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sinistra

Dove sono i nostri

Riflessioni su classe, coscienza, politica

Domenico Moro

DSC00042Recentemente è uscito nelle librerie “Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della Crisi” (la casa Usher, euro 10), scritto dal collettivo Clash city workers. Si tratta di un libro straordinario, nel senso letterale della parola, cioè di fuori dell’ordinario, sia per i temi che affronta sia per il metodo che adotta. Oggetto del libro è la composizione di classe, ovvero le caratteristiche e la struttura delle classi sociali in Italia. L’attenzione è rivolta in particolare alla classe dei lavoratori salariati (i nostri del titolo), ma, elemento da non sottovalutare, viene dedicato ampio spazio anche al lavoro autonomo ed ai settori intermedi e piccolo borghesi, che hanno sempre giocato un ruolo importante nella vita politica italiana. Sono questi temi quasi del tutto ignorati da decenni sia dalla ricerca universitaria (sociologica, politologica ed economica) sia da sindacati e da partiti di sinistra e persino comunisti. L’approccio degli autori non è accademico, visto che l’analisi è dichiaratamente funzionale all’azione, cioè alla ripresa e allo sviluppo della lotta di classe in Italia. “Dove sono i nostri è un libro coraggioso perché rimette al centro del dibattito politico le classi e la lotta di classe senza tacere di farlo in un’ottica di trasformazione rivoluzionaria dell’esistente e ponendosi questioni enormi ma ormai ineludibili, come la ricomposizione e l’organizzazione della classe lavoratrice. Del resto, chiunque voglia ricostruire una presenza organizzata sindacale e politica di classe nel nostro Paese non può esimersi dal partire da che cosa sono i salariati qui ed ora. Lavori di questo tipo sono un segnale positivo da valorizzare e sviluppare specie nel momento attuale, quando la sinistra di classe e i comunisti vivono il momento di maggiore arretramento dalla fine della Seconda guerra mondiale".

L’analisi di Clash city workers è importante anche perché ha il merito di partire dai dati empirici e di essere sistematica e tendenzialmente complessiva. Dei “nostri”, cioè dei lavoratori salariati ci viene illustrato dove sono, quanti sono e chi sono, se sono donne, immigrati, giovani, se stanno in questo o quell’altro settore dell’economia o in questa o quell’altra area del Paese. Gli autori a questo scopo hanno svolto una certosina ricerca negli archivi soprattutto dell’Istat, compresi i censimenti e le rilevazioni delle forze di lavoro. La descrizione della classe è basata sulla classificazione per attività economiche dell’Istat (Ateco), ma è sempre sviluppata in maniera critica, perché c’è chiara la consapevolezza in chi scrive che le classificazioni statistiche, come tutte le classificazioni delle scienze sociali, implicano una determinata concezione della realtà, influenzata dai rapporti sociali, e quindi non sono mai neutrali. Ma senza il riferimento ai dati dell’Istat (e di Eurostat) non sarebbe possibile avere un quadro dettagliato e complessivo della classe oggi in Italia, per il quale si necessita di risorse e strumenti enormi. Un impegno che oggi è giudicato gravoso persino dagli istituti di statistica nazionali, se è vero che c’è la tendenza a sostituire i censimenti periodici con indagini campionarie e censimenti continui che integrino le rilevazioni con gli archivi dei vari enti statali. Troppo spesso la sinistra negli ultimi anni si è focalizzata o piuttosto si è limitata a parlare di inchiesta operaia, ispirandosi al famoso questionario di Marx, quando lo stesso Marx vedeva l’inchiesta soprattutto come strumento di lotta per penetrare all’interno della classe operaia, favorendone la presa di coscienza della propria condizione, invece che come strumento di ricerca scientifica. Ad ogni modo, “Dove sono i nostri” non si limita al dato statistico quantitativo, in quanto alla descrizione di ogni settore del lavoro salariato si accompagna sempre un richiamo all’esperienza diretta del collettivo dei Clash city workers con i vari settori del lavoro salariato in anni di lotte e vertenze in alcune delle aree metropolitane principali del nostro Paese. Di ogni settore viene valutato il grado di centralità nella accumulazione capitalistica nonché la capacità di mobilitazione espressa negli ultimi anni, la presenza del sindacato, e le potenzialità di ricomposizione con il resto della classe e di antagonismo nei confronti del capitalismo.

L’impiego del dato quantitativo e statistico, unitamente al recupero delle categorie marxiste di interpretazione dei rapporti di produzione, permette ai Clash city workers di fornire una risposta esplicita alle tendenze culturali che negli ultimi vent’anni hanno determinato una forte confusione teorica. Infatti, le trasformazioni nel processo di accumulazione del capitale svoltesi a partire dagli anni ’80 sono state l’occasione per eliminare, insieme alle categorie marxiste, la centralità della classe operaia, ovvero del lavoro salariato e produttivo di plusvalore. La terziarizzazione è stata intesa come il superamento dell’industria e della manifattura a favore della produzione immateriale, il superamento del fordismo come la morte della grande fabbrica, e la rivoluzione informatica e tecnologica come la sostituzione del lavoro subordinato con il cosiddetto lavoro “cognitivo”. Infine, l’eliminazione del soggetto di classe del processo di lotta ha condotto a quella che alcuni con compiacimento hanno definito “sinistra senza aggettivi”, contribuendo così pesantemente alla decadenza della sinistra politica nel nostro Paese1.

Dati alla mano, “Dove sono i nostri” ci dice invece che il settore impiegato nell’industria, dopo decenni di trasformazioni e nonostante i devastanti effetti della crisi, è tutt’ora quello largamente più consistente all’interno del lavoro: quasi 4 milioni di addetti nella manifattura che diventano 5,8 milioni nell’industria strettamente intesa (censimento 2011). Inoltre, attraverso un dettagliato lavoro di scomposizione dei settori Ateco, ci dice un’altra cosa importante e cioè che una parte notevole delle unità perse da questo settore e ora classificate nel terziario, sono in realtà composte di lavoratori esternalizzati, che continuano a svolgere il loro lavoro o dentro la fabbrica o all’esterno, ma sempre in relazione diretta o indiretta alla produzione della grande fabbrica, che rimane centrale nella produzione della ricchezza sociale. A dispetto delle generalizzazioni dei teorici dell’economia della conoscenza, tra i lavoratori dei servizi la maggioranza svolge mansioni operaie e il rimanente, sebbene spesso con alta scolarizzazione, è costituito da lavoratori in buona parte proletarizzati, che più spesso di quanto si pensi svolgono mansioni ripetitive, parcellizzate, esecutive, e la cui subordinazione al capitale è schiacciante, sebbene spesso in forme mascherate come quelle del lavoro parasubordinato e delle false partite Iva. Anche la questione della frammentazione della produzione manifatturiera va ridimensionata, perché molte micro e piccole imprese sono nei fatti articolazioni della grande azienda, rispondendo a esigenze di riduzione dei costi e di neutralizzazione della capacità di mobilitazione dei lavoratori. Del resto, sebbene non esistano più aggregazioni giganti come Mirafiori con i suoi 50mila operai, è la grande impresa a presentare la quota maggiore di addetti. “Dove sono i nostri” sottolinea la centralità della manifattura nel sistema economico dei Paesi “a capitalismo avanzato”, che è confermata dagli sforzi, a partire dall’amministrazione Obama, per reinternalizzare parti di produzione migrate all’estero. Ma insiste anche, ed è la cosa più importante, sulla sua centralità soggettiva: <<Contrariamente a quanto comunemente pensano molti attivisti politici, che scontano su questo anche una mancanza complessiva di informazione e di conoscenza del mondo operaio, che si caratterizza per una conflittualità continua anche se non sempre visibile e di “piazza”, il proletariato della media-grande fabbrica rimane a tutt’oggi il soggetto più combattivo del mondo del lavoro, anche se spesso è incapace di creare relazioni che vadano oltre il perimetro del proprio stabilimento, pesantemente inquadrato com’è da sindacati che ne limitano l’azione.>> (pag. 76).

In queste poche righe c’è un mondo di contenuti e di problematiche. C’è una critica implicita a chi troppo velocemente ha liquidato la centralità operaia e della grande impresa, c’è l’osservazione che la lotta di classe c’è sempre, anche se in forme “invisibili”, c’è la frammentazione delle lotte (un tema centrale in Dove sono i nostri), e infine c’è la questione, sempre più centrale, del sindacato. Tuttavia, in “Dove sono i nostri” non siamo davanti al puro e semplice revival della centralità del lavoro produttivo. L’analisi, infatti, ripercorre le trasformazioni subite dalla composizione di classe non solo a seguito dei processi di esternalizzazione, ma anche a seguito delle privatizzazioni del welfare e dello sviluppo di settori legati all’espansione dell’accumulazione capitalistica, sia nuovi che vecchi, ma con una impetuosa espansione recente. Il lavoro produttivo viene rintracciato nello sviluppo di settori terziari come le comunicazioni, i trasporti e il magazzinaggio, l’informatica, l’istruzione e la sanità privata, ecc. Nessuna categoria del lavoro dipendente viene dimenticata, comprese la grande distribuzione e la Pubblica Amministrazione, alle quali vengono dedicate pagine interessanti. Pagine altrettanto importanti sono dedicate al ceto medio dell’artigianato e della piccola impresa, che, come viene sottolineato, ha svolto e svolge tutt’ora un ruolo importante nella politica di questo Paese, nonostante e forse a causa dei processi di ristrutturazione complessiva a livello europeo.

Alla fine di questa analisi e coerentemente con i fini pratici della loro riflessione, gli autori si pongono la domanda centrale del loro lavoro, che da il titolo al capitolo conclusivo: come organizzare il conflitto? In primo luogo, dicono i Clash city workers, le organizzazioni per essere efficaci devono ricalcare la struttura materiale dell’accumulazione. In caso contrario, gli insuccessi sono inevitabili, come in effetti si è dovuto registrare in Italia. Dunque, visto che la terziarizzazione dell’economia mette in collegamento diretto settori diversi su un piano internazionale, una organizzazione di lotta sindacale articolata per categorie e legata al solo piano nazionale risulta inadatta. L’organizzazione del lavoro salariato dovrebbe invece rispecchiare le filiere in cui è articolata la produzione capitalistica, mettendo in relazione settori economici diversi e individuando i nodi, rappresentati dalla grande imprese, che connettono i vari elementi della filiera e della subfornitura. Contemporaneamente è necessario internazionalizzarsi, cioè creare un network tra lavoratori di Paesi diversi.

Secondo gli autori, è proprio l’integrazione tra primario, secondario e terziario, combinata con la concentrazione dei capitali (dovuta alla finanziarizzazione) che determina l’unificazione oggettiva della classe lavoratrice: <<La combinazione di questi due processi, terziarizzazione dell’industria e finanziarizzazione, fa sì che dal punto di vista materiale questi lavoratori siano già uniti. Sono però artificialmente divisi da un punto di vista sindacale e soprattutto politico. Una volta preso atto di questa trasformazione materiale, qual è il nostro compito? Quello di lavorare per ricomporre da un punto di vista soggettivo quello che è oggettivamente connesso.>> (p. 179) Inoltre, visto che <<è in atto una uniformazione al ribasso di tutti i lavoratori, che vedono diventare le loro condizioni di vita e le loro aspettative sempre più simili, la classe è oggi molto più omogenea che in passato e nei prossimi anni lo sarà sempre di più>>. (p.191) Queste conclusioni destano, però, qualche perplessità. Sembrerebbe, infatti, che gli autori tengano conto solo di un aspetto di quanto emerge dalla loro stessa analisi. La realtà del lavoro si presenta dialetticamente sotto due aspetti contradditori. Uno effettivamente è quello del peggioramento generalizzato delle condizioni di vita e di lavoro. L’altro è la compresenza sui posti di lavoro di personale con tipologie contrattuali diverse e spesso dipendente da aziende diverse, cui si aggiunge l’articolazione della produzione in base a catene produttive basate su esternalizzazione e subfornitura. È quest’ultima condizione a rendere la classe frammentata e disomogenea, per taluni aspetti, come mai prima d’ora. Il fatto che il capitale sia sempre più interconnesso non implica affatto che lo siano i lavoratori. Anche affermare che la classe è separata da barriere artificiali può portare a non considerare che la classe è scomposta in primo luogo proprio sul piano materiale, cioè dell’organizzazione della produzione, come conseguenza dei processi oggettivi e “spontanei” dell’accumulazione. E questo è ancora più vero sul piano internazionale, dove i lavoratori periferici si guarderebbero bene dall’intraprendere una rivendicazione salariale che facesse saltare un investimento e quindi importanti posti di lavoro. Naturalmente, questi rilievi non significano che oggi non esistano le basi materiali per la ricomposizione e lo sviluppo della lotta di classe, ma che tale sviluppo deve essere prodotto tenendo conto dei limiti esistenti. Limiti per il cui superamento è necessario sciogliere il nodo dell’organizzazione.

A tale proposito, un’altra questione che richiede un sovrappiù di riflessione è quella della dimensione sindacale e politica, in cui vengono identificate le <<barriere artificiali>> di cui si diceva. Giustamente gli autori più volte osservano come il sindacato limiti l’azione della classe lavoratrice e assuma un ruolo collaborativo con il capitale in una dimensione neocorporativa, di cui la costituzione degli enti bilaterali è un esempio, e tenda a trasformarsi in agenzia di servizi. Tuttavia, al momento di trarre delle conclusioni, si dice che il problema <<non è tanto quello di fondare un “vero” sindacato conflittuale>>, ma <<entrare in contatto con la forza lavoro … se vogliamo costruire una coscienza di classe che si ponga all’altezza delle sfide che ci si parano davanti…Dobbiamo unire i lavoratori indipendentemente da territori, categorie, aziende, sindacati di appartenenza, li dobbiamo portare a porsi su un piano politico...>> (p.199)

A questo punto bisogna distinguere la questione in due aspetti. Il primo è quello del sindacato. Certamente è corretto quanto dicono gli autori che la lotta deve superare la dimensione aziendale, locale e settoriale e va portata sul piano generale. Rimane, però, il fatto che, come dimostrato dai governi degli ultimi anni le cui controriforme pesantissime sul piano del mercato del lavoro e delle pensioni sono passate senza colpo ferire, se il lavoro è ingabbiato in sindacati collaborativi c’è poco da generalizzare. Mi sembra evidente che se non si dispone di una organizzazione sindacale nazionale e autonoma dai partiti di governo non c’è verso che la situazione si sblocchi. In termini pratici, ciò significa fare i conti con quello che oggi è diventata la CGIL e con le potenzialità di sviluppo e coordinamento che hanno le sigle sindacali alla sua sinistra.

La seconda questione riguarda che cosa intendiamo per coscienza di classe e per politica. La coscienza di classe non è soltanto percezione di sé in quanto salariato e in quanto parte di un collettivo con interessi e caratteristiche comuni. Questa è la coscienza “economica”, che certamente è un ineludibile e importante primo passo. La coscienza “politica” di classe si sviluppa oltre il campo dei rapporti tra operai e padroni, matura nel campo dei rapporti tra tutte le classi con lo Stato e con il governo, nel campo dei rapporti reciproci fra tutte le classi. È insieme la consapevolezza dell’irriducibile antagonismo fra gli interessi del lavoro salariato e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo e la capacità di riorganizzare la totalità della società secondo quegli stessi interessi.

Di conseguenza, estendere la lotta sul piano politico vuol dire non soltanto generalizzare e unificare le lotte immediatamente economiche ma unificare le lotte in tutti i campi della vita sociale in una strategia complessiva per la conquista del potere politico. E, visto che l’espressione concentrata del potere è lo Stato, la lotta politica è in definitiva lotta contro lo Stato del capitale e per la conquista e la trasformazione della macchina statale stessa. La capacità di lottare politicamente, nei termini suddetti, implica ogni volta riuscire a elaborare la tattica giusta, che sia coerente con la strategia di trasformazione della realtà e che nello stesso tempo sia capace di tradurla in azione concreta qui ed ora. Oggi, ad esempio, bisogna avere la capacità di dare una nostra spiegazione della crisi e una prospettiva generale di superamento della crisi stessa, entrando nelle specificità della fase, dalla questione dell’euro a quella del debito pubblico, alle trasformazioni istituzionali. Mentre nel passato forse era possibile ricomporre la classe anche solo sulla difesa delle proprie condizioni economiche, oggi qualsiasi generalizzazione o ricomposizione delle lotte anche di quelle più limitatamente economiche solleva immediatamente problemi relativi alla organizzazione e all’indirizzo generali della società. È evidente, quindi, che se la politica è tutto questo, allora non possiamo esimerci dall’affrontare la questione dell’organizzazione politica, cioè del partito, che è un po’ il convitato di pietra di “Dove sono i nostri”. Quello del partito è il nodo intorno al quale si gioca la possibilità di fare il salto, auspicato anche dagli autori di “Dove sono i nostri”, dalla dimensione della difesa economica a quella della politica.

La situazione della classe lavoratrice in Europa e in Italia deve confrontarsi con condizioni di lotta molto difficili e livelli organizzativi spesso ridotti al lumicino, all’interno di un crisi epocale del capitale che si manifesta in forme inedite, che richiedono ai lavoratori una notevole capacità di collegare condizioni immediate e visione generale. Di fronte a questa situazione non ci sono scorciatoie. Il processo di ricostruzione di una soggettività di classe antagonista – sindacale e partitica - sarà lungo e difficile, e soprattutto richiederà apporti molteplici, rendendo necessaria una non scontata capacità di confronto e di sintesi fra le esperienze, parziali eppure fondamentali, che sono maturate in Italia negli ultimi anni. “Dove sono i nostri” è, a pieno diritto, il prodotto di una delle più interessanti di queste esperienze. Il contributo che ci offre è fondamentale, perché, restituendoci il soggetto sociale della trasformazione della società nella sua concretezza e materialità, finanche misurabile statisticamente, ci aiuta a piantare i nostri piedi ben saldi per terra. Avere come punto di riferimento permanente la classe lavoratrice e il radicamento al suo interno rappresenta il necessario antidoto alle derive politiciste e elettoralistiche che hanno caratterizzato gli ultimi decenni.

1 Su queste tematiche e sulla “sinistra senza aggettivi” può essere utile vedere questo mio saggio del 2009. 
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