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senso comune

Noi saremo tutto, o del 100%

Francesco Marchesi

«Per la sinistra ogni società è costitutivamente divisa al proprio interno, perché ci sono interessi contrapposti e contraddizioni intrinseche. […] Tutte [le strategie della sinistra] si basano sulla convinzione che la società sia in partenza divisa e diseguale e le cause della diseguaglianza siano endogene. […] Per la destra, invece, la nostra società era un tempo armoniosa e concorde, ma oggi non lo è più per colpa di agenti esterni, intrusi, nemici che si sono infilati e confusi in mezzo a noi e ora vanno ri-isolati ed espulsi». Diciamolo subito, questa concezione delle identità politiche, espressa da Wu Ming 1 in un dialogo con Giuliano Santoro ed Enrico Manera a partire dal lavoro di Furio Jesi, è gravemente insufficiente. Non sbagliata, ma integralmente da respingere sul piano della strategia politica, perché strutturalmente minoritaria e, in buona parte, anti-storica. Una visione tipica del contesto da cui il pur eccellente collettivo di scrittori e intellettuali bolognesi proviene, quello della stagione aurea dei centri sociali italiani degli anni ’90 la cui cultura politica ha in seguito profondamente influenzato il movimento no-global di Seattle e Genova, almeno nella sua versione europea (molto meno in quella sudamericana, per altro vincente). Un’immagine dell’articolazione sociale che in Italia e in Europa ha condotto a un sistematico elogio, quando non a un’idolatria, delle identità politiche di parte (siano esse classi, generi etc.), intese come minoranze subalterne in un mondo ostile.

 

La soluzione? Considerata la marginalità di cui queste forze si sono ritenute espressione – tensione diffusa, si pensi persino al centrosinistra dipinto dal Nanni Moretti di Aprile – si è tentato di rifugiarsi in spazi liberati in cui, a fronte di un’impossibile conquista del potere e relativa riforma globale della società, cercare di costruire, in sedicesimi, un mondo ideale, orizzontale, fuori mercato. Saltata la transizione tra presa del potere e costruzione dell’ordine nuovo, ci si risolve a fabbricare in spazi limitati, come in una sorta di piccolo mondo antico, la società italiana degli anni ’70. Non poteva, naturalmente, essere la stessa cosa. Pratica per altro comprensibile, persino necessaria, nelle durezze del riflusso anni ’80, ma incapace, ormai lo si può dire, di aggredire il grande e terribile mondo esterno. Sosteneva John Holloway che il “no” al presente dei centri sociali avrebbe poi dovuto espandersi all’insieme della società. Le pratiche progressiste e radicali degli anni ’90, a partire dallo zapatismo, non hanno mai neppure posto il problema.

Se questa è stata l’esperienza reale, la teoria e le “istituzioni” di questo universo sono andate al seguito: dalla moltitudine come federazione di minoranze («Marcos è gay a San Francisco, nero in Sudafrica, asiatico in Europa, chicano a San Isidro, anarchico in Spagna, palestinese in Israele, indigeno nelle strade di San Cristóbal, ragazzino di una gang a Neza, rocker a Cu, ebreo nella Germania nazista…») – una federazione peraltro automatica, data “nelle cose” e non politicamente costruita – ai forum sociali come momenti globali d’ascolto e confronto allergici però alla decisione all’indirizzo. Privi, insomma, del faticoso e talvolta lacerante lavoro della politica.

La nostra idea di movimento progressista è oggi profondamente, spesso inconsciamente, influenzata da questa cultura politica. Una cultura al tempo stesso differenziale e identitaria, contemporaneamente cacciata dal sistema nell’angolo dell’antagonismo e incapace di indicare il nemico (prima virtù di ogni antagonista). Non è però sempre stato così, i movimenti progressisti, i loro pensatori e i loro attivisti, hanno non raramente preso in mano la bandiera della totalità, hanno preteso e rivendicato il loro essere non una parte ma il tutto. Né minoranza né maggioranza, l’intero spettro sociale.

Alcuni esempi? La tensione totalizzante di un pensatore realista come Machiavelli, universalmente conosciuto per avere tra i primi pensato una società articolata e differenziata (i patrizi e i plebei delle sue letture romane, i Grandi e il Popolo della sua esperienza fiorentina), meno noto oggi per la sua capacità di rivendicare il governo della società per il popolo tutto attraverso il Principe, e contro le oligarchie parassitarie dei nobili e dei grandi mercanti. Un Popolo-Principe contro i circoli chiusi dei Grandi. Ci ricorda qualcosa?

Si può proseguire. Che cosa è il Terzo Stato si domandava Sieyés nel 1789: tutto, la sua risposta ben nota. In altre parole i rivoluzionari francesi rivendicavano e utilizzavano la totalità per sospingere nell’angolo della minoranza, parassitaria, gli altri Stati, gli ordini nobiliare ed ecclesiastico che decidevano fino a quel momento i destini della Patria. Così come prima di loro Jean-Jacques Rousseau identificava nel popolo unito e uniforme qualcosa come una Volontà Generale: in un’epoca in cui le richieste dei subalterni venivano dipinte come infantili e barbare rivendicazioni delle parti inferiori di un organismo (le braccia devono lavorare, la mente pensare, è naturale) qualcuno si permetteva di equiparare e omogeneizzare, al di là del reddito, del sangue (più o meno blu), delle fedi e delle credenze, tutti i componenti di una nazione dimostrandone la capacità di decisione politica. Facendone il baluardo, anche dispotico, dello Stato assediato. La maturità del popolo contro l’infanzia della plebe quindi: una condizione quest’ultima che le cronache politiche sembrano continuamente tornare a descrivere ogniqualvolta i popoli si rivoltano alle imposizioni del sistema.

Ma si può parlare anche di Marx, che pur avendo individuato al cuore della produzione capitalistica moderna l’emergere di una classe, ha sempre cercato di mostrarne le potenzialità generali. La capacità di direzione dell’intera società, l’autonoma elaborazione e coscienza. Indicando, ancora, come coloro che si trovano al vertice del processo economico risultino in ultima istanza dipendenti dal lavoro che forzosamente estraggono dall’insieme del popolo. Nei suoi punti più alti il movimento operaio del Novecento ha colto questa lezione, costruendo larghe alleanze tra settori della società che le élite cercavano sistematicamente di dividere. Una costrizione nel margine della parte che, di nuovo, ci ricorda forse la nostra condizione.

Costruire l’omogeneità del popolo, ritessere i fili di comunità lacerate, non è allora la strada dei conservatori e dei reazionari: in momenti di crisi istituzionale il progresso si è sempre espresso attraverso la rivendicazione della totalità, dell’essere la grande maggioranza contro un avversario minoritario. Il fine? Prendere tutto. Un popolo unito contro le parti, i particolarismi, contro coloro che vogliono dividerlo. Un popolo che, in specifiche circostanze storiche forse non lontane da quelle del presente, può tornare ad associare alla totalità il segno della subalternità: oggi la grande maggioranza dei cittadini italiani ed europei è in condizione di subalternità, economica e politica. Conosce difficoltà materiali e non decide del proprio destino. Ha, infine, un nemico comune: le grandi oligarchie finanziarie, le grandi banche e le grandi multinazionali, a fianco al personale politico loro devoto.

Creare l’ordine nuovo significa spazzare via questi parassiti, sconfiggere, come ricorda spesso Alvaro Garcia Linera, il nostro avversario. Siamo il 99%, diventiamo il 100%. 

 
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