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effimera

Platform Capitalism, oltre la dicotomia uomo-macchina

di Andrea Fumagalli

PiattaformeIn the day we sweat it out on the streets of a runaway American dream
At night we ride through the mansions of glory in suicide machines
Sprung from cages out on highway nine,
Chrome wheeled, fuel injected, and steppin’ out over the line
H-Oh, Baby this town rips the bones from your back
It’s a death trap, it’s a suicide rap
We gotta get out while we’re young
‘Cause tramps like us, baby we were born to run”

Bruce Springsteeen, Born to run

Sharing Economy, Gig Economy, Big Data Economy, Collaborative Economy, Crowdfunding Economy. Quando ci troviamo di fronte a diverse terminologie per indicare un fenomeno socio-economico, di solito significa che tale fenomeno o è molto complesso o non è ancora classificabile nelle categorie concettuali tradizionali. La complessità sta nel fatto che tali termini si riferiscono ad un insieme di pratiche differenziate che tagliano trasversalmente vari settori produttivi, caratterizzati da modalità organizzative e tecnologiche altrettanto differenti.

Uno degli elementi che accomunano questa fase così variamente definita, sta nel superamento del rapporto tradizionale tra uomo e macchina in grado di generare un rapporto di subordinazione e dipendenza. Non vogliamo dire che lo strumento macchinico scompaia ma piuttosto che esso svolge nuove funzioni e apre a un nuovo statuto proprietario possibile. Tuttavia, per non essere equivocati, preme sottolineare che tale statuto proprietario è del tutto ancora in fieri e non è regolato, al momento, da alcuna forma giuridica e contrattualistica.

Indipendentemente dal settore di lavoro (dalla ristorazione a domicilio – Foodora, Deliveroo – al lavoro digitale avanzato, da Uber alla piattaforme alternative, dal coworking, che produce start-up, alla finanza hacker), la forma contrattuale dominante è non a caso basata, in modo assai equivoco, sull’istituto giuridico del lavoro autonomo cosiddetto occasionale se non del lavoro gratuito tout court.

 

Un nuovo concetto di macchina e il valore di rete

La macchina di cui parliamo non è il classico mezzo di produzione meccanico (che non scompare affatto ma si diffonde alle più diverse latitudini) ma piuttosto quella macchina linguistica che oggi è rappresentata dall’algoritmo. Un algoritmo è un procedimento che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari. Il termine deriva dalla trascrizione latina del nome del matematico persiano al-Khwarizmi[1], che è considerato uno dei primi autori ad aver fatto riferimento a questo concetto. L’algoritmo è un concetto fondamentale dell’informatica, quindi è uno strumento in primo luogo linguistico applicato alla nozione di calcolabilità. Non è infatti un caso che sia un concetto cardine anche della fase di programmazione dello sviluppo di un software.

Nelle ultime tre decadi, l’ibridazione tra uomo e macchina si è intensificata, grazie soprattutto alla formulazione di algoritmi che sono in grado di evolversi continuamente sulla base degli input linguistici umani. Il principale campo di applicazione è rappresentato oggi dai social media e dalle produzioni computazionali di dati: data-mining. Se inizialmente le tecniche di data-mining erano la sofisticata evoluzione di tecniche di calcolo statistico (e ancora oggi vengono studiate in questa prospettiva impolitica e neutrale[2]) oggi sono sempre più fortemente interrelate con le caratteristiche personali, in grado di definire raccolte differenziati (individualizzate) di dati da commerciare poi liberamente.

Un noto esempio, su cui si è soffermato Matteo Pasquinelli, riguarda l’algoritmo Pagerank di Google[3]. L’algoritmo, oggi, si sta affermando, in modo trasversale, come espressione del general intellect, è la sua espressione fenomenologica. Una espressione varia e flessibile a seconda dell’ambito di riferimento. Non riguarda direttamente il bios ma il cognitivo. È oggi lo strumento per misurare il valore dell’intensità cognitiva. È allo stesso tempo sussunzione reale e formale. Ma è anche qualcosa di più. È misura matematica del valore di rete, in grado di condensare il wetware e il netware sulla base di un software. È quindi base, allo stesso tempo, di accumulazione e valorizzazione.

L’esempio di PageRank (oggi già sorpassato) è paradigmatico di un’evoluzione dei processi di valorizzazione contemporanea che, partendo dal cognitivo, hanno sempre più pervaso il bios, al punto che l’evoluzione tra uomo e macchina tende a diversificarsi sempre più lungo due direttrici parallele e sinergiche: il rapporto tra soggettività e macchina e quello tra corpo fisico e macchina.

Del primo si è scritto molto, a partire dagli anni Novanta quando si è indagato il rapporto tra mente e macchina. E su tale ibridazione che Franco Berardi conia nei primi anni 2000 il temine cognitariato[4]. La definizione del termine fornito dal dizionario Garzanti (“precariato di chi svolge un lavoro di tipo intellettuale”[5]) non coglie la complessità che ne consegue. È infatti il concetto di lavoro intellettuale che viene messo in discussione. Se nell’ultimo decennio del secolo scorso, possiamo assistere ad una sorta di “taylorizzazione del lavoro intellettuale e di intellettualizzazione del lavoro manuale”[6], oggi tale processo è andato ben oltre la dicotomia, seppur ridefinita, tra manualità e intellettualità, sino a rendere superata tale differenza. Una differenza che oggi è stata ricompresa all’interno del termine “lavoro cognitivo” e ampliata in quello di “lavoro relazionale”.

È infatti da tale prestazione lavorativa che ha origine il valore di rete, che oggi tende più a pervadere, in modo differenziato e diversificato, diverse attività produttive, da quelle di magazzinaggio (sempre più digitalizzato), a quello dei grandi centri commerciali sino ai settori della consulenza immateriale. Ovunque c’è un app, c’è valore di rete, cioè valore biopolitico.

A fronte delle recenti evoluzioni, ritorna di estrema attualità, con riferimento al contesto taylorista, l’osservazione di Romano Alquati riguardo l’informazione valorizzante ai tempi della fabbrica olivettiana:

il lavoro produttivo si definisce nella qualità delle informazioni elaborate dall’operaio ai mezzi di produzione, con la mediazione del capitale costante[7]

Il valore di rete è allo stesso tempo esito di un processo di sfruttamento, di estrazione e di imprinting. È la forma di plusvalore del cognitivo, a cui bisognerà aggiungere il plusvalore del bios. Esso è dato dalla compenetrazione del sistema sensoriale umano (da quello percettivo dei 5 o più sensi a quello nervoso) con la rete informazionale e digitale che sempre più avvolge l’attività di produzione e accumulazione.

Da questo punto di vista, assistiamo al divenire macchinico dell’umano[8], al divenire spaziale (ovvero relazionale) dell’umano[9], ma allo stesso tempo al divenire umano delle macchine[10].

Come sottolineato da Pasquinelli con l’esempio PageRank di Google, il valore di rete abbisogna di un processo di standardizzazione (leggi industrializzazione) di strumenti meccanici che sono “esterni” alla stessa relazione, per codificarla, implementarla, e indirizzarla, ma essi sono solo le appendici necessarie perché il valore di rete dipende essenzialmente dalla volontà “interna” del cervello e del corpo umano e dei suoi processi di apprendimento.

Se nella produzione standardizzata della catena di montaggio era l’essere umano ad essere appendice della macchina, ora è la macchina ad essere appendice dell’essere umano, ma in un contesto diverso. Nel taylorismo, l’essere umano non può essere fagocitato nella macchina. Nel capitalismo bio-cognitivo, la macchina è invece fagocitato nel cervello e nel corpo umano, viene “interiorizzata”, sia fisicamente (le protesi bio-robotiche) che cerebralmente. Non è quindi il semplice rovesciamento simmetrico del rapporto. Si può “industrializzare” infatti tutto ciò che è ”esterno” e solo in minima parte le facoltà di vita “interne” all’uomo.

Da questo punto di vista, perché si produca valore di rete è necessaria la partecipazione individuale e apparentemente autonoma, ovvero una complicità soggettiva, cosciente o incosciente[11].

 

Platform capitalism. Composizione tecnica, composizione politica o composizione sociale del lavoro?

Proviamo a fare un esercizio teorico-pratico. Domandiamoci, usando le categorie care all’operaismo, quale sia la composizione tecnica del lavoro che oggi definisce l’organizzazione del lavoro stesso nel Platform Capitalism. La nozione di composizione tecnica è fondamentale per comprendere le modalità di attuazione dei processi di sussunzione del lavoro al capitale. Ai tempi della grande fabbrica, la sussunzione del lavoro era eminentemente sussunzione reale. Con tale termine vogliamo sottolineare, in modo generico (ce ne scusiamo), che il processo di sfruttamento e di estrazione del plus-valore passa dalla fase dell’estensificazione (sussunzione formale) a quella dell’intensificazione del processo lavorativo.

Condizione per tale intensificazione (continuiamo a essere generici, ob torto collo) è la definizione di un rapporto preciso, di separazione, tra l’umano e la macchina, condizione imprescindibile per l’attività manifatturiera e l’avvento della fabbrica (nel senso marxiano del termine).

Ma nel Platform Capitalism, tale rapporto non è più dato. La composizione tecnica cambia natura e non è più definibile né in senso teorico-astratto, né in senso “politico”. L’ibridazione tra umano e macchina spariglia le carte. E scompagina le forme della rappresentazione politica del lavoro e, di conseguenza, le forme della rappresentanza del lavoro. Diciamolo con franchezza: il lavoro (al singolare) non ha più rappresentanza, dal momento che la soggettività (del lavoro) si decompone in mille rivoli.

Nel Platform Capitalism, la prestazione lavorativa richiede un coinvolgimento delle facoltà cognitive-relazionali e fisiche degli esseri umani. Tale coinvolgimento e partecipazione umana avviene con diversa intensità, a seconda delle applicazioni necessarie per lo svolgimento della stessa prestazione lavorativa.

Nel caso dei servizi alla ristorazione (ad esempio, nel caso di Foodora), oltre alla messa in rete della propria disponibilità di tempo, occorre anche una presenza fisica muscolare (la fatica del rider) sino a poter riparlare di forme di cottimo. Lo stesso si può dire per Uber. In questi casi il lavoro è sussunto all’organizzazione del capitale in termini più reali che formali e il tempo rimane ancora l’unità di misura che definisce la remunerazione del lavoro. Nel caso, del tutto diverso, di servizi avanzati di tipo immateriale, tipici della sharing economy, del coworking, o nella crowd-funding economy, dove subentra una partecipazione diretta al processo di finanziarizzazione, il coinvolgimento diventa così anche partecipazione attiva alla valorizzazione capitalistica. Una valorizzazione che avviene a valle, lasciando ampi margine di presunta autonomia e dove è il tempo di vita, spesso non certificato e spesso non remunerato, a costituire l’ambito dell’accumulazione, non più misurabile in modo diretto.

Ciò che accomuna questi diversi casi è il fatto che, in entrambi i contesti, il fine ultimo è comunque la produzione di valore di scambio. Certo, non in tutti i casi. Vi sono significative eccezioni dove l’obiettivo e sperimentare forme di produzione “dell’uomo per l’uomo”, dove il comune come metodo di produzione[12] viene riconosciuto e valorizzato.

Ma spesso e volentieri tali forme di autonomia del comune, se non riescono a diventare economicamente sostenibili e continuamente riprodubile in modo autonomo, diventano prede di cattura della valorizzazione e mercificazione capitalista. Il desiderio di alternatività economica e politica che ne determinano la nascita tende poi ad affievolirsi per necessità a causa del sorgere del ricatto del bisogno e della sopravvivenza.

Il loro nascere “contro” diventa così serbatoio di innovazione sociale che alimenta gli animal spirit del capitale e linfa fresca per la sua perpetuazione[13].

Per questo diventa sempre più imprescindibile dotarsi di strumenti tecnologici e finanziari per sperimentare forme di esodo costituente e sovversivo in grado di erodere sempre più l’area della produzione di valore di scambio a vantaggio della produzione dell’essere umano per l’essere umano.


Immagine in apertura: “Electronic Superhighway” di Nam June Paik

NOTE
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Algoritmo
[2] Ad esempio, cfr. S. Dulli, S. Furini, E. Peron,. Data Mining, Springer Verlag, Roma-Berlino, 2009 e P.Giudici, Data Mining, Mc Graw – Hill, Milano, 2005. Per data-mining si intende “l’insieme di tecniche e metodologie che hanno per oggetto l’estrazione di un sapere o di una conoscenza a partire da grandi quantità di dati (attraverso metodi automatici o semi-automatici) e l’utilizzo scientifico, industriale o operativo di questo sapere”: https://it.wikipedia.org/wiki/Data_mining
[3] Cfr. M. Pasquinelli, “L’algoritmo PageRank di Google: diagramma del capitalismo cognitivo e rentier dell’intelletto comune” in F. Chicchi and G. Roggero (eds), Sociologia del lavoro, Milano: Franco Angeli, 2009.
[4] Cfr. F. Berardi Bifo, La fabbrica dell’infelicità. New economy e movimento del cognitariato, DeriveApprodi, Roma, 2002 e Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto del lavoro all’emergere del cognitariato, Derive Approdi, Roma, 2004
[5] http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=cognitariato
[6] Cfr. A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione, Carocci, Roma, 2007.
[7] Cfr. R: Alquati, “Composizione organica del capitale e forza-lavoro alla Olivetti”, in Quaderni Rossi, n. 2, 1963, pag. 121, citato da M. Pasquinelli, “Italian Operaismo and the Information Machine”, Theory, Culture & Society, 2015, Vol. 32(3) [vers. Italiana: M. Pasquinelli, “Capitalismo macchinico e plusvalore di rete: note sull’economia politica della macchina di Turing”]. Si veda anche G. Griziotti, Neurocapitalismo, Mediazione tecnologiche e via di fuga, Mimesis, Milano, 2016, pag. 60.
[8] Cfr. R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, DeriveApprodi, Roma, 2014
[9] Pasquinelli “Oltre le rovine della Città Creativa: la fabbrica della cultura e il sabotaggio della rendita”, in M. Baravalle (a cura di) L’arte della sovversione. Multiversity: pratiche artistiche contemporanee e attivismo politico, Roma: Manifestolibri, 2009. Scrive Pasquinelli: “Il general intellect si presenta quindi non solo ‘cristallizzato’ nelle macchine ma diffuso attraverso l’intera ‘fabbrica società’ della metropoli. Quindi, logicamente, se la conoscenza industriale progettava e operava macchine, anche la conoscenza collettiva al di fuori della fabbrica deve essere in qualche modo macchinica. Qui dobbiamo guardare con attenzione alle manifestazioni del general intellect attraverso la metropoli per capire quando lo incontriamo ‘morto’ o ‘vivo’, già ‘fissato’ o potenzialmente autonomo. Per esempio, a quale livello oggi il tanto celebrato Free Software e la cosiddetta free culture sono complice delle nuove forme di accumulazione del capitalismo digitale? E a quale livello, l’ideologia della creatività e le Città Creative preparano semplicemente il terreno alla speculazione immobiliare e a nuove forme di rendita metropolitana?”
[10] G. Raunig, A Thousand Machines: A Concise Philosophy of the Machine as Social Movement. Semiotexte, New York, 2010 e il più recente Dividum: machinic capitalism and molecular devolution, Semiotexte, New York, 2016.
[11] Al riguardo, il dibattito è aperto, a seconda dei casi considerati. Secondo Valeria Verdolini, tale partecipazione individuale non è sempre cosciente: cfr. V. Verdolini, “Conoscenza senza coscienza? I paradossi del cognitariato nel contesto italiano”, in Sociologia del diritto, n. 3, 2011, pp. 161-165. Parzialmente diverse sono i risultati delle analisi di Mattia Gallo, Federico Chicchi e Mauro Turrini: cfr. M. Gallo, F. Chicchi. M. Turrini, “Il lavoro smisurato. Riconoscimento e sfruttamento nel lavoro cognitivo”, in E. Armano, A. Murgia, Le reti del lavoro gratuito. Spazi Urbani e nuove soggettività, Ombre Corte, Verona, 2016, pp. 77-94.
[12] T. Negri, “Il comune come metodo di produzione”, http://www.euronomade.info/?p=7331, giugno 2016.
[13] A. Fumagalli, Grateful Dead Economy, Agenzia X, Milano, 2016
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