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Della riduzione del fiscal compact: sogni e nuvole

di Alessandro Visalli

L’ipotesi, a quanto sembra anticipata dal nuovo libro di Matteo Renzi, e dunque in parte strategia editoriale, in parte elettorale, di forzare le regole del “Fiscal Compact”, cancellando l’impegno in esso presente di ridurre il debito nei termini del 60% del rapporto debito/Pil secondo un percorso preordinato, mi sembra contenere un grave errore, che però ha del metodo.

Questa ipotesi, che è fatta della materia delle nuvole, si può riassumere come una forma di “reaganomics”: ridurre le tasse in modo accelerato, al prezzo di creare nell’immediato deficit, con la speranza (ovvero il sogno) che questo determini crescita per effetto dell’espansione della spesa privata. Sappiamo che non ha funzionato, e peraltro era accompagnata nella pratica da una enorme espansione di spesa pubblica militare (il programma dello “scudo spaziale”).

Ma nel nostro contesto, che è del tutto diverso, suona a dirla tutta in modo alquanto più pericoloso: più che un sogno rischia di tramutarsi in un incubo. Infatti dentro la camicia di forza delle regole europee e della carenza di sovranità che ne deriva, solo tentare di forzare per cinque anni, con una sfida manifesta e palese, i dogmi che consolidano il dominio insieme nazionale e di classe del grande capitale e della casalinga sveva (purché “risparmiatrice”, ovvero titolare di un qualche gruzzoletto da far fruttare), può portare a reazioni inconsulte “di tipo greco”.

In particolare quando, come avverrà nella prossima legislatura, la BCE fosse tornata all’ovile nelle capaci mani del presidente della Bundesbank.

Ma al di là delle forze in campo, che contano, rigettare quell’obbligo a far scendere progressivamente il deficit corrente (dal 3% massimo previsto nel Trattato di Maastricht, regola anch’essa del tutto arbitraria) dalle parti del 2% e poi più in giù, conducendo quindi una grande battaglia nel campo inclinato europeo, solo per ridurre in modo imprecisato le tasse a qualche clientela politica, è di fatto l’annuncio di un disastro. Nelle condizioni attuali, che assomigliano molto a quelle nelle quali scriveva Keynes, la crescita è infatti ostacolata non dal prelievo fiscale, ma dalla “trappola della liquidità” e dalla conseguente carenza della domanda. E’ questa la direzione causale prevalente: l’eccesso di indebitamento privato, e la carenza di fiducia nelle prospettive del paese, inducono famiglie ed imprese a risparmiare eccessivamente, questo conduce a detenere in forma liquida i capitali e rifiutarsi di investirli; la preferenza per la liquidità di tutti conduce un effetto aggregato che rafforza enormemente la dinamica. Il calo della domanda conferma gli agenti nella loro decisione di non investire e aumentare il risparmio prudenziale. Il resto lo fa l’enorme fluidità del mercato finanziario, che sposta i capitali risparmiati dove marginalmente sono più redditizi.

Quindi le catene cliente-fornitore, che sono estese a livello internazionale, si asciugano e per questa via si attiva anche un ulteriore, potentissimo, anello di rafforzamento: poiché la gran parte del denaro è creato dal sistema bancario al momento dell’espansione del credito a qualche agente economico (mettendo in questo termine per ora anche le famiglie), ed è distrutto corrispondentemente dalla sua restrizione, la riduzione del giro di affari e dei redditi degli agenti comporta effettiva distruzione di moneta circolante. Per le due vie, quindi, della riduzione della circolazione (degli eventi spesa/incasso/spesa) e della diretta riduzione della massa monetaria (per la riduzione del credito), si potenzia la carenza di domanda che assume un andamento dinamico potenzialmente distruttivo.

Senza interrompere questa dinamica qualsiasi incremento della disponibilità liquida sarà catturato dalla “trappola” e provocherà solo modesti incrementi di spesa e quindi crescita. Certo, il deficit va aumentato in queste condizioni (Richard Koo, stima che per l’Italia andrebbe portato al 6%, secondo un semplice ragionamento fondato sul metodo dei saldi settoriali, per pareggiare il surplus del settore privato), ma usando bene l’occasione.

Invece di investire fantasmatiche risorse faticosamente ottenute in una direzione nella quale il cosiddetto “moltiplicatore” è di gran lunga inferiore ad 1 (ovvero nel quale 1 euro di spesa, o di minore incasso, e dunque di deficit, porta 0,5 o 0,7 euro di incremento del Pil), bisognerebbe spenderle piuttosto nei molti settori in cui, date le risorse inutilizzate dell’attuale economia, esso è superiore a 1 (e può essere anche superiore a due, ovvero dove 1 euro di spesa provoca 2 euro di incremento di Pil).

La matematica del rapporto debito/Pil mostra in questo caso subito la differenza: se aumento il debito di 1 euro, ma il Pil cresce di 0,5 euro il rapporto peggiora; se aumento di 1 ma il Pil cresce di 2 euro, questo migliora. Avrò fatto un deficit che si ripaga da solo (fino a che l’economia, occupando tutte le risorse e i disoccupati, riduce il moltiplicatore).

Sembrerebbe tutto piuttosto ovvio. Almeno per ora (e credo, in alcuni settori, sempre) nessuno spiazzamento di inesistenti investimenti privati (secondo un diffuso pregiudizio più efficienti), si darebbe con l’investimento diretto da parte dello Stato in scuole, ponti, infrastrutture energetiche ed informatiche, difesa del territorio, bonifiche, ricerca scientifica, e via dicendo. Invece queste spese aumenterebbero la capacità del sistema economico e sociale di produrre ricchezza, la sua produttività complessiva, e quindi anche la competitività, mettendo il paese in una traiettoria ascendente.

Ma allora perché si propone di spendere il sogno in una direzione così dannosa?

Le risposte possono essere tante:

- Cattive teorie economiche,

- Pressione di interessi delle lobby degli industriali (che aspettano di riproporre la riduzione del cuneo fiscale a loro esclusivo vantaggio),

- Populismo (l’argomento “spesa cattiva” e “tasse cattive”, porta a definire la riduzione delle seconde ed il contenimento della prima come “buone”, indipendentemente dal funzionamento dell’economia),

E in parte sono tutte giuste. Ma credo ce ne sia anche un’altra:

- La riduzione delle tasse, a ben mirati soggetti, è una mossa che ci si può intestare politicamente in modo certo, e che funziona senza intermediari. È dunque adatta ad un post-partito leggero, come quello che il parlante guida.

- L’espansione della spesa, come correttamente ricorda Calenda e il sempre preciso Fassina, pur essendo più efficace, richiede un piano di spesa e una logica industriale, ovvero un progetto esplicito e consapevole sul posizionamento del paese nei grandi movimenti in corso nel mondo. E, soprattutto, non può essere implementata con qualche Decreto Legge, e un paio di slide. Richiede necessariamente l’attivazione di quei corpi intermedi nel paese, la diffusione verso il basso delle risorse, la mediazione dei corpi politici decentrati. Richiede, insomma, una infrastruttura che abbiamo lasciato atrofizzarsi, e che non c’è più.

Dunque la mossa del segretario del PD ha una sua logica profonda, non è solo una manovra cinica, ma un destino dei nostri tempi: la spesa pubblica richiede delle abilità, e delle infrastrutture, che abbiamo lasciato morire, quella privata si è dissolta con lo scoppio delle bolle della finanza.

Senza l’una e l’altra ci resta solo il declino.

Sarebbe questo il coraggio che bisognerebbe trovare.

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