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avvenire

Vi spiego la rabbia profonda dell'America. E dell'Europa

Andrea Galli intervista Andrew Spannaus

Intervista all'analista politico che in tempi non sospetti aveva predetto la vittoria di Trump: «Dopo le elezioni non è cambiato nulla, gli Stati Uniti sono più divisi dell'Italia»

«L’America bisogna conoscerla direttamente…» dice un po’ sornione Andrew Spannaus, mentre gli ricordiamo una mattinata di ormai 8 mesi fa. Quel mercoledì 9 novembre, all’alba, quando arrivò la notizia della ormai certa vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali, che lasciò di stucco, per usare un eufemismo, la stragrande maggioranza dei commentatori. Tra i meno sorpresi, mentre già dalla serata di martedì si divideva tra uno studio televisivo e uno radiofonico, c’era appunto Spannaus, che aveva dato alle stampe sei mesi prima un libro che sembrava una provocazione: Perché vince Trump (Mimesis). Figlio degli Usa ma sposatosi in Italia con un’italiana, giornalista e analista di politica internazionale, direttore del sito transatlantico.info, Spannaus pubblica ora, sempre per le edizioni Mimesis, La Rivolta degli elettori. Il ritorno dello Stato e il futuro dell’Europa.

* * * *

Spannaus ci riprova? Quale pronostico vuole tentare?

«Il libro è un’analisi che parte dai due shock politici del 2016, la vittoria di Trump e la Brexit, allargando lo sguardo all’Europa. Trump e Brexit sono stati due potenti segnali della crisi del processo di globalizzazione in atto, crisi intesa come rigetto da parte di una crescente parte della popolazione di un modello socioeconomico che si è imposto negli ultimi decenni. Poi mi dedico al Vecchio continente, per capire che futuro avrà l’Unione europea».

 

Come sta l’America reale nel dopo Obama?

«Come prima. C’è un’America delle due sponde, East Coast e West Coast, vista da fuori come dinamica, vitale. E in mezzo c’è il resto del Paese… segmenti della società che si sentono tagliati fuori da questa globalizzazione e covano un profondo risentimento verso le istituzioni. A molti sfugge quanto sia rallentata la mobilità sociale negli Usa. E l’America è più divisa dell’Italia: ci sono ampie zone, che sono in depressione economica, da cui diventa sempre più difficile “uscire” per chi vi nasce. Anche dove c’è lavoro, è un lavoro meno pagato e più precario».

 

Eletto Trump, all’improvviso un po’ tutti si sono fermati, pensosi, sulle condizioni dell’operaio della Pennsylvania e sulla rabbia della Rust Belt. Oggi su giornali e tv sembra già tutto sparito. C’è solo il personaggio Trump in lotta contro lo “Stato profondo”…

«È un doppio esempio dell’illusione ottica suscitata dai media – e in Italia si dà un peso veramente sproporzionato a due grandi quotidiani e a un canale televisivo Usa. Il fatto che la gente non voti ogni domenica e non mandi ogni settimana un segnale come quello dello scorso novembre, non vuol dire che si sia rappacificata… la tanto temuta “Alt-Right” non si è affatto sgonfiata, è facile farlo credere da parte di una certa élite. In secondo luogo, a dar retta ai principali media, Trump dovrebbe avere una popolarità dell’1 per cento, per l’ininterrotta serie di disastri politici, in decisioni, parole, gesti e altro. In realtà Trump ha attualmente un tasso di gradimento intorno al 40%: non molto buono, ma di fatto nemmeno così lontano da quello che è stato il suo sostegno elettorale».

 

La Russia è una preoccupazione reale per l’americano medio?

«Di suo l’americano medio non è certo un grande fan della Russia, ma l’attuale “questione russa” è artificiale e la russofobia è un sentimento indotto, che viene alimentato dall’establishment per mettere alle corde Trump. Il quale ci mette del suo, senza dubbio. Vedasi il licenziamento del capo del Fbi James Comey: negli scandali politici spesso il cover up, l’occultamento, è considerato peggio del reato. Nel caso di Comey non c’è stato alcun reato, Trump aveva il potere di fare quello che ha fatto, seppur poco opportuno dal punto di vista politico. La forma è comunque risultata disastrosa, in quanto ha dato l’idea di una mancanza di rispetto delle istituzioni. E il cover up, cioè la giustificazione presentata al pubblico, è stata poco convincente, in quanto tutti sapevano che voleva liberarsi di chi gli remava contro».

 

Oggi è il 4 luglio, negli Usa, festa dell’Indipendenza. Se mettiamo in parallelo l’America degli inizi e quella di oggi cosa vede?

«Un’élite che non si interessa delle reali condizioni della popolazione. Una volta tale élite era dall’altra parte dell’oceano, era l’impero britannico che imponeva una politica economica di stampo liberista e coloniale, per sfruttare appunto le colonie, ovvero lasciarle crescere ma solo fino a un certo punto. Per gli americani di allora la questione era poter sviluppare le proprie manifatture. Perché la caanzitutto pacità manifatturiera, industriale, significa forza economica, indipendenza politica, prospettive di sviluppo e di maggior benessere sociale. Oggi questa lotta tra élite e popolo è evidente all’interno degli Stati Uniti, il potere che era dell’impero britannico è rappresentato simbolicamente, ma non solo, da Wall Street e Washington. L’impero britannico schiacciava la capacità di sviluppo mettendo in concorrenza il colono con lo schiavo dall’altra parte del mondo. È un processo che, oltre duecento anni dopo, si ripete».

 

Marx avrebbe detto che un fantasma che si aggira per gli Usa: il protezionismo…

«Sì, solo che non lo definirei “fantasma” in senso orrorifico. Lo è certamente per l’élite finanziaria. Ma il protezionismo intelligente significa protezione del tenore di vita dei lavoratori, creazione delle condizioni che permettono investimenti a lungo periodo, soprattutto infrastrutturali. Non è un “fantasma” che viene a sconvolgere una storia e una tradizione, semmai è il riemergere di qualcosa di profondo nella storia americana. Il protezionismo è alla base del processo di indipendenza degli Usa e della sua prodigiosa crescita economica. È quello che fu teorizzato da pensatori come Henry Clay o Henry Carey, e attuato da personalità come Alexander Hamilton, il creatore della Banca centrale americana, e Abraham Lincoln».

 

Ma la rivolta di cui parla nel libro che sbocchi avrà?

«Difficile fare previsioni. Però, visto che parliamo dell’America degli inizi e di quella di oggi, può far riflettere il fatto che il movimento che ha reso visibile da una parte il malcontento crescente durante la presidenza Obama e dall’altra la contestazione alle politiche tradizionali del Partito Repubblicano, ha preso il nome di “Tea Party”. Il Tea Party fa riferimento al celebre intervento di un gruppo di coloni americani contro le navi inglesi nel porto di Boston, il 16 dicembre 1773. Esasperati dagli effetti negativi sulle proprie attività economiche delle pratiche commerciali dell’Impero britannico, più di cento coloni si travestirono da indiani e rovesciarono 41.700 chilogrammi di tè inglese nella baia di Boston: una protesta contro il liberismo imperiale che ha avuto conseguenze che allora forse nessuno si immaginava».

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