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carmilla

L’America del nostro scontento. Parecchia rabbia. Molta confusione. Poca felicità

di Gioacchino Toni

Roberto Festa, L’America del nostro scontento, Elèuthera, Milano, 2017, 181 pp., € 15,00

«l’America che ha creato Trump non è poi troppo diversa da quella che ha prodotto Obama […] Make America Great Again non è uno slogan molto diverso da Yes We Can: entrambi ugualmente illusori e carichi di aspettative che nessuna realtà traballante potrà mai soddisfare» (Roberto Festa, pp. 8-10)

Roberto Festa, nel suo ultimo libro, L’America del nostro scontento (2017), racconta le diverse reazioni, incontrate attraversando gli Stati Uniti, alla vittoria elettorale di Donad Trump a ridosso del suo insediamento. A tali testimonianze l’autore aggiunge, nella seconda parte del volume, la narrazione di alcune storie di luoghi simbolo della vita americana. Il volume si chiude con il racconto di una settimana passata a New York nell’estate del 2016, quando in città «si parlava molto di matrimoni omosessuali e di adozioni e sulle pagine domenicali del “New York Times” i gay si facevano fotografare vestiti di bianco sui prati fioriti; nei bar e nelle saune e sulle spiagge di Fire Island il vero oggetto di discussione era però una pillola, il Truvada, che permette di non avere più paura dell’AIDS e di tornare a fare sesso come negli anni Sessanta» (p. 12). Queste pagine finali sono state scritte prima del ciclone Trump e a rileggerle ora, sottolinea Festa, «sembrano una straordinaria fuga in avanti ma anche una sorta di gran ballo nella prima classe del Titanic» (p. 12).

Il declino dell’impero americano, la crisi della classe media e la disgregazione della vecchia working class hanno prodotto politiche identitarie che sembrano essersi pian piano sostituite al conflitto tra capitale e lavoro.

Trump ha vinto esaltando paure e voglia di riscatto dell’America bianca, soprattutto di una parte di quei maschi bianchi stufi di essere chiamati razzisti, stupidi e volgari. I democratici hanno fatto pressappoco lo stesso parlando a donne, neri, ispanici, omosessuali; e la mia impressione è che comunque si discuta molto di identità quando le identità sono incerte e a rischio. Si parla di identità nei momenti in cui le identità non corrispondono più alla vita, ai rapporti di forza, di produzione, quando le nostre idee non trovano più forme collettive di rappresentanza, quando i nostri strumenti di interpretazione si assottigliano, le nostre tasche si svuotano, quando il futuro si fa più opaco. Si parla molto di identità quando non sappiamo più bene chi siamo e questa è una delle cose più palpabili nell’America degli ultimi anni. (p. 9)

Donald Trump e Barack Obama sono espressione di un paese spaccato in mille frammenti perlopiù incomunicanti e tra di loro ostili: città e campagne, costa e interno, Nord e Sud, maschi bianchi e maschi neri, uomini e donne… «divisioni, rabbia, insicurezza, paura, voglia di fuga sono il terreno di coltura dell’America di questi anni» (p. 10) ed è tutto questo che Festa ha inteso indagare, evitando di farsi coinvolgere dalla cronaca più immediata, nella vita profonda delle persone incontrate lungo l’America.

Molte di queste identità che frammentano gli Stati Uniti si sono sviluppate proprio sulla ricerca/costruzione di un nemico. La politica americana può essere vista come causa e/o conseguenza di questo bisogno di nemico ed è su tale necessità che i politici costruiscono le loro fortune elettorali. «Gli steccati sono anche la premessa che nutre la fede nel leader e la politica come pensiero magico: se l’altro è il nemico privo di senso e credibilità, la propria parte e il proprio leader diventano le uniche fonti di legittimità e salvezza» (p. 10).

Dai racconti di Festa emerge l’immagine di un Paese costituito da una miriade di gruppi incomunicanti, ciascuno dotato del proprio nemico giurato e, sovente, del proprio leader carismatico nei confronti del quale gli adepti nutrono una fede granitica. La politica, finanziata dai grandi potentati economici, deve inevitabilmente fare i conti con tali blocchi identitari perché questi portano in dote pacchetti di voti importanti ed in cambio il politico di turno deve sposarne la causa e condividerne i nemici.

La prima parte del libro, come detto, narra di personaggi incontrati da Festa alla vigilia dell’insediamento di Trump; tra questi Rus Thompson viene presentato come l’immagine della rabbia americana. Si tratta di un sessantenne del Massachusetts, ex militare, che dopo aver lavorato come cuoco e muratore ora è proprietario di una piccola azienda di betoniere. Thomposon odia quelli che definisce i vecchi pezzi di merda del Partito repubblicano, odia la Camera di commercio, il Tribunale, l’Ufficio delle tasse, la Cina, gli illegali, l’inoperosa e parassita intelligence, la CIA e l’FBI ostili a Trump, i democratici che hanno spostato così a sinistra l’America, Barack Obama «che ha rotto le scatole con la storia della razza» (p. 20). Odia, inoltre, Hollywood per il suo criticare quello stesso capitalismo che la tiene in vita, odia «chi pensa che tutti debbano andare al college ed ha scordato che farsi una casa con le proprie mani è la cosa più bella del mondo» (p. 20), odia il socialismo e si dice certo che l’America sia davvero sull’orlo di una guerra civile e che questa potrebbe scoppiare da un momento all’altro e non importa se a sparare per primo sarà un veterano sofferente di stress post-traumatico o i federali che lo tengono d’occhio. L’iniziazione politica di Thompson è opera di Carl Paladino, capo del Tea Party di Grand Island, balzato alle cronache per aver espresso come desideri per il nuovo anno la convivenza con un gorilla di Michelle Obama nella savana africana e l’accoppiamento di Barack Obama con un bovino infetto del morbo della mucca pazza.

La seconda parte del volume è occupata da storie di alcune località emblematiche della vita americana. Tra queste colpiscono particolarmente le vicende della città di Wichita, in Kansas, feudo del fanatismo antiabortista. Nell’estate del 1991 la cittadina è stata letteralmente invasa da migliaia di militanti antiabortisti coordinati da Operation Rescue di Randall Terry con l’obiettivo di prendere in ostaggio le cliniche praticanti aborti.

Per sei settimane a Wichita ogni grano dei rosari recitati fu un appello alla liberazione dal male e l’urlo con cui i cristiani d’America si scrollavano di dosso gli anni Sessanta e i movimenti di liberazione e la secolarizzazione e il progresso e i miti di scelta e ragione. Tre anni dopo Bill Clinton approvava il Freedom of Acces to Clinic Entrance Act, la legge che rendeva un reato picchetti e minacce davanti alle cliniche. L’estate della misericordia aveva però mostrato che un movimento potente ribolliva nel cuore dell’America (p. 119).

Gli altri episodi eclatanti accaduti a Wichita riguardano il dottor George Tiller, medico di una clinica praticante aborti tardivi. Nel 1986 il medico rischia una prima volta la vita a causa di una bomba lanciata contro la sua clinica ed una seconda volta, pochi mesi dopo, quando una donna gli spara cinque colpi alle braccia. Nel 2009 i proiettili esplosi da Scott Roeder, cristiano rinato, gli sono fatali.

Il clima che si respira a Wichita è descritto dal libro attraverso alcune conversazioni con la dottoressa Mila Means, che ha aperto una clinica in cui si praticano aborti dopo l’uccisione di Tiller, e con alcuni militanti antiabortisti. Le pressioni esercitate sulla dottoressa sono facilmente immaginabili ed il clima di tensione che si vive in città può essere riassunto da un episodio: quando Festa e la dottoressa raggiungono il fidanzato della donna al ristorante per cenare insieme, lo trovano seduto al tavolo armato di un fucile. «È pieno di pazzi qua attorno» (p. 116).

Tra i militanti antiabortisti con cui l’autore ha modo di colloquiare si hanno personaggi come Troy Newman, presidente di Operation Rescue, che ama celebrare i successi della sua organizzazione nella lotta per la chiusura delle cliniche abortive attraverso bandierine collocate su una cartina degli Stati uniti alle spalle della sua scrivania. «Nel 1991, quando iniziai la mia battaglia, c’erano negli Stati uniti 2200 cliniche abortive. Oggi ce ne sono 274. Molte le abbiamo fatte chiudere noi. Questa è la nostra definizione di successo. Cliniche che chiudono» (p. 123).

Cheryl Sullenger, della medesima organizzazione, si definisce «Una guerriera. Guerriera di libertà» (p. 120) e ama ricordare come la Bibbia imponga ai fedeli di liberare chi, condotto dal massacro, non è in grado di difendersi.

Mark Geitzen, anch’egli appartenente ad Operation Rescue, gestore di un servizio di incontri per single cristiani, gira il Kansas con un camion su cui sono dipinti feti sanguinanti e piccoli corpi su monete da un dollaro con scritto “Abortion is an Obama Nation”. Geitzen racconta continuamente il numero di donne che ha convinto a non entrare in clinica e si dice impegnato al progetto Heartbeat legislation volto a vietare l’aborto quando avvertibile il battito del cuore del feto.

Festa incontra anche Jennifer McCoy, un vero e proprio mito del fronte antiabortista. La donna, nata in Michigan, con un passato nei marines in Kuwait durante la prima guerra del Golfo, è madre di dieci figli con l’undicesimo in arrivo e passa le giornate accampata, insieme ai bambini, davanti alle cliniche che praticano aborti piantando croci e protestando. Nel suo racconto, che ad un’indagine a posteriori da parte di Festa si rivela in parte artefatto, McCoy racconta anche di essere stata messa incinta all’età di dodici anni dal suo insegnante di catechismo e di essere stata condotta con l’inganno, dalla madre in combutta con il catechista, a sottoporsi ad un intervento abortivo in una clinica. Da quel momento la donna matura il suo odio nei confronti delle cliniche abortiste.

Dalla lettura del libro di Festa emerge un’America in cui convivono, confliggendo, identità e mondi separati, con preoccupanti ritorni ad un passato che sembrava rimosso una volta per tutte. Un’America che dovrebbe essere meglio indagata da quanti scrivono editoriali comandati dalle scadenze pensando di conoscere davvero il paese solo per aver trascorso qualche settimana in un hotel di New York durante le campagne elettorali o per essere cresciuti divorando programmi televisivi a stelle e strisce. L’America raccontata da Festa? «Parecchia rabbia. Molta confusione. Poca felicità» (p.12).

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