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Scrivendo a margine dell’immigrazione. Persone, forza lavoro, vita

di Alessandro Visalli

E’ in corso una larga, ed aspra, discussione di fronte al fenomeno del costante flusso di persone in movimento che si affollano lungo i paesi limitrofi le nostre frontiere, in parte per cercare di dare risposta alla loro disperazione in Italia, in parte solo perché il nostro paese è una delle più importanti porte di accesso agli altri paesi europei dove in questo momento il mercato del lavoro è più ricettivo. Accordi di natura egoistica, ovvero tipici dell’attuale fase, hanno lasciato in buona sostanza tutto l’onere sulle nostre spalle. E noi, di fatto, l’abbiamo scaricato più di recente su quelle di chiunque volesse organizzarsi in nostra surroga. Alcuni di questi sono meravigliose persone ed organizzazioni, altre lo sono meno, altre per niente, ma il problema non sono certo le Ong: il problema siamo noi.

In tre occasioni, di recente, sono tornato su questo tema: in “Poche note sulla questione dell’immigrazione: la svalutazione dell’uomo” reagivo al cambio di linea grazie alla quale il Segretario del PD, improvvidamente e senza adeguata preparazione, secondo una collaudata tecnica che si potrebbe definire ‘populismo dall’alto’, ha rigettato il “dovere morale di accogliere” sostituendolo con un vaghissimo “aiutarli a casa loro”. L’assoluta mancanza di analisi del fenomeno, delle sue cause e delle sue condizioni di esistenza, produce qui il mostro di un accarezzare di fatto il sentimento reattivo della parte più debole, quindi più esposta agli effetti di un’accresciuta competizione, senza fornire un racconto razionale capace di definire un percorso di speranza, un progetto. Questi flussi ci sono sempre stati, crescono e diminuiscono in funzione di eventi diversi, anche occasionali, ma non sono veramente spontanei, richiedono organizzazione, tecnostrutture, diffusione e controllo delle informazioni, quanto più completamente quanto più sparpagliati e destrutturati sono i luoghi da raggiungere.

Qualunque progetto si volesse proporre all’altezza di questa tragedia andrebbe inserito in primo luogo in un disegno di società (non meramente “multietnica”, come si dice abdicando al dovere di anticipare le conseguenze), e nei funzionamenti economici in grado di consentire l’inserimento in piena compatibilità e vantaggio reciproco. Questo progetto dovrebbe essere:

di scala internazionale almeno europea;

connesso con indispensabili massive politiche industriali e di trasferimento tecnologico e di know how senza il quale la logica spontanea del mercato produce solo adattivamente il massimo sfruttamento attraverso la lotta dei deboli con i più deboli; detto in altre parole, bisognerebbe farla finita con l’austerità, ed investire molti punti di Pil, per molti anni, per ritornare vicino alla piena occupazione, perché solo un paese in piena occupazione, come dice opportunamente Stiglitz, e con un mercato del lavoro sano, può accogliere nuovi lavoratori senza che si tramuti in una guerra tra poveri;

rivolto quindi, anche con l’opportuna regolazione e sorveglianza, a creare quelle che avevo chiamato “condizioni di scarsità invertite”, nelle quali non sia il capitale a potersi spostare liberamente ed indefinitivamente scegliendosi dallo scaffale i lavoratori di volta in volta più consoni, al minor prezzo, ma il lavoro a trovarsi in condizioni di scarsità relativa e quindi attivare una dinamica ascendente (maggiore costo del lavoro, investimenti, aumento della produttività) che possa favorire il riposizionamento dei sistemi paese su segmenti di valore e ricchezza superiori. In questa dinamica potrebbe darsi anche il miracolo che nuova forza-lavoro (che, però, sono anche persone, con la loro cultura) progressivamente sposti verso l’alto quella esistente, invece di rigettarla nella disoccupazione, la rabbia e l’intolleranza.

Vasto programma, mi si dirà. E certamente lo è, ma senza questo programma (che, dovrebbe essere chiaro, implica prima di tutto la messa in discussione delle “quattro libertà” del progetto europeo per come è oggi), resta solo la meccanica, incorporata nella logica del capitale e non necessariamente voluta o progettata da alcuno, della creazione costante di “eserciti di riserva” pronti a prendere il posto dei renitenti locali (ovvero di chi avanzasse l’assurda pretesa di trarre dal suo lavoro quanto basta ad una vita sicura e dignitosa). Senza questo programma bisogna essere sensibili al dolore, ovunque si manifesta, senza dare patenti di civiltà dal sicuro di case confortevoli.

Non si può, io credo, guardare a questo fenomeno se non in questa ampiezza. Noi, insieme, dobbiamo riprendere nelle nostre mani il diritto, ed il dovere, di garantire un equilibrio che non sia trovato a spese della sistematica svalutazione delle vite e del lavoro.

In quel post avevo parlato di due “economie politiche”, distinte e reciprocamente rovesciate. Anche se sono in verità più di due, quel che si deve capire è che da una parte c’è una domanda di lavoro agile ed economico espressa dai nostri settori produttivi (in particolare da quelli sottocapitalizzati ed a tecnologia povera ed obsoleta) e dai primi strati della nostra stessa società, anzi c’è più precisamente una domanda di costante adattamento verso il basso della struttura dei costi per il quale è necessaria una continua espulsione e sostituzione. Questa economia politica vive di aggiustamenti regressivi continui, creando abbondanza della componente lavoro a basso costo riduce la sua necessità di capitale e investimenti, salvaguardando egualmente i profitti che possono utilmente essere attratti dai mercati esteri dei capitali. Il freno all’innovazione, la riduzione della produttività, il costante drenaggio dei capitali verso l’alta finanza, in particolare tedesca e anglosassone sono qui immagini dello stesso compromesso.

Ma questo compromesso trasmette comunque un surplus, ovvero flussi di remunerazione, che sono modesti rispetto al quadro del tenore di vita cui siamo abituati, ma cospicui, se visti con lo sguardo di altre culture e civiltà. Allora l’economia politica della emigrazione crea, essa stessa e non altre, l’economia politica dell’immigrazione. Il trasferimento del surplus, o la sua attesa (intervenendo in questo caso forme di credito, come abbiamo visto in “Note circa l’economia politica dell’emigrazione: la questione del credito”), alimenta una ininterrotta catena di agenti che si diramano capillarmente per l’intera Africa e per buona parte del resto del mondo, per approvvigionare la prima.

Cioè, molto semplicemente, per sfruttare una domanda.

L’incastro di queste due “economie politiche” sta devastando il mondo e sta facendo saltare ogni possibile patto sociale, e non per ragioni accidentali: si tratta di un meccanismo strutturale intrinseco alla dinamica necessaria del capitale.

Come mostra Stigliz nella “Postfazione” al suo ultimo libro sull’Euro da “un punto di vista strettamente economico” la cosa è, infatti, molto chiara e semplice: “con curve discendenti della domanda (il caso abituale), un incremento dell’offerta porta normalmente a un prezzo di equilibrio più basso. Sui mercati del lavoro questo significa che un afflusso di lavoratori dequalificati porta a una diminuzione dei salari. E quando i salari non possono scendere oltre, o non vengono diminuiti, ne consegue una maggiore disoccupazione” (p.347).

Invece Tito Boeri, con molti e capziosi argomenti ha provato a non essere in accordo con i teoremi fondamentali della sua disciplina, sostenendo contro ogni evidenza che non ci sia spiazzamento dei lavoratori (appoggiandosi su un solo studio di caso e molto particolare), ma come abbiamo visto in “Tito Boeri e l’immigrazione: l’assenza di spiazzamento”, lo ha fatto vanamente.

Il problema è dunque molto più grave, ed è giustamente carico di emozione, dato che, con l’evidenza dei suoi insopportabili costi umani, interroga profondamente l’intera nostra civiltà. Non si può risolvere né alzando muri armati mentre si continua a sovvenzionare la nostra agricoltura e si impedisce alla parte del mondo, che di questo vive, di proteggere la sua (come più volte lo stesso Stiglitz ha denunciato), oppure mentre gli si impedisce di proteggere la propria industria di trasformazione e li si inonda di prodotti industriali a basso prezzo, spesso prodotti con coloro che gli vengono rubati, una persona alla volta, e trasformati in manodopera semischiavizzata, sia in occidente sia nelle sue filiali in franchising. Oppure mentre si pagano fazioni ed eserciti per continuare a fare l'antico lavoro di garantirsi le materie prime.

Ma non si può risolvere neppure aggiungendo al torto sanguinante di sfruttare il mondo, quello di lasciare alle persone sole ed inermi la libertà di venire a fare i servi da noi. Ovvero aggiungendo allo sfruttamento a casa loro lo sfruttamento a casa nostra.

Noi abbiamo, certo, solo una casa, ed è questo piccolo pianeta che stiamo seviziando, ma la soluzione non può essere quella proposta dal liberalismo e imposta dal potere del denaro nelle mani di pochissimi: garantirsi che tutti siano soli a cavarsela nella vita combattendo gli uni con gli altri.

Di fronte a tutto ciò bisogna allora io credo mantenere la calma, guardare a tutti gli aspetti e lavorare a prevenire la formazione di dinamiche sociali, economiche e politiche che altrimenti ci travolgeranno. Dunque bisogna controllare il fenomeno operando, su tutti i suoi lati, per riportarlo ad una dimensione di flusso sostenibile, senza alterare verso il basso il nostro debolissimo mercato del lavoro, dando il tempo di integrare un numero generoso ma ragionevole di persone, senza creare ghetti e slums, e dandoci il tempo di capirci ed anche di apprezzarci vicendevolmente. Perché se si lascia che la conseguenza dello sfruttamento del mondo, condotto dal sistema delle multinazionali, ma anche da molti Stati in prima persona (e non solo occidentali, la prima filiale in franchising a cui penso è la Cina), sia solo lo sradicamento delle persone per farle diventare forza lavoro docile e a basso prezzo ovunque il capitale concentra la sua capacità produttiva (la stessa cosa avviene anche nel resto del mondo, basta guardare Dubai e Singapore, ma lì la schiavitù è palese, non mascherata), avremo il mondo che ci saremo meritati. Perché guardando il dito non avremo visto la luna.

Cioè non avremo visto che se siamo sull’orlo del baratro è perché ci siamo arresi, considerandola inevitabile, all'accelerazione verso una società dell'ipersfruttamento che questa apertura (merci, capitali e forza lavoro sono tutte forme del capitale come insegna Marx) a danno dei patti sociali di tutte le parti coinvolte produce inevitabilmente. Il respingimento alle frontiere e dentro le nostre città è, in altre parole, solo l'altra faccia del selvaggio sfruttamento che il nostro capitale (ovvero la logica stessa della valorizzazione) produce verso tutte le persone ridotte a forza-lavoro; ovvero ridotte ad astrazione.

Se non vogliamo questo dobbiamo continuare a chiedere regolazione.

Possiamo avere regolazione o avremo ancora più violenza. Bisogna infatti considerare che la struttura del problema è intrisa di violenza in tutti i suoi lati: le persone accettano di farsi forza lavoro perché vivono condizioni che reputano insopportabili (qui ci sarebbe da guardare); vengono messe in contatto con autentiche e ramificate imprese, ovvero organizzazioni finalizzate al trasporto della forza lavoro e pagate da questa (qui ci sono anche inserimenti di finanza ben documentati); queste organizzazioni operano violando la legge dei paesi di destinazione, mettendoli di fronte al ricatto tra il danno alle persone o la loro accettazione; i paesi di destinazione gestiscono ipocritamente le persone, cercando in sostanza di trasformarle quanto prima in utili oggetti, che riducano il prezzo degli omologhi oggetti locali.

Chi mette tutto questo tragico intreccio solo dal lato “salvare le persone”, pur generosamente, dimentica che tutto ciò assomiglia al dilemma classico dei rapimenti: salvo il singolo rapito, pagando il riscatto e creando con ciò le condizioni strutturali di far crescere l'impresa dei rapimenti, in modo da averne con certezza tre domani, e nove dopodomani, ventisette tra tre giorni e via dicendo? Oppure resisto, freno, cerco di arrestare i rapitori? Alla fine quale è la strada che riduce il danno? E' sempre stato un dilemma difficilissimo, ogni famiglia vuole la prima soluzione, sempre, lo Stato esiste per prendere le decisioni difficili (che in questo caso non devono significare far morire una sola persona, ma rendere sempre più difficile e costoso importarle in modo illegale e creare dei canali legali appropriati).

Ma di Stato, in effetti, dopo un quarantennio di cura neoliberale ne abbiamo poco.

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