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Dietro le quinte della moda

Il settore della moda italiana tra delocalizzazione e global player

di I Diavoli

Ne “I cieli e i gironi del lusso” due sociologi e un’antropologa conducono un’articolata indagine, all’incrocio tra inchiesta sul campo e saggio specialistico, al fine di fare luce sul “dietro le quinte” del settore della moda, attraverso scandaglio e critica dei processi produttivi e delle condizioni lavorative dispiegate in Italia e – di conseguenza al proliferare delle reti globali – su scala internazionale

Il marchio è di un’attrazione fatale, seduce. Il vestito calza bene, come le scarpe, danno conforto alla propria immagine. Sull’etichetta si legge “made in italy”, dicitura rassicurante, garanzia di qualità.

Quello che l’occhio e i sensi non possono scorgere né percepire è il livello profondo, cioè tutta quella lunga e articolata filiera che soggiace alla merce prima che essa diventi tale.

Ne I cieli e i gironi del lusso – volume a cura di Davide Bubbico, Veronica Redini e Devi Sacchetto – due sociologi e un’antropologa conducono un’articolata indagine all’incrocio tra inchiesta e saggio al fine di fare luce sul “dietro le quinte” del settore della moda, attraverso scandaglio e critica dei processi produttivi e delle condizioni lavorative dispiegate in Italia e – di conseguenza al proliferare delle reti globali – su scala internazionale.

 

Dietro le quinte

La produzione che soggiace al settore della moda, spiega Veronica Redini, pretende un dispiegamento vasto e vario delle diverse fasi di ideazione, lavorazione e distribuzione della merce.

Dispiegamento che, dagli anni ’90 in poi, ha subito e continua a subire modificazioni radicali rispetto al panorama precedente, più localizzato, meno globalizzato, e i cui cambiamenti hanno effetti enormi su tutto ciò che il consumatore non può scorgere oltre il marchio a cui sceglie di fidelizzarsi: i rapporti di produzione nella loro complessità, la reale dimensione del lavoro vivo, le dinamiche imprenditoriali.

Per questo il volume della Redini e dei suoi colleghi conduce la sua indagine sulle forme di organizzazione del lavoro e sulle relative condizioni, con un focus privilegiato sulle tre aree significative in tal senso della Riviera del Brenta (calzature), della Toscana (pelletteria e calzature) e della Campania (abbigliamento e calzature). Obiettivo dichiarato del volume è analizzare come la messa a valore da parte del capitale si dispieghi nei diversi spazi e modi rispetto alle condizioni sociali, politiche ed economiche.

Il risultato dell’indagine si declina attraverso almeno quattro punti focali:

1. Il concetto di rete come principio di organizzazione e funzionamento della produzione, per sottrarre all’oblio tutti i nuclei di controllo e i livelli gerarchici che processi come la delocalizzazione rischiano di occultare.

2. La reale portata del lavoro vivo nei processi di valorizzazione delle merci italiane realizzate all’estero, anch’essa oscurata dalla costruzione di un immaginario per il consumatore che vuole la produzione indissolubilmente legata alla dimensione dell’alto artigianato in Italia.

3. Le trasformazioni (il caso della Riviera del Brenta ne è l’emblema) del settore determinate dall’acquisto di frange di imprese locali da parte delle multinazionali al fine di creare veri e propri poli, e la conseguente gerarchizzazione legata alle modalità di commercio just in time.

4. L’ambiguità di uno sviluppo che si vuole progressivo – a livello di organizzazione e condizione lavorativa – ma che in realtà si dimostra regressivo in quanto a un proliferare di figure professionali corrisponde un’accelerazione di processi di standardizzazione e sfruttamento intensivo.

 

Delocalizzazione, global player

Nel gennaio del 2007 – ricostruiscono e raccontano Veronica Redini e Devi Sacchetto – in un’impresa italiana di abbigliamento sita a Bacău, in Romania, circa 400 operaie cinesi fanno sciopero in blocco per richiedere migliori condizioni di lavoro e un salario più alto.

Le donne erano state assunte in Cina attraverso un’agenzia di intermediazione, e dopo il loro sciopero l’azienda le avrebbe preferite ad un’altra manodopera, in quanto meno soggettivata e quindi a “buon mercato”, importata, stavolta, dal Bangladesh.

Anche in Bangladesh il gioco è lo stesso che in Cina: l’imprenditore si rifà ad un’agenzia che deve assolvere al compito di trovare manodopera. Ma, ricostruiscono Redini e Sacchetto, c’è di più: le agenzie che fanno da intermediarie in questo processo (nel caso specifico quelle cinesi e bangladeshe) non chiedono una commessa all’imprenditore per cui lavorano ma ai lavoratori stessi, che vengono assunti a patto di rateizzare il pagamento di una parcella all’agenzia, scalata dalle loro futuribili mensilità.

Il case-history dell’impresa a Bacău è solo uno degli esempi che ricorrono nel volume, ma restituisce in maniera emblematica il quadro della situazione: aziende come Dainese, Moncler, Salewa, Max Mara, Benetton, Sisley delocalizzano ed esternalizzano, per poi attingere senza soluzione di continuità a diverse fonti di manodopera. Doppio carattere del capitale: transazionale e massimamente estrattivo.

Lavoratrici e lavoratori a cui si accenna sono, ovviamente, vincolati da clausole stringenti, che fanno assomigliare i loro accordi con le agenzie a dei veri e propri contratti capestro: se l’operaio x non versa la somma pattuita all’agenzia y anche il suo contratto col datore di lavoro decade.

Oltre alle diverse modalità di delocalizzazione e relativi impatti su mercato e imprenditoria, il merito del volume è quindi di portare a galla le contraddizioni in seno a questi processi e un generale deterioramento delle condizioni lavorative, determinato dall’accentramento – su vasta scala – del controllo e da una progressiva esternalizzazione della manodopera, sempre più soggetta a estrazione e scollegata dai centri di progettazione e gestione.

La vicenda dell’imprenditore italiano in Romania fotografa solo una parte di un grosso movimento in continua espansione. «A partire dagli anni Novanta questi (processi, ndr) sono diventati molto più frammentati iniziando a essere costruiti in modo spazialmente disperso secondo un modello che è stato definito come “centralizzazione del comando senza concentrazione della forza lavoro”.

Una frammentazione enorme e dilagante, quella dai ’90 in poi, come raccontano anche Guido Brera ed Edoardo Nesi nel loro Tutto è in frantumi e danza. Una frammentazione che ne I cieli e i gironi del lusso è letta non solo dati alla mano – la case-history è varia e, oltre alla suddetta vicenda dell’impresa a Bacău, Devi Sacchetto conduce il lettore anche sulla Riviera del Brenta, inseguendo i prototipi di griffe varie che fanno la spola per essere approvate e mandate in produzione da Parigi a Fiesso d’Artico, e ancora altrove fin giù nel meridione campano – ma anche con prospettive teoriche ben definite, che restituiscono il quadro organizzativo della produzione globale, dal momento decisivo della cessazione (2005) dell’accordo Multifibre in poi: diviso, sostanzialmente, nei due macro-approcci della catena delle merci e della produzione a rete globale.

E il problema della teoria della catena del valore, si legge ancora nel volume, è che mostra tutti i suoi limiti nel concentrarsi quasi esclusivamente sulla gestione manageriale.

Col risultato, quindi, di chiudersi a riccio sul punto di vista del business internazionale omettendo di spiegare la distribuzione del valore all’interno della catena, ergo: il livello di benessere o meno dei lavoratori.

Delocalizzazione di prossimità, spazializzazione, scacchiera dei fashion global player, sociologia del lavoro e altre ancora sono le dimensioni che questo volume attraversa e ha il merito di analizzare con la giusta lucidità, facendo luce su questioni per troppo tempo vittime di oscuramento o scarsa attenzione. Come giustamente conclude uno degli autori:

“L’analisi del sistema moda italiano evidenzia insomma la crisi e il disorientamento rispetto alla mobilità della forza lavoro, che è mutata nella propria composizione ed è scandita da processi produttivi che solo parzialmente possono dirsi localizzati, dal momento che travalicano i confini nazionali. Si tratta di una logica di frammentazione e gerarchizzazione che produce una tensione permanente nei rapporti sociali tra i lavoratori la cui condizione, nella produzione del lusso come altrove, sventaglia un ampio spettro delle forme contemporanee della produzione e del lavoro”. 

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