neppure dai conflitti operai cinesi, bensì dalla realtà latino-americana, e in particolare dal Movimiento al Socialismo (Mas), costruito in Bolivia attorno alla figura di Evo Morales, e da Alianza País (Ap), il cartello equadoriano di Rafael Correa: evidentemente, entrambe queste formazioni hanno un carattere fortemente personalizzato, e inoltre i regimi di ‘populismo di sinistra’ che i due leader hanno costruito sono tutt’altro che privi di notevoli ombre (tanto che non sono certo mancate critiche che hanno accusato i due leader di aver utilizzato il partito come strumento di consolidamento di un potere sostanzialmente personale). Al di là delle specificità boliviane – che sono peraltro sempre ricondotte alla realtà della composizione di classe – Formenti guarda però al Mas di Morales, nato dall’aggregazione di sindacati, movimenti indigeni, Ong, come a un modello da seguire. «È possibile», scrive infatti, «che il federalismo ‘corporativo’ sia la sola forma che il partito di classe può assumere nell’era della frantumazione del proletariato globale […], il solo modo di ricostruire la ‘parzialità’ di un punto di vista che, oggi, si esprime come arcipelago di una serie di parzialità, in opposizione a quell’idea di ‘bene comune’ che esprime viceversa l’egemonia delle classi dominanti»[38]. E, in questo senso, Formenti si spinge addirittura a riprendere la vecchia formula gramsciana secondo cui la classe operaia dovrebbe «farsi Stato». E, anche se certo non dimentica che, «nella storia del socialismo, la sovrapposizione fra partito e Stato ha prodotto effetti drammatici», non ritiene che ciò debba necessariamente ripetersi «anche in una situazione in cui partito e Stato assumano entrambi la forma federativa e prevedano la gestione del processo decisionale da parte di una pluralità di soggetti»[39].

 

Il nodo della politica

Il libro di Formenti ha sollevato alcune prevedibili obiezioni, che si sono in particolare soffermate sui limiti della critica rivolta al post-operaismo e al concetto di «moltitudine»[40]. È invece passato inosservato il fatto che l’approdo cui giunge Formenti in Utopie letali esprime davvero una forte discontinuità con la sua precedente riflessione, in particolare proprio rispetto al ruolo assegnato al ‘politico’ e al rapporto fra i movimenti e un’istanza capace di esercitare una ‘sintesi’ – non solo organizzativa – fra elementi del tutto eterogenei e frammentari. Per molti versi, l’itinerario teorico di Formenti prende avvio proprio da una severa critica di quella sorta di ‘neo-leninismo’ che guidò la pratica politica di alcuni filoni del post-operaismo negli anni Settanta. In uno dei suoi primi interventi, pubblicato su «aut aut» nell’estate del 1979, Formenti prendeva per esempio di mira la strategia politica di «Autonomia Operaia», in cui vedeva il riflesso speculare di quella «forma-Stato» che intendeva criticare materialmente. In sostanza, il limite di quel progetto politico consisteva nella convinzione che fosse possibile ‘sintetizzare’ a livello politico i «bisogni» dei soggetti di una metropoli che si avviava verso la transizione post-industriale. Ma, osservava allora Formenti, «questi bisogni non si lasciano rappresentare politicamente da una sigla ad annullare l’identità concreta di chi con questa sigla si identifica»[41]. Al contrario, le concrete soggettività finivano con lo svanire dietro l’identificazione politica. Infatti, continuava Formenti, «si costruisce l’identità a partire dalla riduzione astratta dei soggetti alla loro ‘personalità’ politica», e così «l’illusione della rappresentanza politica cade nella trappola del potere offrendo il materiale alla riduzione spettacolare del politico»[42].

Sollecitate dall’urgenza delle inchieste giudiziarie e dall’escalation di violenza della fine degli anni Settanta, le considerazioni formulate nella breve nota apparsa su «aut aut» avevano alle spalle la ‘critica della politica’ (e della forma-partito adottata dai gruppi della sinistra extra-parlamentare) svolta verso la metà degli anni Settanta dal Gruppo Gramsci, una piccola formazione in cui operavano intellettuali militanti come Romano Madera, Paolo Gambazzi e Giovanni Arrighi, e nelle cui fila lo stesso Formenti compì il proprio ‘apprendistato politico’[43]. Ma, ad ogni modo, quelle prime frammentarie considerazioni non rimasero isolate. Tutta la riflessione condotta da Formenti nel corso degli anni Ottanta e Novanta, e il suo stesso interesse per le nuove tecnologie e le contro-culture che alimentarono la rivoluzione della Rete, furono indirizzati proprio dalla preoccupazione di condurre fino in fondo la critica dell’«astrazione politica», in modo da evitare il rischio di ricadere nuovamente nella trappola dello scontro frontale che aveva condannato alla sconfitta i movimenti degli anni Settanta. In Prometeo ed Hermes, un testo apparso nella seconda metà degli anni Ottanta (nelle cui pagine sono però ancora evidenti i depositi del decennio precedente), la posizione di Formenti era a questo proposito netta. «Il vero pericolo», scriveva pensando al futuro dei nuovi movimenti (e in particolare del movimento ecologista), «è quello di cadere nella trappola di Agrippa, nel trabocchetto dell’omnia in unum»[44]. Più esplicitamente, osservava: «perché la lotta di classe non si trasformi in guerra, non basta criticare l’astrazione politica della forma-stato, bisogna fuggire alla fascinazione dell’antagonismo, impedire che i recinti del partito e dell’esercito racchiudano le dinamiche del movimento, spingendole inesorabilmente verso lo stato finale dell’istituzione sacrificale»[45]. I movimenti degli anni Settanta, pur cogliendo la portata delle trasformazioni in atto, si erano rivelati incapaci di sfuggire alla «fascinazione dell’antagonismo», alla logica dell’amico-nemico, al richiamo dell’«autonomia del politico», e per questo avevano fallito. Al contrario, i nuovi movimenti «impolitici» degli anni Ottanta, tra cui soprattutto il movimento ambientalista, sembravano profilare una risoluzione del rompicapo, una soluzione che abbandonava radicalmente la convinzione marxista che si potesse utilizzare il potere per liberare l’individuo dalla forma-Stato. «Il programma dei nuovi movimenti», scriveva, «sembra essere piuttosto quello di liberare l’individuo dal sociale; la conquista del potere, il controllo della macchina statale, hanno lasciato il posto alla volontà di ottenere maggiore potere e controllo sulle proprie condizioni di esistenza, di avere un più ampio margine di autonomia dal sistema politico»[46]. Il ruolo del ‘politico’ risultava così sostanzialmente ridimensionato, perché al sociale veniva riconosciuto un potere ‘rivoluzionario’ – in senso molto diverso da quello adottato dalla tradizione novecentesca – del tutto indipendente da ogni ‘politicizzazione’. «Compito del ‘politico’», concludeva dunque, «non è fare la rivoluzione, bensì mantenere e sviluppare le condizioni di una crescente complessità sociale, operare in modo che possano avvenire rivoluzioni nel sociale. Il plurale denota qui nuovamente uno scarto temporale: le rivoluzioni al posto della Rivoluzione significano semplicemente che si tratta di conflitti limitati nello spazio e/o nel tempo, che si giocano su scala locale e/o riguardano il presente»[47].

Non è difficile ritrovare nel discorso sviluppato da Formenti negli anni Ottanta, sulle ceneri della «stagione dei movimenti», una logica diametralmente opposta a quella che orienta invece le pagine di Utopie letali. Ciò non significa certo che un simile mutamento prospettico debba immettere nel suo percorso intellettuale una fatale incoerenza, ma invita piuttosto a riconoscere nel percorso di Formenti un elemento di autocritica forte, forse addirittura più marcato di quello ravvisabile a proposito della valutazione del potenziale ‘rivoluzionario’ delle nuove tecnologie. Non è infatti senza rilievo che oggi Formenti di fatto si trovi a rimproverare ai propri bersagli polemici i limiti di quella visione che egli stesso sosteneva negli anni Ottanta. Se allora metteva in guardia dal «trabocchetto dell’omnia in unum», dalla «trappola di Agrippa», dalla «fascinazione dell’antagonismo», dall’«autonomia del politico», oggi sembra ritenere invece che proprio l’assenza di un discorso sull’organizzazione, sul «partito» e sul rapporto con lo Stato sia una delle cause della debolezza dei movimenti del XXI secolo. A indurre Formenti a un simile ripensamento non sono, ovviamente, solo motivi teorici, ma, in modo evidente, l’esperienza politica dell’ultimo decennio e il bilancio di quelle mobilitazioni che nel corso di più di un decennio, da Seattle a Occupy Wall Street, si sono rivelate incapaci di incidere stabilmente sugli assetti di potere nelle società occidentali. Ma, al di là del percorso che conduce oggi Formenti a riscoprire ancora una volta l’«autonomia del politico», è forse soprattutto importante considerare il modo in cui tale «autonomia» viene pensata, e soprattutto i termini in cui viene concepito il rapporto fra la composizione di classe – un concetto cui viene ancora assegnato un ruolo cruciale – e il livello ‘politico’ dell’organizzazione. Perché è proprio in corrispondenza di questo passaggio che nel discorso emergono – più che delle vere e proprie contraddizioni – degli interrogativi meritevoli di attenzione.

 

Composizioni

Nonostante, come si è visto, all’inizio degli anni Novanta Formenti avesse espresso più di qualche dubbio sulla possibilità di utilizzare ancora la nozione di composizione di classe, negli ultimi lavori ha invece ripreso con convinzione questo strumento analitico, ereditato dalla tradizione operaista degli anni Sessanta e Settanta. In Cybersoviet scriveva per esempio che «delineare una nuova composizione di classe appare impresa ardua, se non impossibile, ma rinunciare all’impresa significa rinunciare alla possibilità di attribuire senso ai conflitti sociali contemporanei»[48]. E in Felici e sfruttati questo obiettivo veniva effettivamente ripreso, e articolato sui due piani distinti della «composizione tecnica» e della «composizione politica». «Meglio abbandonare i sogni sulle moltitudini che si auto-organizzano e si auto-governano attraverso la rete», notava per esempio allora, in esplicita polemica con Hardt e Negri, «e riprendere a ragionare sulla composizione politica del proletariato, allargando lo sguardo a livello globale»[49]. Nelle pagine di Utopie letali l’analisi della composizione della classe operaia globale diventa ora uno degli obiettivi fondamentali, e dunque la riabilitazione diventa completa, perché il concetto si configura addirittura come il perno dell’intero discorso di Formenti. Con questa scelta, evidentemente Formenti esplicita il proprio legame con la tradizione dell’operaismo, un legame in realtà mai interrotto nel corso dei decenni, seppur sempre accompagnato da uno sguardo critico. Ma, soprattutto quando adotta la distinzione tra «composizione tecnica» e «composizione politica», finisce anche con l’ereditare le ambiguità del concetto, o comunque alcuni dei suoi nodi insoluti[50].

Per molti versi, l’idea che esista e che debba essere analizzata una composizione di classe prende forma proprio all’inizio della ricerca operaista, in alcuni dei saggi pubblicati da Romano Alquati sui «Quaderni rossi». In quegli scritti, la nozione era però ancora delineata in forma embrionale, e una più compiuta elaborazione sarebbe stata proposta solo alla metà degli anni Sessanta, sulle pagine di «Classe operaia», che in effetti, a partire dal 1965, dedicò una sezione della rivista all’analisi della «composizione interna della classe operaia»[51]. Con quella formula, Alquati intendeva sostanzialmente «la scoperta dei movimenti» con cui «la classe operaia italiana tende oggi a rovesciare la propria dinamica di forza-lavoro del capitale internazionale in una lotta ‘sociale’», e, dunque, la scoperta, dietro questi movimenti, sia dei «meccanismi materiali che già li unificano parzialmente a livello sociale in potenziale di lotta politica», sia della «catena delle complesse mediazioni attraverso le quali si esprimono, a volte, sul terreno politico diretto»[52]. Ma, nel quadro della «rivoluzione copernicana» proposta dagli scritti di Tronti, la nozione di composizione di classe assumeva una densità teorica ancora più significativa, perché rifletteva la convinzione che la classe operaia conquistasse e conservasse una propria rigidità politica anche nei momenti di apparente passività. In questa prospettiva, dunque, anche Tronti evocava l’idea di una «una storia interna della classe operaia, che ricostruisca i momenti della sua formazione, i cambiamenti nella sua composizione, la crescita della sua organizzazione, secondo le varie successive determinazioni che la forza-lavoro assume in quanto forza produttiva del capitale, secondo le diverse, ricorrenti e sempre nuove esperienze di lotta che la massa operaia sceglie in quanto unica antagonista della società capitalistica»[53].

Nella proposta di Alquati, come in quella di Tronti, la distinzione tra «forza lavoro» e «classe operaia» stava a indicare due momenti logicamente distinti: il concetto di «forza lavoro», più che riflettere infatti la dimensione strettamente tecnica dell’organizzazione di fabbrica, di fatto alludeva al lavoro come variabile puramente ‘economica’, ossia come elemento passivo del processo lavorativo; al contrario, l’espressione «classe operaia» veniva a qualificare un soggetto politico, capace di esprimere una propria autonomia all’interno della cooperazione lavorativa e, dunque, in grado di rifiutare il semplice ruolo di inerme fattore di produzione. Questa dicotomia venne poco dopo ulteriormente precisata e riformulata, e alla distinzione di carattere generale tra «forza lavoro» e «classe operaia», si affiancò la distinzione tra «composizione tecnica» e «composizione politica». Nel corso di un famoso seminario svoltosi a Padova nel 1967, le ipotesi già enunciate nelle pagine di «Classe operaia» si traducevano in un autentico programma di ricerca, oltre che nella definizione dei tratti di quella figura che proprio allora si iniziò a identificare come «operaio massa»[54]. In particolare, in un importante saggio su Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movimento consiliare, Sergio Bologna veniva a esplicitare una tesi dalle forti implicazioni politiche che avrebbe influenzato gran parte del dibattito seguente, perché in sostanza sosteneva che ogni specifica struttura tecnica della forza lavoro tendesse a produrre – quasi in modo ‘necessario’ – specifiche forme di organizzazione del conflitto, oltre che persino ad orientare verso determinate impostazioni ideologiche. Pertanto, a ogni determinata composizione tecnica della forza lavoro veniva a corrispondere – più o meno inevitabilmente – una determinata composizione politica della classe operaia. «La posizione dell’operaio dell’industria meccanica altamente specializzato, di elevate capacità professionali, che lavorava di precisione sul metallo, conosceva a perfezione i propri utensili, manuali o meccanici, che collaborava col tecnico e con l’ingegnere alla modificazione del processo lavorativo», osservava per esempio Bologna, «era la posizione materialmente più suscettibile ad accogliere un progetto organizzativo-politico come quello dei consigli operai, cioè di autogestione della produzione»[55]. Al contrario, l’operaio prodotto dalla rivoluzione taylorista, l’«operaio di linea moderno, dequalificato, sradicato, con un’altissima mobilità ed intercambiabilità» –  in breve, l’«operaio massa» –  presentava caratteristiche del tutto diverse, e doveva così rivelarsi molto meno sensibile alla tradizione autogestionaria e invece predisposto ad azioni dirette volte a ottenere incrementi salariali, o all’utilizzo dello sciopero selvaggio e del corteo interno.

Formulata da Bologna in termini ancora problematici, quella distinzione schematica tra composizione tecnica e composizione politica divenne ben presto il cardine di una sorta di periodizzazione della storia della classe operaia. Ad ogni tappa della ristrutturazione capitalistica, veniva così ritrovata una nuova figura egemone, capace di svolgere un ruolo di traino politico. Ma, soprattutto, si ipotizzava che ogni fase di modificazione della composizione tecnica dovesse ‘produrre’ – più o meno necessariamente – una nuova composizione politica, e dunque nuove formule organizzative, nuovi strategie rivendicative e nuove ideologie. Nella voce Movimento operaio dell’Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, Negri formalizzò questo schema individuando tre grandi sequenzestoriche, ognuna delle quali segnata dalla centralità di una specifica figura, e fissò inoltre la distinzione tra «composizione tecnica (tutta dentro il capitale) e composizione politica (tutta fuori dal capitale) di classe operaia»[56]: dall’insurrezione del giugno 1848 fino alla Comune di Parigi, protagonista era stata la classe operaia nata dalla prima industrializzazione e dall’urbanizzazione; dal 1871 fino al ciclo di mobilitazione seguito alla Prima guerra mondiale, il protagonista fu l’operaio professionale, dotato di un’elevata competenza tecnica; e dopo la stagione consiliare, la ristrutturazione fordista avrebbe invece fatto nascere l’«operaio massa», destinato a rimanere protagonista fino agli anni Sessanta.

Quella periodizzazione non era già in quel momento finalizzata all’individuazione dei caratteri di una nuova figura egemone, destinata a raccogliere il testimone dall’«operaio massa». Ma tutta la ricerca del post-operaismo, a partire dal principio degli anni Settanta, sarebbe stata guidata quasi incessantemente da questa preoccupazione. Anche nella sua riflessione successiva Negri non avrebbe per esempio mai abbandonato la medesima convinzione, ossia l’idea che la nuova struttura della cooperazione lavorativa avrebbe ‘necessariamente’ plasmato una nuova composizione di classe, capace di esprimere direttamente comportamenti ‘politici’. In Comune, per esempio, quando Hardt e Negri considerano la composizione del «lavoro biopolitico», riprendono la dicotomia di composizione tecnica e composizione politica, e, soprattutto, ripropongono – in termini assolutamente lineari – lo schema secondo cui ogni fase di ristrutturazione, se dissolve la vecchia composizione di classe, ne costruisce anche una nuova. «Da un lato», scrivono, «le lotte degli operai e le lotte sociali determinano una ristrutturazione del capitale», ma, dall’altro, «queste ristrutturazioni costituiscono le precondizioni di altri conflitti». Ciò significa dunque che, «in ogni fase dello sviluppo capitalistico, sulla base delle trasformazioni della composizione tecnica del lavoro, i lavoratori usano i mezzi a loro disposizione per inventare nuove forme di antagonismo per rendersi autonomi dal capitale», per questo «il capitale è costretto a ristrutturare le basi della produzione, l’organizzazione dello sfruttamento e gli strumenti di controllo trasformando ancora una volta la composizione tecnica del lavoro», ma a questo punto «i lavoratori scoprono nuove armi per riaprire lo scontro»[57]. Sulla scorta di questo schema, Hardt e Negri possono dunque applicare la dicotomia di composizione tecnica e composizione politica anche all’assetto della forza lavoro nell’età della «produzione biopolitica». A proposito della dimensione tecnica, sottolineano così come il lavoro sia diventato immateriale, come si sia «femminilizzato» e come si sia modificato a seguito dei flussi migratori. Tutte queste tendenze, osservano Hardt e Negri, implicano «nuovi strumenti di sfruttamento e controllo», ma ‘plasmano’ anche un nuovo soggetto conflittuale, perché la produzione biopolitica «permette al lavoro di conquistare un’autonomia senza precedenti e potenzialmente fornisce le armi e gli strumenti che possono dare vita a un progetto di liberazione»[58]. Naturalmente Hardt e Negri avvertono che non intendono il passaggio da forza lavoro a soggetto conflittuale in termini deterministici, o come una ‘necessità’ storica, ma ciò che emerge nel loro discorso è comunque il fatto che la dimensione ‘politica’ scaturisca come ‘eccedenza’ proprio dal contesto della struttura ‘tecnica’ della produzione e si formi, dunque, all’interno delle reti della produzione biopolitica. In sostanza, «il modo in cui i lavoratori lavorano, insieme alle abilità e alle competenze che essi mettono in gioco nel processo lavorativo (la composizione tecnica) contribuiscono a determinare le loro possibilità e le loro capacità politiche (composizione politica)»[59]. Pertanto, «se […] la composizione tecnica del proletariato è cambiata molto profondamente con l’egemonia della produzione biopolitica le cui prerogative si sono imposte in tutti i settori produttivi, allora diventa correlativamente possibile una nuova composizione politica corrispondente alle capacità specifiche del lavoro biopolitico», tanto che «oggi la natura e le qualità della produzione biopolitica rendono possibile un processo di ricomposizione politica definita da un processo decisionale democratico»[60]. Ed è proprio come sviluppo estremo di questo discorso che Hardt e Negri possono anche dichiarare la sostanziale senescenza della forma-partito. Riprendendo la scansione delle grandi sequenze di sviluppo delle forme di organizzazione già delineate al principio degli anni Settanta, ribadiscono infatti che ogni idea di partito fondata sul ruolo di avanguardie politiche risulta del tutto anacronistica, perché «la composizione tecnica del lavoro è cambiata così profondamente»[61]. D’altronde, nel loro discorso sono proprio le caratteristiche della nuova composizione tecnica del lavoro biopolitico – «cooperazione, autonomia e organizzazione in rete» –  a spingere verso forme ‘orizzontali’ di organizzazione e a costituire così i più «solidi presupposti per un’organizzazione politica democratica»[62].

Senza dubbio in Utopie letali, così come in alcuni dei suoi testi precedenti, Formenti coglie molto bene le difficoltà del discorso post-operaista sulla composizione di classe. A ben guardare, però, nel suo discorso si nascondono anche alcuni paradossi rilevanti, che probabilmente sono le spie della difficoltà di ripensare il ruolo del partito. I bersagli politici del discorso di Formenti sono infatti, per un verso, la specifica visione della composizione di classe adottata dal post-operaismo, che di fatto elimina la dimensione politica e attende la ‘spontanea’ formazione di un soggetto conflittuale a partire dalla struttura ‘tecnica’ della cooperazione produttiva, e, per l’altro, la visione ‘orizzontalista’ secondo cui l’attuale composizione ‘tecnica’ della forza lavoro, in virtù delle sue elevate competenze e della sua capacità di controllare i processi produttivi, non richiederebbe più un’organizzazione ‘verticale’, bensì solo reti organizzative prive di una effettiva direzione ‘politica’. Certo si tratta di critiche condivisibili agli occhi di molti, perché effettivamente puntano l’indice contro una serie di limiti politici, prima ancora che strettamente teorici. Ma si tratta di critiche che sono finalizzate proprio a fornire il presupposto a una riattualizzazione del ruolo del partito, e dunque di un’organizzazione politica almeno in parte ‘autonoma’ rispetto alla dimensione ‘tecnica’ della composizione di classe, oltre che, soprattutto, di un’organizzazione ‘verticale’, ossia strutturata al proprio interno in una forma tendenzialmente gerarchica (cioè con un vertice, una base più o meno ampia e uno strato intermedio di dirigenti, non necessariamente retribuiti). E, nonostante la consapevolezza di dover ‘tornare alla politica’ (e alla ‘pesantezza’ della sua dimensione organizzativa) renda il discorso di Formenti particolarmente interessante, nel suo percorso non possono passare inosservati alcuni elementi critici, se non proprio contraddittori.

In particolare, c’è un passaggio quantomeno problematico tra l’affermazione della necessità di riconoscere l’«oggettività» delle classe, contro tutte le derive ‘culturaliste’, e l’argomentazione che conduce alla centralità dell’organizzazione politica. Tutte le esperienze che Formenti richiama per sostenere la tesi secondo cui le classi esistono ancora ‘oggettivamente’ – esperienze relative alla classe operaia cinese, ai minatori sudafricani, ai dipendenti del discount globale Walmart – sono infatti espressione di conflitti ‘classici’ tra capitale e lavoro, che ovviamente sono utili per contestare l’idea che il conflitto di classe sia finito, o anche la tesi secondo cui sarebbe la nuova ‘classe creativa’ a rivestire un ruolo di ‘avanguardia’ politica. Ma il punto è che si tratta anche di conflitti che non richiedono un’organizzazione ‘politica’ in senso stretto: in altre parole, queste lotte – un po’ come quelle del vecchio «operaio massa» –  non sono probabilmente ‘spontanee’, ma non richiedono tanto la mediazione e la direzione di un’organizzazione ‘politica’ esterna al luogo di lavoro, quanto un’organizzazione situata dentro lo stesso processo produttivo, dentro quei luoghi del lavoro concentrato capaci di tramutarsi in luoghi di «ricomposizione». E così come la «rude razza pagana» dell’operaismo degli anni Sessanta non aveva necessità di un partito, ma solo di un’organizzazione (più o meno informale) di coordinamento del conflitto nei diversi punti del processo lavorativo, così tutte quelle esperienze che Formenti chiama in causa servono forse per mostrare che il ‘vecchio’ conflitto di classe non è affatto tramontato, ma non certo per sostenere che per attivare il conflitto, e per avviare la «ricomposizione» di un soggetto sociale frammentato e privo di coscienza, sia indispensabile l’azione di un partito. E non è in effetti casuale che, quando Formenti cerca di esplorare la fisionomia di un nuovo possibile modello organizzativo, lasci da parte la ‘nuova’ classe operaia cinese, ma si sposti invece verso Ovest, ossia verso esperienze come Ows e il Movimento 5 Stelle (considerate indicative delle trappole cui induce l’utopia della ‘partecipazione dal basso’ e di un ‘orizzontalismo’ che si traduce o in impotenza politica o nel paradosso di una forte concentrazione del potere al vertice), o come i riots urbani e il movimento No Tav (che invece vengono evocati per sottolineare come alcuni elementi ‘culturali’ possano favorire lo sviluppo di conflitti), o, soprattutto, come le formazioni partitiche che hanno sostenuto la «svolta a sinistra» latino-americana nell’ultimo decennio. In altre parole, se per un verso Formenti riafferma l’oggettività della classe, puntando lo sguardo sui quei luoghi del lavoro concentrato che si trasformano in fucine del conflitto diretto tra capitale e lavoro, dall’altro, per sostenere la necessità del partito, guarda altrove, ossia proprio a realtà in cui non esistono – o quantomeno non sembrano essere rilevanti – luoghi della ‘concentrazione’ della forza lavoro, e in cui dunque i lavoratori appaiono ‘disseminati’ sul territorio, come avviene per esempio nel caso dei lavoratori della conoscenza, dei contadini latino-americani, degli abitanti della Val di Susa. Un simile ‘salto’ argomentativo può essere naturalmente considerato come un riflesso della complessità della composizione della classe operaia globale, di cui d’altronde Formenti sottolinea l’estrema frammentazione. Ma si tratta probabilmente anche di un salto che palesa alcune insidie teoriche.

È d’altronde proprio dinanzi allo spettro del partito – uno spettro di cui peraltro nelle pagine di Utopie letali viene solo abbozzata la generica fisionomia – che il ragionamento di Formenti sembra mostrare alcuni dei problemi più rilevanti. In effetti, se è netto nel criticare l’inefficacia politica dei movimenti e del loro ‘orizzontalismo’, e se esprime pertanto la necessità di ricostruire un tessuto organizzativo di militanti, è evidente che il ‘ritorno al partito’ di cui si fa alfiere non è fondato solo su valutazioni di opportunità politica, ma su motivazioni più profonde, che almeno in parte sono legate alla stessa eredità dell’operaismo e, paradossalmente, dello stesso post-operaismo. Innanzitutto, nonostante tutte le critiche che indirizza al post-operaismo, Formenti non mette in questione la distinzione tra composizione tecnica e composizione politica, ma si limita piuttosto a criticare l’idea che la dimensione politica sia in qualche modo necessitata dalla dimensione tecnica della struttura del processo lavorativo. In altre parole, ritiene che la componente politica non scaturisca spontaneamente dalla struttura tecnica, ma richieda una sollecitazione proveniente ‘dall’esterno’. Dunque, ciò che Formenti segnala non è tanto l’inadeguatezza della distinzione fra ‘tecnica’ e ‘politica’, quanto il fatto che il passaggio dalla prima alla seconda non è automatico e richiede una mediazione, un intervento, una pressione proveniente da fuori, rispetto al processo lavorativo. È proprio sulla base di questa critica – che peraltro risulta in parte in contrasto con l’affermazione secondo cui il ‘cuore’ della composizione di classe si trova proprio nei settori in cui grandi masse di forza lavoro sono ‘concentrate’ fisicamente in enormi stabilimenti come quelli della FoxConn – che Formenti si spinge a ritrovare nel partito l’elemento capace di intervenire con successo da fuori. E a indurlo a un simile passaggio non è peraltro solo una valutazione politica, ma una considerazione di portata superiore, perché – evocando alcune formule classiche della tradizione marxista – chiama in causa la stessa capacità dei lavoratori di conquistare la ‘coscienza di classe’. Benché affermi che la classe lavoratrice esiste ‘oggettivamente’, come classe «in sé», sembra infatti sostenere – più o meno esplicitamente – che essa non riesce autonomamente a diventare una classe «per sé», e che proprio per questo motivo è necessario un passaggio ulteriore: una sollecitazione costituita non soltanto dall’organizzazione, ma anche da una specifica visione dei rapporti sociali.

Quando si richiama agli «assunti» della tradizione di Marx, Lenin e Gramsci, Formenti intende infatti sostenere – come si è visto – che l’«azione politica spontanea» della classe operaia non è sufficiente e che è invece indispensabile un partito «che incarni i soli interessi della parte sociale sottomessa al dominio del capitale». È ovvio che una simile posizione è rivolta polemicamente contro le utopie ‘orizzontaliste’ dei movimenti, ma è anche piuttosto scontato che l’immagine di un partito che «incarni i soli interessi» di una specifica parte sociale non può che indirizzare il discorso verso binari familiari. In altre parole, un partito non è – agli occhi di Formenti – solo un’organizzazione che coinvolge vari settori della forza lavoro, ma anche un attore capace di comprendere (o di ‘vedere politicamente’) l’intera società, e per questo – prima ancora che di ‘incarnarli’ – di capire quali sono gli interessi di quella classe «per sé» che, ancora in fieri sotto il profilo politico, può essere prefigurata dalla teoria. È d’altronde proprio in corrispondenza di questo passaggio che Formenti prende più nettamente le distanze dall’operaismo (e non solo dal post-operaismo), e tende a virare verso la tradizione del leninismo (o più, in generale, verso il marxismo ortodosso). E, nonostante sottolinei come il partito che immagina sia federale e democratico al proprio interno, è pressoché inevitabile che questo passaggio debba riprodurre proprio i vecchi limiti della concezione classica del partito leninista: una concezione in cui la ferrea gerarchia di partito non scaturisce solo dalle esigenze di una dura lotta politica, ma soprattutto dalla legittimazione teorica dell’‘avanguardia’, una legittimazione in virtù della quale l’avanguardia e la leadership del partito svolgono una funzione di direzione grazie alla loro capacità ‘scientifica’ di ‘vedere’ la classe oltre le mistificazioni ideologiche. In altre parole, nel momento in cui Formenti evoca la distinzione tra classe «in sé» e «classe per sé», non si limita a distaccarsi dalla tradizione dell’operaismo, ma introduce nella propria riflessione il vecchio schema del marxismo ortodosso, secondo cui è il partito – grazie alla propria dotazione teorica – a stabilire quali siano gli interessi ‘reali’ e ‘oggettivi’ della classe operaia, e dunque a chiarire quali siano le rivendicazioni ‘economiche’ e quelle ‘politiche’, i ‘falsi’ bisogni e quelli ‘reali’.

È forse anche per legittimare il partito come il soggetto capace di prefigurare la coscienza della «classe per sé» che Formenti pone tra gli obiettivi prioritari del suo libro la dimostrazione del fatto che le classi esistono ‘oggettivamente’ e la contestuale critica a tutte le deformazioni ‘culturaliste’ del conflitto. La dimostrazione dell’esistenza ‘oggettiva’ delle classi è infatti il presupposto logico per sostenere che ci sia – o ci debba essere – qualcuno in grado di ‘scoprire’ una simile ‘oggettività’ e, dunque, di agire politicamente sulla base di una simile conoscenza della ‘reale’ struttura della società. Ma è forse per rendere più coerente la sua operazione che Formenti introduce anche un riferimento – certo solo impressionistico, comunque non trascurabile – alla «transizione». Naturalmente, Formenti non si spinge a chiarire quale sia il contenuto di questa «transizione» a un modo di produzione non capitalistico (e, d’altronde, ciò che evoca sembra solo l’istituzionalizzazione di organizzazioni di movimento, o una sorta di dilatazione di una logica ‘neo-corporativa’, che non pare in ogni caso poter modificare la logica dell’accumulazione di capitale). Ma è evidente che un simile riferimento reintroduce anche una dinamica escatologica, che – seppur in modo estremamente cauto e molto vago – finisce con l’evocare lo schema classico del marxismo ortodosso, secondo cui le contraddizioni ‘oggettive’ presenti nella struttura della società capitalistica sono destinate a innescare una trasformazione e, infine, una «transizione» a un nuovo modo di produzione.

 

Concentrazione e disseminazione

Probabilmente ha ragione Franco Berardi, quando, leggendo Utopie letali, richiama l’editoriale conclusivo di «Classe operaia». Ma non è solo la prefigurazione di una nuova classe operaia globale ad avvicinare il discorso di Formenti a quello degli operaisti di mezzo secolo fa. Proprio alla fine dell’editoriale, la rivista diretta allora da Mario Tronti evocava infatti «una nuova teoria e una nuova pratica del partito»[63], che rimanevano ancora tutte da inventare. Proprio attorno a quel problema il gruppo di «Classe operaia» si era diviso, perché le diverse prospettive si erano rivelate fra loro del tutto incompatibili. Nessuna delle risposte fornite allora riuscì però a risolvere davvero l’enigma della «nuova teoria» e della «nuova pratica del partito». E proprio quel vuoto teorico finì ad un certo punto per essere riempito da tutto ciò che la tradizione terzinternazionalista aveva prodotto, dai rituali del leninismo fino alle caricature più grottesche della guerra civile, dall’affermazione della centralità della lotta politica alla legittimazione del ruolo delle avanguardie come rappresentanti dei ‘reali’ interessi della classe operaia, dalla convinzione che il confronto con lo Stato (o persino la sua ‘conquista’) potessero innescare un mutamento nel modo di produzione al rifugio in un’escatologia rivoluzionaria che finiva col dimenticare la realtà. Ed era d’altronde proprio contro questo cortocircuito, contro l’«autonomia della politica», contro la «trappola di Agrippa», contro il «trabocchetto dell’omnia in unum», che Formenti si scagliava nel passaggio cruciale tra gli anni Settanta e Ottanta.

La proposta che Formenti avanza in Utopie letali rimane senza dubbio interessante e meritevole di approfondimenti, soprattutto per la polemica che innesca con l’immaginario anti-politico e post-politico dei movimenti, e forse proprio per il tentativo di rivitalizzare quello spettro del partito che i più si ostinano a dare per morto[64]. Ma, dinanzi alle proposte che vengono formulate in Utopie letali (in modo, a ben vedere, ancora problematico e del tutto provvisorio), è molto difficile sottrarsi alla tentazione di far giocare i sospetti ‘anti-leninisti’ del Formenti di ieri contro le ipotesi del Formenti di oggi, quantomeno perché proprio l’accostamento di queste due prospettive – legate a due stagioni così diverse – ha il merito di evidenziare il cortocircuito teorico che sempre tende ad annidarsi dietro ogni schema più o meno ‘cripto-leninista’. Ciò non significa certo che non esista una potenziale alternativa al ritorno a uno schema leninista (e dunque non soltanto all’immagine leninista del partito, ma soprattutto all’idea che il partito sia in grado di portare la ‘coscienza’ a un soggetto sociale intervenendo dall’‘esterno’). Un’alternativa comporterebbe però almeno alcuni passaggi che Formenti sembra solo in parte disposto a compiere, anche se molte delle riflessioni che ha svolto nell’arco di più di tre decenni paiono procedere proprio in questa direzione.

Un primo passaggio non comporterebbe forse in modo necessario la rinuncia alla prospettiva teorica della composizione di classe, ma certo implicherebbe – se davvero la critica fosse condotta fino alle estreme conseguenze – l’abbandono di quella dicotomia ‘classica’ di composizione tecnica e composizione politica, che invece viene ripresa con una certa convinzione in Utopie letali. E come si è visto, nonostante Formenti riconosca come le analisi post-operaiste sulla composizione di classe soffrano della mancata ‘relativizzazione’ storica dell’esperienza dell’«operaio massa», di fatto non si spinge ad ammettere che anche la distinzione tra composizione tecnica e composizione politica, in larga parte costruita proprio sul calco di quella specifica figura, finisce col diventare persino fuorviante. L’idea che fosse possibile distinguere analiticamente una composizione tecnica da una politica si poteva infatti rivelare teoricamente utile nella stagione fordista, perché era legittimo individuare un settore produttivo ‘centrale’: in questo senso, la ‘scoperta’ nella linea di montaggio della grande fabbrica fordista di una struttura ‘tecnica’ capace di plasmare (almeno potenzialmente) un soggetto ‘politico’ rappresentava davvero un evento formidabile, in grado di dare sostegno materiale alla «rivoluzione copernicana» operata da Tronti. E, in qualche misura, la stessa operazione poteva essere compiuta, con uno sguardo retrospettivo, per la figura dell’operaio professionale dei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo. In entrambi i casi, la composizione di classe veniva però di fatto a coincidere con la figura che si formava nel processo lavorativo del settore produttivo ‘centrale’, e proprio questa semplificazione – così utile sotto il profilo dell’azione – doveva anche indurre l’idea che si potessero individuare qualcosa di simile a degli ‘stadi di sviluppo’ nella storia della classe operaia, ognuno dei quali risultava segnato da una specifica dialettica tra composizione tecnica e composizione politica. Per quanto si trattasse di un’operazione senza dubbio legittima (che peraltro coglieva una dinamica effettiva), in questa visione della composizione rimaneva una distorsione ‘fabbrichista’, che, in primo luogo, tendeva a istituire un implicito determinismo, in virtù del quale è sempre ogni nuova ristrutturazione capitalistica a dare forma alla nuova figura conflittuale ‘egemone’, mentre, in secondo luogo, induceva a considerare ogni specifica figura della composizione classe – di volta in volta, l’«operaio professionale», l’«operaio massa», l’«operaio sociale» – come sostanzialmente autonoma dalle altre, tanto che la discontinuità politica fra l’una e l’altra poteva essere intesa come un dato persino positivo (oltre che, in una certa misura, inevitabile). Proprio questa originaria matrice ‘fabbrichista’ doveva indirizzare verso quelle derive teoriche che Formenti ravvisa nel post-operaismo, e che di fatto spingono a ricercare sempre nelle diverse rivoluzioni tecnologiche e nei settori produttivi ‘avanzati’ le tracce del futuro soggetto conflittuale (l’«intellettualità di massa», la «moltitudine», il «cognitariato», ecc.)[65]. Ma questa stessa matrice si riflette anche nell’idea che sia concettualmente adeguato distinguere tra una dimensione ‘tecnica’ e una dimensione ‘politica’ della composizione di classe. Ed è proprio da questa distinzione che nascono una serie di ambiguità e di equivoci.

Alcuni dei problemi della distinzione fra composizione tecnica e composizione politica discendono probabilmente dalla stessa periodizzazione delle sequenze storiche della composizione di classe canonizzate dal ‘secondo operaismo’, tra gli anni Sessanta e Settanta. Il limite di quella periodizzazione – che, come si è visto, collocava una prima figura operaia all’altezza della grande urbanizzazione, fra il 1848 e il 1870, l’operaio professionale tra la Comune di Parigi e il «biennio rosso», e l’operaio massa dagli anni Venti fino agli anni Sessanta del Novecento – consisteva in qualche misura nella fissazione di un rapporto di determinazione eccessivamente rigido tra composizione ‘tecnica’ e composizione ‘politica’. A dispetto di tutte le forzature, quell’impostazione funzionava però molto bene sia per l’operaio professionale, sia per l’operaio massa, perché in entrambi i casi la genesi di un soggetto conflittuale era favorita dalla concentrazione del lavoro, ossia dall’esistenza dalla possibilità di tramutare il luogo fisico in cui la forza lavoro si trovava concentrata in un luogo di ricomposizione politica e dunque di attivazione del conflitto. Ma è invece l’assenza di concentrazione della forza lavoro (ossia la sua disseminazione sul territorio) che rende molto meno utile la distinzione analitica tra composizione tecnicae composizione politica: quella distinzione che, come si è visto, Formenti, a dispetto di tutte le critiche al post-operaismo, continua invece ad adottare, e di cui eredita probabilmente anche le ambiguità, in special modo nel momento in cui – messa in questione la ‘spontaneità’ del passaggio dalla dimensione tecnica a quella politica – richiede l’intervento ‘dall’esterno’ di un attore specificamente ‘politico’.

Proprio per superare le ambiguità implicite nell’idea che sia possibile distinguere tra una dimensione ‘tecnica’ e una ‘politica’ della composizione, accanto alla periodizzazione canonica che individua una sorta di successione tra l’operaio professionale, l’operaio massa e l’operaio sociale, sarebbe forse opportuno costruire un’altra periodizzazione, non centrata sulla successione tra figure ‘egemoni’, bensì sull’alternanza tra fasi di concentrazione e fasi di disseminazione della forza lavoro, tra fasi segnate dall’esistenza di una forza lavoro fortemente concentrata e fasi invece caratterizzate dalla dispersione della forza lavoro sul territorio. Una simile periodizzazione – che, va da sé, rimane ancora tutta da costruire – potrebbe forse chiarire un punto cruciale, relativo proprio al ruolo dell’organizzazione politica. A ben vedere, infatti, l’organizzazione ‘politica’ in senso stretto svolge nei due casi funzioni ben diverse. Nelle fasi di concentrazione, la forza lavoro non ha necessità dell’organizzazione ‘politica’ per attivare le proprie rivendicazioni, sia perché ha già un luogo ‘naturale’ in cui organizzarsi, sia perché ha una controparte ‘oggettiva’, sia perché ha una serie di obiettivi definiti dalla stessa struttura ‘tecnica’ del processo produttivo (i livelli salariali, la durata della giornata lavorativa, la disciplina interna, le mansioni, ecc.). In senso lato, anche in questo caso il conflitto ha una dimensione ‘politica’, perché incide sulle relazioni di potere interne al processo lavorativo, ma non richiede necessariamente l’esistenza di un’organizzazione ‘politica’ in senso specifico (un’organizzazione che cioè punta a operare sul terreno della politica nazionale, agendo all’interno e all’esterno all’arena istituzionale). Il problema di una simile organizzazione si pone semmai quando la forza lavoro di una singola impresa intende coordinare la propria azione e i propri obiettivi con l’intera forza lavoro di quel medesimo settore produttivo, o addirittura con l’intera classe operaia nazionale (per esempio, per imporre una durata massima della giornata di lavoro). In questo caso, l’organizzazione diventa già in qualche misura ‘politica’ in senso proprio, perché il conflitto inizia a spostarsi su un terreno che coinvolge il ruolo di ‘mediazione’ delle istituzioni politiche (un ruolo comunque originariamente circoscritto entro determinati margini). Ma, evidentemente, il conflitto è prima di tutto ‘economico’, perché nasce sul terreno delle relazioni di lavoro e nei luoghi del lavoro concentrato, per poi spostarsi altrove e diventare dunque anche un conflitto ‘politico’. Nelle fasi di prevalente dispersione della forza lavoro la sequenza è invece molto diversa, perché l’assenza di luoghi di concentrazione del lavoro colloca fin dal principio il nodo dell’organizzazione su un piano diverso. Naturalmente, l’assenza di luoghi concentrati non implica che non vi siano conflitti, ma spinge piuttosto questi conflitti ad assumere una connotazione più specificamente ‘politica’, perché la disseminazione induce a ricercare un confronto (più o meno diretto) con le istituzioni politiche. In sostanza, dato che non esistono luoghi fisici di concentrazione ‘dentro’ il processo lavorativo, questi luoghi e questi spazi devono essere costruiti nella società da organizzazioni che si profilano tendenzialmente come ‘politiche’. E, inoltre, dato che la frammentazione delle condizioni di lavoro risulta in questi casi spesso associata anche all’assenza di un avversario comune contro cui indirizzare le rivendicazioni economiche, le rivendicazioni vengono rivolte alle istituzioni politiche, nelle quali si trova non tanto (o necessariamente) un avversario, quanto il soggetto capace di consentire il raggiungimento di determinati obiettivi, che spesso non incidono direttamente sul livello del salario, bensì su condizioni ‘esterne’ alla relazione contrattuale (per esempio, il controllo dei prezzi delle derrate alimentari, la fissazione di tariffe sugli affitti, il costo dei servizi pubblici, la garanzia di prestazioni sociali gratuite).

Certo la sequenza di fasi di concentrazione e fasi di dispersionenon può essere considerata in termini eccessivamente schematici, anche perché è evidente che si tratta di tendenze che vanno considerate in termini relativi, e per gli effetti che producono, più che per la loro dimensione ‘oggettiva’. Ma, a dispetto di queste inevitabili cautele, non è probabilmente casuale che molti osservatori, per comprendere la logica che guida i movimenti odierni, non guardi al conflitto di fabbrica, ma ad esperienze di conflitto urbano, come i tumulti che attraversano tutta la prima età moderna, o addirittura alla Comune parigina[66]. A collegare queste esperienze è, probabilmente, proprio la presenza di una forza lavoro disseminata, che trova nella città il luogo della ‘concentrazione’ e della rivendicazione: evidentemente, a spingere verso lo spazio urbano è l’assenza di luoghi di concentrazione ‘economica’, in cui sia possibile ottenere risultati immediati (in termini salariali). Ma, se l’assenza di simili luoghi non impedisce la genesi del conflitto, ne modifica comunque fin dall’inizio gli obiettivi e le modalità di rivendicazione. Innanzitutto, la prevalente condizione di dispersione della forza lavoro spinge a ritrovare nella piazza il luogo principale dell’azione rivendicativa, e, inoltre, induce a costruire nello spazio urbano le sedi in cui la forza lavoro frammentata possa riunirsi stabilmente, trovare i propri stabili riferimenti organizzativi e consolidare le proprie coordinate identitarie. Ma, soprattutto, tende a configurare le rivendicazioni come fin dal principio ‘politiche’, sia perché ci si rivolge alle istituzioni politiche affinché queste intervengano direttamente o indirettamente (ma ‘dall’esterno’) sulle condizioni lavorative, sia perché le organizzazioni che vengono in questo modo costruite tendono a presentarsi come organi di potenziale autogoverno ‘politico’. Naturalmente, da questo punto di vista la Comune di Parigi rappresenta un caso emblematico, ma forse anche fuorviante, per i suoi caratteri eccezionali. Al contrario, l’esempio del «socialismo municipale» nato dal movimento contadino nella Bassa Padana sul finire dell’Ottocento, come alternativa a una strategia basata sull’organizzazione autonoma dei braccianti, mostra forse in modo più nitido questa sequenza, perché, a fronte di una condizione di dispersione della forza lavoro e di frammentazione delle condizioni contrattuali, viene individuata fin dal principio una strada ‘politica’, che consiste nella costruzione di luoghi di concentrazione politica e, in seguito, nella conquista delle istituzioni locali con l’obiettivo di intervenire ‘dall’esterno’ sulle condizioni di lavoro (con un welfare municipale, cooperative di consumo, ecc.)[67].

Per molti versi, la proposta centrata sull’immagine di un «Quinto Stato» composto dall’arcipelago di lavoratori freelance, formulata per esempio da Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, nasce proprio con l’obiettivo di costruire luoghi di concentrazione politica per lavoratori formalmente indipendenti o disseminati nello spazio metropolitano[68]. Nonostante Formenti critichi con forza una simile ipotesi (puntando soprattutto sull’«irriducibile individualismo» dei freelance, «che non consente loro di riconoscersi come parte di un’identità collettiva»[69]), è evidente che il suo ragionamento sulla necessità del partito si propone di rispondere a una domanda molto simile a quella che si pongono anche Allegri e Ciccarelli. In altre parole, sebbene Formenti riproponga uno schema ‘neo-operaista’ per riaffermare l’oggettività delle classi (e dunque del conflitto di classe), in realtà la sua riflessione sul partito prende le mosse proprio da una situazione in cui non esistono luoghi del lavoro ‘concentrato’ (o quantomeno in cui tali luoghi non sembrano capaci di innescare conflitti). E proprio l’assenza di quei luoghi della concentrazione della ‘forza lavoro’ induce a ricercare fuori dai processi di produzione il soggetto ‘politico’ capace di modificare dall’esterno i rapporti di forza e di fornire una ‘coscienza’ ai soggetti subalterni.

 

‘Tecnica’ o ‘politica’?

Riconoscere le distorsioni implicite nella distinzione tra composizione tecnica e composizione politica non significa però che sia impraticabile un utilizzo alternativo del concetto di composizione di classe. Fin dal momento in cui prende forma, alla metà degli anni Sessanta, il concetto classe viene d’altronde utilizzato anche in modo diverso, e dunque anche a un livello analitico generale: e cioè non solo per considerare il processo lavorativo, ma anche per ricostruire la «composizione» della classe al livello complessivo della produzione capitalistica. Così come il livello del capitale complessivo è un’astrazione teorica, così anche la composizione di classe rimaneva in questo caso un’astrazione, definita dall’analisi dei settori della forza lavoro (tra loro privi anche di qualsiasi connessione ‘tecnica’, ma potenzialmente unificati da legami ‘politici’, in termini di organizzazione o comunicazione). In questa direzione si muovevano per esempio le analisi dedicate da Alquati alla «composizione» della classe operaia italiana della metà degli anni Sessanta, in cui lo sguardo si estendeva oltre la grande fabbrica per considerare la «fabbrica verde», e dunque le trame dell’organizzazione operaia anche nelle attività agricole della Pianura padana[70]. Ma, in questo senso si sarebbe mossa, circa un decennio dopo, anche l’esperienza di «Primo maggio», il cui lavoro era diretto proprio a ripensare il paradigma operaista ‘relativizzando’ la centralità politica (e teorica) dell’«operaio massa»[71]. Così, nelle Otto tesi per la storia militante stese nel 1978 come traccia per un dibattito, Sergio Bologna precisava per esempio come, per ricostruire l’assetto della composizione di classe, si dovesse considerare «non soltanto la composizione tecnica, la struttura della forza-lavoro, ma anche la somma e l’intreccio delle forme di cultura e dei comportamenti sia dell’operaio massa che di tutti gli strati sussunti al capitale»[72]. E, proprio sulla scorta di una simile impostazione, la composizione di classe può essere considerata come la sedimentazione politica dei conflitti precedenti, un sedimento che viene in sostanza a modificare le relazioni di potere all’interno dei luoghi di lavori ma potenzialmente anche all’esterno, e che è palesato in linea generale dal livello del lavoro socialmente necessario, in un determinato contesto storico e in una specifica area geografica.

Una simile ridefinizione del concetto di composizione di classe, sviluppata solo in parte dalla ricerca operaista, non comporta però solo la ‘relativizzazione’ storica dell’esperienza e della ‘centralità politica’ dell’«operaio massa». Evidentemente, essa implica anche la messa in questione della stessa legittimità teorica della distinzione tra composizione tecnica e composizione politica. Se infatti si assume la composizione di classe come il risultato della somma e dell’intreccio di più figure – figure che non si succedono l’una all’altra, ma che risultano compresenti nella medesima fase storica – diventa infatti molto meno utile distinguere tra la ‘struttura tecnica’ della forza lavoro e le sue espressioni politiche. Non tanto perché determinate condizioni della struttura tecnica del processo lavorativo non vadano effettivamente a influenzare sia l’«antropologia» del lavoratore, sia le sue espressioni rivendicative. Quanto perché la dimensione ‘politica’ può mostrarsi come relativamente autonoma rispetto alle determinazioni materiali del processo lavorativo. E, soprattutto, perché questa dimensione ‘politica’ – una dimensione che si concretizza, di volta in volta, in sedimentazioni ideologiche, in tradizioni conflittuali, nella memoria politica – può trasferirsi da un segmento all’altro della forza lavoro, senza che tali settori abbiano in comune le stesse condizioni ‘tecniche’ di lavoro. In altre parole, una volta che si sia abbandonata una prospettiva ‘fabbrichista’, la composizione ‘politica’ può rivelarsi come una dimensione almeno ‘relativamente’ autonoma dal contesto tecnico del processo lavorativo, perché si può semmai riconoscere come l’insieme di quelle componenti vada a determinare la maggiore o minore rigidità della forza lavoro: una rigidità che non discende tanto dalla struttura tecnica della cooperazione lavorativa, quanto anche da altri fattori, che contribuiscono a determinare in uno specifico contesto il livello del lavoro socialmente necessario, e dunque il livello dei bisogni e il livello medio del salario.

Emblematico in questa direzione era proprio il caso del rapporto fra l’«operaio massa» e ciò che il filone post-operaista definì negli anni Settanta come «operaio sociale». Nella lettura più consolidata, il passaggio dall’una all’altra figura ‘centrale’ avveniva in seguito alla ristrutturazione produttiva, e cioè a una progressiva socializzazione, che per un verso ‘disseminava’ nella società il processo produttivo per sottrarsi al conflitto con classe operaia di fabbrica, ma che, dall’altro, creava le basi ‘tecniche’ per la nascita di una nuova figura conflittuale egemone. A ben vedere, nonostante quelle analisi cogliessero con grande anticipo molte tendenze della successiva ristrutturazione, esse mancavano di cogliere come lo sviluppo di quella conflittualità diffusa che imputavano all’«operaio sociale» non fosse un portato di una ristrutturazione ‘tecnica’, ma l’esito di un processo sostanzialmente ‘politico’, in seguito al quale modalità conflittuali proprie degli operai della grande fabbrica si estendevano a soggetti tradizionalmente estranei a quelle tradizioni (studenti, impiegati, tecnici, disoccupati). In altre parole, quella dinamica che veniva imputata alla socializzazione della produzione capitalistica era in realtà il portato di un processo ‘politico’ di socializzazione dei conflitti, un processo almeno ‘relativamente’ autonomo dalla dimensione puramente tecnica del processo produttivo, e che però ovviamente andava a incidere anche sul livello produttivo (beneficiando anche delle condizioni ‘tecniche’ di organizzazione del lavoro), secondo modalità molto eterogenee, comunque riconducibili a una dinamica generale di innalzamento del livello del lavoro socialmente necessario. E, dunque, nonostante per ciascuno di quei settori fosse teoricamente possibile distinguere tra una composizione tecnicae una composizione politica, era piuttosto evidente che la seconda appariva determinata non tanto dalle dimensioni ‘tecniche’ del processo lavorativo, quanto da una rigidità politica indotta ‘dall’esterno’: comunque non da un partito (o dalla ‘coscienza’ di cui esso poteva farsi interprete), bensì dalla effettiva circolazione dei comportamenti conflittuali attraverso settori e attività tra loro molto differenti e virtualmente tra loro persino indipendenti.

Se dunque si riconosce che la rigidità politicaè ‘relativamente’ autonoma dalla struttura tecnica, e se così si abbandona l’idea che esista un rapporto di determinazione ‘necessaria’ fra l’una e l’altra, allora diventa anche evidente che la stessa distinzione tra i due momenti – ‘tecnico’ e ‘politico’ diventa molto meno utile, se non addirittura dannosa. La «composizione» può piuttosto essere intesa come il deposito di sedimentazioni conflittuali: sedimentazioni che possono anche essere il risultato dell’azione svolta da organizzazioni ‘politiche’ in senso stretto (oltre che, potenzialmente, di molte altre componenti, come per esempio la presenza di subculture etniche, linguistiche, confessionali), ma che in ogni caso non coincidono necessariamente con quelle organizzazioni. Un simile ripensamento comporterebbe dunque per molti versi il riconoscimento di un’autonomia (relativa) della ‘cultura’ rispetto alla dimensione ‘tecnica’ e ‘oggettiva’ della divisione tra capitale e lavoro, nel senso che le identità ‘culturali’ (che ovviamente non sono ereditate in forma cristallizzata dal passato, ma sono costantemente ricreate e ridefinite) possono andare a influire sull’attivazione di conflitti e, dunque, riflettersi in termini di rigidità sulla composizione di classe, sebbene tale influenza possa agire in diverse direzioni (basti pensare al ruolo ambivalente che giocano le identità etniche). Ma una simile ridefinizione del concetto di composizione di classe comporterebbe anche un riconoscimento dell’«autonomia del politico» ben più radicale di quello che Formenti appare disposto a concedere. Perché, in effetti, diventerebbe necessario assegnare alla dimensione politica – alla dimensione delle identità collettive e dei loro riferimenti simbolici – una autonomia addirittura ‘ontologica’ rispetto alla dimensione del conflitto sociale ed ‘economico’. In altre parole, una ridefinizione di questo genere comporterebbe anche il riconoscimento dell’autonomia ‘ontologica’ della politica, cioè la rinuncia a ogni tentativo di incardinare l’autonomia della politica sul perno di una conoscenza della struttura ‘oggettiva’ della società, oltre che un contestuale riconoscimento che le identità politiche (con tutte le loro così ingombranti ‘regolarità’) sono almeno ‘relativamente autonome’ dalla base materiale dei rapporti sociali e dalla dinamiche ‘economiche’. E se forse un simile riconoscimento dell’autonomia della politica (che naturalmente non coincide con l’autonomia, più o meno ‘relativa’, dello Stato) non è del tutto, o necessariamente, in contraddizione con gli assunti di fondo dell’operaismo, è però abbastanza chiaro che Formenti non sembra affatto disposto a compiere un passo del genere, nonostante molte delle sue intuizioni e molte delle sue critiche al post-operaismo vadano proprio in questa direzione.

 

Quale autonomia del politico?

Oltre al paradossale accostamento tra la riaffermazione ‘neo-operaista’ della centralità dei luoghi del lavoro concentrato e il ritorno ‘neo-leninista’ alla necessità del partito, c’è d’altronde anche un altro elemento di contraddizione almeno parziale nel discorso di Formenti. E questo riguarda proprio il grado di autonomia da riconoscere alla ‘cultura’ e alla ‘politica’. Per un verso Utopie letali attacca senza esitazioni le deformazioni ‘culturaliste’ dei cultural studies o la teoria delle identità politiche di Laclau, accusandole di abbandonare l’idea che il conflitto di classe abbia basi ‘oggettive’ nella società e, conseguentemente, di trasferire il conflitto su un terreno puramente culturale, nel quale ciò che conta – più della materialità dei rapporti di produzione – sono le costruzioni simboliche e narrative delle identità. Per l’altro, però, Formenti non rinuncia affatto alla dimensione ‘culturale’, e anzi – quando per esempio evoca il maoismo ‘reinventato’ dei giovani operai cinesi, l’identità locale della Val di Susa, l’estraneità politica delle periferie britanniche – continua a considerare proprio delle componenti ‘culturali’ come presupposto dei conflitti. Tanto che, nelle conclusioni principali, giunge a sostenere che «memoria storica di antiche lotte, presenza di idee, narrazioni e soggettività politicamente formare da precedenti esperienze offrono sempre l’indispensabile innesco affinché un movimento possa sorgere e crescere», o che, insieme alla composizione di classe, le «caratteristiche socio-culturali di un settore o distretto produttivo, di un territorio o area urbana, pur non determinando meccanicamente intensità e contenuto di una lotta, ne rappresentano l’imprescindibile presupposto»[73]. Una simile contraddizione può forse apparire solo marginale, ma è proprio per superarla che Formenti decide di tornare alla concezione leninista del partito e, soprattutto alla concezione ortodossa della ‘coscienza di classe’: e cioè non solo a una concezione ‘sostanzialista’ del conflitto (e cioè una concezione che sostiene che le classi esistono ‘oggettivamente’ nella struttura della società), ma anche a una concezione secondo cui il partito – detentore di una conoscenza non mistificata della realtà – deve condurre la classe verso la sua unificazione politica e verso il pieno riconoscimento di se stessa e del proprio ruolo.

Tutte le ambiguità che attraversano Utopie letali possono forse apparire solo come piccole, talvolta persino minuscole, contraddizioni teoriche nel tessuto di un’operazione che rimane comunque coerente nel perseguire il proprio intento polemico. Ma è probabile che proprio nello spazio aperto da queste contraddizioni possano insinuarsi enormi problemi politici. Un primo problema riguarda innanzitutto non tanto la gerarchia interna al partito di cui Formenti delinea la sagoma, quanto la gerarchia fra i soggetti sociali e le loro rivendicazioni. Se infatti Formenti ritiene che il partito sia la forma organizzata di una parte sociale, se soprattutto ritiene che le classi abbiano un’esistenza ‘oggettiva’, e se pensa che sia proprio il partito a dover ‘riconoscere’ gli interessi ‘reali’ e ‘oggettivi’ della classe, allora da ciò discende anche che il partito dovrà almeno virtualmente essere investito della funzione – ‘politica’, ma anche ‘scientifica’ – di fare ordine tra rivendicazioni di ordine diverso, più o meno importanti, più o meno ‘politiche’, più o meno capaci di modificare le relazioni di potere o di indirizzarsi verso la «transizione». E dunque che, qualora sia necessario, spetterà al partito – in quanto organo dotato degli strumenti teorici adeguati a decifrare l’«oggettività» della struttura sociale nascosta dietro le mistificazioni ideologiche – stabilire la gerarchia fra le rivendicazioni di settori diversi della forza lavoro, cioè, per esempio, fra le istanze dei lavoratori ‘produttivi’ e i lavoratori ‘improduttivi’, o tra occupati e disoccupati, tra i lavoratori del settore ‘privato’ e i lavoratori del settore ‘pubblico’ (ai cui peraltro Formenti non dedica alcuna sostanziale attenzione). Ma, accanto a questo primo problema, si trova anche una questione di portata ben superiore, che scaturisce proprio dalla scelta di recuperare – più o meno con convinzione – l’immagine del partito costruita dal marxismo novecentesco.

Quando infatti Formenti sceglie di riprendere quella immagine, e dunque di tornare a concepire il partito come il soggetto dotato di una conoscenza non mistificata della realtà sociale e dunque capace di guidare la classe alla conquista della propria coscienza, rinuncia di fatto ad affrontare quello che probabilmente è oggi il problema principale del partito come ‘forma’ organizzata dell’agire politico. Un problema che non ha tanto a che vedere con l’organizzazione in senso stretto, quanto con ciò che tiene insieme nel tempo un’organizzazione e i suoi militanti, ossia la presenza di un tessuto di identità, di rituali e di simboli. Perché sono proprio queste componenti – componenti che naturalmente non sono riducibili alla dimensione strumentale dell’organizzazione – a costituire il presupposto di ogni organizzazione politica, e in special modo per gruppi sociali privi di risorse finanziarie e istituzionali. Ma è invece a questo proposito che il ‘ritorno a Lenin’ impedisce a Formenti di cogliere veramente la portata dell’«autonomia del politico», ossia le implicazioni di un riconoscimento pieno dell’autonomia non solo dell’organizzazione, ma soprattutto delle identità politiche. Ed è dunque qui che rinuncia a riconoscere come la vera sfida per il partito – per qualsiasi partito del XXI secolo – sia costituita dal superamento dello Zeitgeist postpolitico e antipolitico, e dunque dalla costruzione di nuove identità collettive, di nuove visioni politiche, di nuove ‘culture politiche’[74].

Proprio in questa direzione – e cioè nella direzione di un pieno (e pertanto persino sconcertante) riconoscimento dell’autonomia del politico – andava la ricerca teorica di Ernesto Laclau, che invece Formenti critica così nettamente nelle pagine di Utopie letali[75]. Certo, nella riflessione di Laclau non manca più di qualche punto critico, e soprattutto rimane del tutto inevasa la questione del rapporto che esiste tra il piano in cui si formano le identità politiche e il livello delle relazioni di potere (e dunque rimane senza risposta la domanda sulle ricadute che i processi di costruzione ‘simbolica’ dei soggetti politici hanno sulle dimensioni ‘materiali’ del potere)[76]. Ma ciò che più conta, al di là di tutti i limiti di questa proposta, è che seguendo Laclau e le sue suggestioni il problema del partito viene a configurasi in modo piuttosto diverso da come Formenti lo pone. Perché, in questo caso, il partito non appare tanto come un’organizzazione, e cioè come lo strumento di cui un gruppo sociale si deve dotare per raggiungere determinati obiettivi, economici o politici. Piuttosto, una volta riconosciuta davvero l’autonomia del politico, il partito appare piuttosto come una sorta di ‘principe post-moderno’, capace di costruire quel mito capace di ‘plasmare’ politicamente la società (e dunque di dare forma politica a quella «parte» di cui si propone di difendere la causa). Ma, a ben vedere, era proprio questa la direzione che indicava lo stesso Formenti negli anni Novanta, quando segnalava la necessità politica dei ‘piccoli miti’. E per quanto lungo questa via sia pressoché inevitabile inoltrarsi su un terreno scivoloso, tutt’altro che privo di insidie, è solo attraverso questa strada che diventa possibile accomiatarsi per davvero dall’immagine novecentesca del partito detentore di una conoscenza ‘scientifica’ della società. Arrivando così a riconoscere che il «partito» è forse prima di tutto un costruttore di miti, di identità, di visioni politiche. E che il problema allora non è tanto di scrivere oggi un «Lenin a Pechino» che attualizzi il «Lenin in Inghilterra» dell’operaismo degli anni Sessanta, quanto forse di immaginare per il XXI secolo qualcosa di simile a un «Sorel a Manhattan».

 

Note
[1] Classe partito classe, in «Classe operaia», marzo 1967, p. 28.
[2] C. Formenti, Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna, Jaca Book, Milano, 2013.
[3] F. Berardi ‘Bifo’, Utile futile ma non letale, in «Alfabeta2», n. 34, gennaio-febbraio 2014, p. 13.
[4] Per una sintesi delle diverse raffigurazioni della ‘sinistra’ sagoma del partito, rimando a D. Palano, Partito, Il Mulino, Bologna, 2013.
[5] C. Formenti, Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Internet, Cortina, Milano, 2000, p. 16.
[6] Ibi, p. 280.
[7] Ibi, pp. 280-281.
[8] C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy, Einaudi, Torino, 2002, e Id., Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, Cortina, Milano, 2008.
[9] C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea, Milano, 2011.
[10] Per un’analisi più completa di questo passaggio, rinvio alle considerazioni che ho svolto in Il viaggio di Hermes. A proposito di «Felici e sfruttati» di Carlo Formenti, 10 febbraio 2012 [http://www.damianopalano.com/2012/02/il-viaggio-di-hermes-proposito-di.html].
[11] C. Formenti, Felici e sfruttati, cit., p. 144.
[12] Ibi, p. 145.
[13] C. Formenti, Utopie letali,cit., pp. 241-242.
[14] Ibi, p. 29.
[15] C. Formenti, La fine del valore d’uso. Riproduzione, informazione, controllo, Feltrinelli, Milano, 1980.
[16] È stato Mario Tronti (Per una critica dell’immaterialismo storico, in «alfalibri», maggio 2011, p. 11) a suggerire che la posizione di Formenti si avvicina alla prospettiva dei «neo-operaisti» (come, per esempio, i ricercatori del Crs che hanno ricostruito le dinamiche di trasformazione della Fiat di Pomigliano d’Arco in Nuova Panda schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia, DeriveApprodi, Roma, 2011), in contrapposizione al post-operaismo che teorizza il «comune».
[17] C. Formenti, Utopie letali, cit., p. 66.
[18] Ibidem.
[19] Ibi, p. 67.
[20] Nonostante la formula «post-operaismo» inizi a essere utilizzata solo piuttosto tardi, è a mio avviso possibile individuare già al principio degli anni Settanta una prima cesura fra l’originario impianto operaista e le ipotesi successive del post-operaismo (sviluppate soprattutto da Negri). Altre letture, come per esempio quelle fornite da Tronti e Alquati spostano più indietro la cesura, facendola coincidere con la chiusura di «Classe operaia»: cfr. M. Tronti, Noi operaisti, Derive Approdi, Roma, 2010, e R. Alquati, Per una storia di Classe operaia», in «Bailamme», 1999, n. 24, pp. 173-205, ora in F. Milana – G. Trotta (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Dai «Quaderni rossi» a «classe operaia», Derive Approdi, Roma, 2008, pp. 731-752.
[21] C. Formenti, Incantati dalla rete, cit., p. 273.
[22] C. Formenti, Utopie letali, cit., p. 72.
[23] Ibi, p. 75.
[24] Ibi, p. 77.
[25] Ibi, p. 77.
[26] Ibi, p. 104.
[27] Ibi, p. 105.
[28] Ibi, p. 105.
[29] Ibi, p. 108.
[30] Ibi, p. 121.
[31] C. Formenti, Felici e sfruttati, cit., p. 138.
[32] Ibi, p. 147.
[33] C. Formenti, Utopie letali, cit., p. 147.
[34] Ibi, p. 173.
[35] Ibi, p. 184.
[36] Ibidem.
[37] Ibi, pp. 183-184.
[38] Ibi, p. 239.
[39] Ibi, p. 240.
[40] Cfr. per esempio B. Vecchi, Il futuro anteriore del moderno, in «il manifesto, 2 gennaio 2014, gli interventi raccolti in «alfabeta 2», 2014, n. 34 (dello stesso B. Vecchi, Ricostruzione della classe, di A. Simone, Donne venute dopo, e di Franco Berardi, Utile futile ma non letale, cui è seguita una replica di Formenti, Aporie della moltitudine), G. Forges Davanzati, Fra utopie letali e crisi reali, in «Micromega», n. 1, 2014, e R. Madera, Utopia, come tu mi vuoi, in «l’Unità», 15 dicembre 2013 (che però accenna al volume solo tangenzialmente).
[41] C. Formenti, Nuove tecniche inquisitorie e astrazione politica, in «aut aut», n. 172, 1979, p. 172.
[42] Ibidem.
[43] Per la critica della forma-partito svolta da questa formazione, cfr. per esempio Una proposta per un diverso modo di fare politica, in «Rosso, n. 7, 1973, ma anche l’intervento di P. Gambazzi, Estraneità, coscienza di classe partito, in Lotte operaie, organizzazione dell’autonomia e problema del partito, Rassegna Comunista, Milano, 1973, pp. 63-96, e il denso saggio di R. Madera, Identità e feticismo. Forma di valore e critica del soggetto, Marx e Nietzsche, Moizzi, Milano, 1977.
[44] C. Formenti, Prometeo ed Hermes. Colpa e origine nell’immaginario tardo-moderno, Liguori, Napoli, 1988, p. 133 (I ed. 1986).
[45] Ibidem.
[46] Ibi, p. 164.
[47] Ibi, p. 166.
[48] C. Formenti, Cybersoviet, cit., p. XIII.
[49] C. Formenti, Felici e sfruttati, cit., pp. 127-128.
[50] Per una ricostruzione più compiuta del concetto, rinvio al saggio Il bandolo della matassa. Forza lavoro, composizione di classe, capitale sociale: note sul metodo dell’inchiesta (1999), in Il bandolo della matassa. Pensiero critico nella società senza centro, Milano, Multimedia Publishing, 2009, pp. 115-167.
[51] Composizione della classe, in «Classe Operaia», 1965, n. 1, p. 8.
[52] r.a. [Romano Alquati], Una ricerca sulla struttura interna della classe operaia in Italia, in «Classe Operaia», 1965, n. 1, p. 8.
[53] M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino, 19712 (I. ed. 1966).
[54] S. Bologna et al., Operai e stato. Lotte operaie e riforma dello stato capitalistico tra rivoluzione d’Ottobre e New Deal, Feltrinelli, Milano, 1972, pp. 7-11.
[55] S. Bologna, Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movimento consiliare, in S. Bologna et al., Operai e Stato, cit., pp. 15-16.
[56] A. Negri, Movimento operaio, in Id. (a cura di), Scienze politiche 1. Stato e politica, Enciclopedia Feltrinelli-Fischer, Milano, 1970, pp. 228-237, p. 229. È significativo che la medesima distinzione tra «composizione tecnica» e «composizione politica» venga ripresa oggi da C. Vercellone, Fine del lavoro e terzo settore, in Posse, n. 2-3, 2001, pp. 326-343, che peraltro critica con originalità e rigore le tesi sulla «fine del lavoro» e sul ruolo del «terzo settore» avanzate, tra gli altri, da Marco Revelli.
[57] M. Hardt – A Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano, 2009, p. 149.
[58] Ibi, p. 142.
[59] Ibi, p. 349.
[60] Ibi, pp. 349-350.
[61] Ibi, p. 350.
[62] Ibi, p. 351
[63] Classe partito classe, cit., p. 28.
[64] Sono da questo punto di vista emblematiche, per esempio, le riflessioni compiute da Marco Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino, 2012, e i materiali raccolti nel numero monografico Partito perso di «Alternative per il socialismo», n. 28, 2013. Ma sono interessanti anche le riletture della critica alla forma-partito formulate da Simone Weil negli anni Quaranta: S. Weil, Senza partito. Obbligo e diritto per una nuova pratica politica, a cura di Marco Dotti, Feltrinelli, Vita, Milano, 2013 (con contributi di Revelli e Andrea Simoncini).
[65] Sulla logica che guida questa ricerca costante, rinvio ad alcune considerazioni svolte, per esempio, in Dioniso postmoderno (2000), Multimedia Publishing, Milano, 2008, e The «excessess» of cognitive capitalism, in «Historical Materialism», 2013, n. 3, pp. 229-245.
[66] Cfr. per esempio A. De Benedictis, Tumulti. Moltitudini ribelli in età moderna, Il Mulino, Bologna, 2013, e D. Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Il Saggiatore, Milano, 2013. Sarebbero da rileggere forse, da questa prospettiva, G. Rudé, La folla nella storia. 1730-1848, Editori Riuniti, 1984, Id., Dalla Bastiglia al Termidoro. Le masse nella rivoluzione francese, Editori Riuniti, Roma, 1989, E.P. Thompson, The Moral Economy of the English Crowd in the Eighteenth Century, in «Past and Present», 1971, pp. 76-136, e C. Tilly, The Food Riot as a Form of Political Conflict in France, in «Journal of Interdisciplinary History», II, 1971, pp. 23-57. Ma si potrebbero riconsiderare da questa prospettiva anche le vecchie pagine di S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano, 1880-1900, La Nuova Italia, Firenze, 1972, in cui uno degli elementi più interessanti – come già sottolineava Sergio Bologna quarant’anni fa – era rappresentato dal «rapporto tra industria e lavoro a domicilio» (S. Bologna, Una storia di classe del proletariato italiano, in «Quaderni piacentini», 1973, n. 50, p. 164).
[67] Ancora utile è, in questo senso, la vecchia ricostruzione proposta da G. Sivini, Socialisti e cattolici in Italia dalla società allo stato, in Id. (a cura di), Sociologia dei partiti politici, Il Mulino, Bologna, 1971.
[68] Cfr. G. Allegri – R. Ciccarelli, Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro. Precari, autonomi, free lance per una nuova società, Ponte Alle Grazie, Firenze, 2013, ma anche S. Bologna – D. Banfi, Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro, Feltrinelli, Milano, 2011. Su queste posizioni, rinvio alle considerazioni svolte in Che cosa è il Quinto Stato. Leggendo un libro di Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli, in «Tysm Literary Review», n. 6, 2013 [http://tysm.org/?p=10474].
[69] C. Formenti, Utopie letali, cit., p. 102.
[70] Cfr. per esempio R. Alquati, Il partito nella «fabbrica verde»: note sulle lotte operaie nella Padana Irrigua, in «Classe operaia», II (1965), n. 4-5, ora in Id., Sulla Fiat e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 254-273.
[71] Cfr. C. Bermani (a cura di), La rivista «Primo maggio». 1973-1988, Derive Approdi, Roma, 2010. Ma, su questa riflessione, rimando anche a Nel cervello della crisi. La «storia militante» di Sergio Bologna tra passato e presente, in «tysm literary review», 2013, n. 6 [http://tysm.org/wp-content/uploads/2013/11/Damiano-Palano-La-storia-militante-di-Sergio-Bologna.pdf].
[72] Primo Maggio, Otto tesi per la storia militante, in «Primo maggio», 1978, n. 11, p. 62.
[73] Non è difficile trovare una traccia visibile di questa contraddizione nel riferimento, pur incidentale, di Formenti alla concezione della coscienza di classe di E.P. Thompson: se infatti da un lato Formenti sostiene l’esistenza ‘oggettiva’ delle classi, contro le derive ‘culturaliste’, dall’altro evoca una visione in larga parte ‘culturalista’ come quella di Thompson: una visione in cui la «coscienza di classe» è soprattutto composta da identità, elementi culturali, di memoria, che inducono un gruppo specifico a vedere i propri interessi in un certo modo; una visione, dunque, sostanzialmente diversa da quella proposta dal marxismo ‘ortodosso’, secondo cui la coscienza di classe è la conoscenza dei ‘veri’ interessi (politici e storici, non puramente economici) della classe operaia. E non è dunque sorprendente che (proprio per il peso assegnato alla dimensione ‘culturale’), la lettura di Thompson fosse sovente utilizzata in chiave polemica contro il post-operaismo degli anni Settanta da quanti intendevano sostenere l’autonomia delle culture subalterne, e che sottolineavano, per esempio, come l’«operaio massa» della Fiat avesse ereditato almeno in parte la tradizione e i rituali delle ribellioni contadine del Mezzogiorno, o come l’«operaio disseminato» della metropoli fosse anche un risultato della sedimentazioni delle contro-culture giovanili: cfr., per esempio, G.Lerner – L. Manconi – M. Sinibaldi, Uno strano movimento di strani studenti. Composizione, politica e cultura dei non garantiti, Feltrinelli, Milano, 1978, e M. Flores – A. Triulzi, Storia militante e storia orale: alcune perplessità, in «Ombre rosse», 1979, n. 30. Per un accenno a questo utilizzo di Thompson, si veda invece S. Bologna, Per una «società degli storici militanti», in S. Bologna et al., Dieci interventi sulla storia sociale, Rosenberg & Sellier, Torino, 1981, p. 16.
[74] Per una più completa argomentazione su questo punto, rinvio al discorso sviluppato in Il partito oltre il «secolo breve»: tracce per un ripensamento, in «Spazio filosofico», 2013, n. 9, pp. 369-384 [http://www.spaziofilosofico.it/numero-09/4270/il-partito-oltre-il-secolo-breve-tracce-per-un-ripensamento/], e Il deficit simbolico del partiti post-moderni, in «Vita e Pensiero», n. 1, pp. 98-102.
[75] I principali tasselli della ricerca di Laclau sono naturalmente rappresentati da E. Laclau – C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical democratic Politics, London, Verso, 1985, ed E. Laclau, On Populist Reason, Verso, London, 2005.
[76] Su questo problema mi sono soffermato per esempio in Il principe populista. La sfida di Ernesto Laclau alla teoria democratica, in M. Baldassari – D. Melegari (a cura di), Il popolo che manca. La teoria radicale di Ernesto Laclau, Ombre corte, Verona, pp. 241-261. Ma su questo aspetto sono da vedere anche alcune osservazioni di Laclau formulate nell’intervista rilasciata a Baldassari e Melegari, che apre il volume.
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