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Un invisibile fiume sotterraneo

Michael Löwy su “Malinconia di sinistra” di Enzo Traverso

di Maurizio Acerbo

Da estimatore dei libri dello storico Enzo Traverso ho tradotto questa bella recensione del suo ultimo libro Malinconia di sinistra. Avendo fondato negli anni ’80 una rivista a 19 anni che si chiamava Spleen e dato che “in mezzo alle sconfitte ci sono nato” come rappava un poeta della mia generazione mi ritrovo nella “tradizione nascosta” di cui parla Traverso

Questo brillante saggio è un tentativo di recuperare una tradizione nascosta e discreta: la tradizione della “malinconia di sinistra”. Questo stato d’animo non fa parte della narrazione canonica della sinistra: la sinistra è più orientata a festeggiare gloriosi trionfi che tragiche sconfitte. Tuttavia, la memoria di queste sconfitte – dal giugno 1848 a maggio 1871, gennaio 1919 e settembre 1973 – e la solidarietà con la sconfitta nutrono la storia rivoluzionaria come un invisibile fiume sotterraneo. Nelle profondità della rassegnazione, questa melanconia di sinistra è un filone rosso che attraversa la cultura rivoluzionaria, da Auguste Blanqui al cinema critico, passando per Gustave Courbet, Rosa Luxemburg e Walter Benjamin. Traverso con forza – e contro-intuitivamente – rivela l’intensa carica sovversiva, emancipatoria del lutto rivoluzionario.

La storia del socialismo negli ultimi due secoli è stata una costellazione di sconfitte tragiche e spesso sanguinose. Tuttavia, ciò non porta all’accettazione dell’ordine stabilito – anzi al contrario. Nel suo ultimo articolo del gennaio 1919, Rosa Luxemburg scrisse “La strada del socialismo è pavimentata da sconfitte … da cui traiamo esperienza storica, scienza, forza, idealismo!”. Lo stesso spirito ha animato Che Guevara quando ha detto ai suoi assassini nell’ottobre del 1967: “abbiamo perso, ma la rivoluzione è immortale”. Tuttavia, secondo Traverso questa dialettica della sconfitta potrebbe portare ad una sorta di teodicea secolare, con una fede quasi religiosa nella vittoria finale. È meglio riconoscere, come fece la Luxemburg nel 1915, che il futuro rimane incerto: “il socialismo o la barbarie”.

A differenza delle sconfitte gloriose del passato – 1848, 1871, 1919 – la sconfitta del 1989 (la caduta del Muro di Berlino, seguita dalla restaurazione del capitalismo) è stata una lugubre sconfitta che ha generato disillusione. Di qui lo sviluppo, da quegli anni, di un marxismo malinconico di cui Daniel Bensaïd è stato uno dei rappresentanti più eminenti. Secondo Enzo Traverso, la sua arte risiede in quello che Walter Benjamin definiva l’organizzazione del pessimismo: vale a dire, venire incontro al fallimento senza capitolare al nemico, sapendo che un nuovo inizio adotterà forme senza precedenti.

La malinconia di sinistra si esprime meglio nelle creazioni dell’immaginario rivoluzionario che nelle controversie teoriche. Il libro esplora quindi come questa sensibilità figura nel cinema, attraverso le opere di Chris Marker, Gillo Pontecorvo e Ken Loach. A differenza di quando scriviamo la storia, l’obiettivo del cinema non è la precisione. Ma mostra la dimensione soggettiva degli eventi, e questo lo rende un barometro dell’esperienza rivoluzionaria. Un marxista anti-colonialista, Pontecorvo è stato il film-maker par excellence nel ritrarre le sconfitte gloriose che preparano il futuro, come ha fatto in La battaglia di Algeri (1966) o Queimada (1969), che Edward Said considerava un “capolavoro”. In un certo senso la stessa valutazione potrebbe anche riguardare Terra e Libertà di Ken Loach, che proietta una visione melanconica della rivoluzione spagnola del 1936-37 e tuttavia è “tutt’altro che rassegnato”. Il suo film è inteso come un monumento ai rivoluzionari del Novecento, un monumento epico colorato dal lutto e che non è né dogmatico né sentimentale.

Un altro capolavoro, Calle Santa Fé di Carmen Castillo (2007) è un epitaffio dedicato alla memoria del suo compagno e partner Miguel Enríquez e alle rivoluzioni latino-americane degli anni ’70. A differenza del film di Ken Loach, innanzitutto documenta una sensazione profonda: Carmen Castillo non indaga le ragioni della sconfitta, ma piuttosto le emozioni che produce questa sconfitta, così come le reazioni della gioventù cilena che esse stesse oggi “adottano la memoria della sconfitta”. Le pagine dedicate da Enzo Traverso a questo film sono tra le più belle del suo libro.

I film di questi tre registi, come quelli di Theo Angelopoulos e Patricio Guzmán, descrivono il ventesimo secolo come un’era tragica di rivoluzioni mancate e di utopie sconfitte. La loro malinconia di sinistra esprime il lutto collettivo di una generazione.

Traverso dedica un capitolo a quella che definisce “malinconia postcoloniale”, che ha due forme: 1) disincanto nei confronti dei processi di decolonizzazione falliti e 2) delusione per l’incontro fallito tra il marxismo e l’anticolonialismo. Egli analizza molto finemente gli scritti di Marx, raccogliendo sia la sua visione eurocentrica iniziale che la sua graduale trascendenza a partire dagli anni ’60. Nel corso del ventesimo secolo, la storia del marxismo è stata inestricabilmente legata ai movimenti di liberazione nazionale, benché i marxisti occidentali (Lukács, la scuola di Francoforte) ignorassero la lotta dei popoli colonizzati. A mio avviso, una tale limitazione è innegabile, ma non credo che abbia prodotto una “melancolia di sinistra”, a differenza del primo tipo di “malinconia postcoloniale” – i processi di indipendenza falliti – di cui Enzo Traverso parla molto poco, ma che gravò pesantemente su una generazione di militanti anti-coloniali.

L’ultimo capitolo del libro è dedicato al nostro amico Daniel Bensaïd. Nella nuova congiuntura creata dagli anni ’90 (la restaurazione del capitalismo nell’Unione Sovietica e nell’Europa Orientale), Daniel ha cercato di ripensare la storia sulla base di Marx e Trotsky, ma anche della “galassia melancolica” – Baudelaire-Blanqui-Péguy-Walter Benjamin – come il terreno degli incerti e dei possibili, delle biforcazioni e della crescita di nuovi rami. Possiamo criticare la lettura di Bensaïd degli scritti di Benjamin – e in particolare per quanto riguarda le sue Tesi sulla filosofia della storia – perché lascia da parte la loro dimensione teologica e la relazione con l’utopia. Tuttavia, questa lettura atipica e non convenzionale è stata una delle prime a individuare la dimensione politica di Benjamin. Più che un’interpretazione scolastica dei testi, il saggio di Bensaïd, Walter Benjamin, sentinelle messianique (1990) è una riflessione che inizia da Benjamin, che usava come bussola per i rivoluzionari nella tempesta del 1989-90. La rivoluzione non può essere concepita come qualcosa di “inevitabile”: come ipotesi strategica e orizzonte regolatore, deve necessariamente essere oggetto di una scommessa melanconica (scommessa di Pascal, riveduta e corretta dal marxista Lucien Goldmann).

In conclusione, Enzo Traverso critica il discorso normativo del presente momento che presenta il regime liberale e l’economia di mercato come l’ordine naturale del mondo e stigmatizza le utopie del ventesimo secolo. Questo discorso dominante ritiene la malinconia di sinistra colpevole per i suoi legami con gli impegni sovversivi del passato. Ma la Sinistra stessa spesso respinse la malinconia, per evitare di “dispiacere Billancourt” [espressione che indicava i lavoratori del grande impianto di Renault a Billancourt, uno storico “bastione” del Partito Comunista Francese]. È tempo di scoprire questa malinconia ribelle, che si distingue dalla rassegnazione e dalla semplice “compassione” per le vittime. Questo è uno degli attributi dell’azione rivoluzionaria ed è iscritta nella storia di tutti i movimenti che hanno cercato di cambiare il mondo negli ultimi due secoli. Perché “attraverso le sconfitte l’esperienza rivoluzionaria viene trasmessa da una generazione all’altra”. Credo che l’autore di Le Pari mélancolique (1997) [Daniel Bensaïd] sarebbe d’accordo con questa conclusione …

l’articolo di Michael Lowi è uscito su Viento Sur. Io ho tradotto la versione inglese dal sito della Verso books

Comments

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Eros Barone
Saturday, 12 August 2017 19:36
La riflessione di Maurizio Acerbo sul testo da lui recensito, basandosi su una premessa fallace e nichilistica ("La storia del socialismo negli ultimi due secoli è stata una costellazione di sconfitte tragiche e spesso sanguinose"), paga necessariamente un prezzo assai alto e non risarcibile alla “Linksmelancholie” che costituisce il basso continuo di tale riflessione. Nell'articolo del segretario (di ciò che resta) di Rifondazione Comunista sono evidenti le tracce di quella “vertigine della sconfitta epocale” da cui non riesce ad affrancarsi anche la migliore intelligenza di questa fase storica (ma da cui affrancarsi è un preciso dovere intellettuale e morale per chi assume responsabilità in campo politico e organizzativo).
Come sempre, in questo genere di prosa che oscilla fra l’elemento autobiografico e l’elemento storico non è difficile individuare quanto spetti all’opinione senza un grammo di verità (né, del resto, di falsità), laddove l’opinione è la materia prima di ogni comunicare, e quanto spetti alla verità, la quale, come è giusto, esige qualcosa di ulteriore rispetto all’atto semplice, anche se importante, di comunicare una testimonianza: qualcosa che si può definire un'argomentazione, se non una dimostrazione. Sennonché l’ottica depressiva post-ottantanovesca che condiziona lo sguardo di Acerbo/Traverso sceglie, tra quelli che Spinoza denominava “affetti della verità”, soltanto i “meno perfetti”, vale a dire nostalgia, riprovazione,
tristezza, di cui la sua "malinconia ribelle" è una variante povera e intirnsecamente remissiva, e non trova alcun posto per quelli “perfetti”, quali il piacere, la gioia, l’entusiasmo.
Certo, l’ottica della “coscienza emancipata” non è (e nel contempo è) l’ottica della “coscienza servile”. Tuttavia, è vero che, nella misura in cui la riflessione accetta di radicarsi sul terreno intelelttuale predisposto dalla classe dominante, la coscienza emancipata resta espressione della conservazione e riproduzione dei rapporti sociali di proprietà e di dominio esistenti. Perciò Hegel definisce nella “Fenomenologia dello Spirito” la “coscienza infelice” come “essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione”, che scopre, nel suo ritornare in se stessa, la propria “libertà ancora irretita entro la servitù”. Hegel precisa inoltre, delineando il percorso della liberazione di tale coscienza, che “solo un espandersi oltre il singolo può essere universale formare o coltivare”, giacché “il senso proprio è pervicacia”. In effetti, aggiunge il filosofo di Stoccarda richiamando, per connotare la dialettica di signoria e servitù, una massima biblica (“initium sapientiae, timor domini”), se l’inizio della sapienza sta nella “paura” del signore, è pur sempre il lavoro che forma. Parimenti, se è incontestabile che la verità della coscienza indipendente è la coscienza “servile”, è altrettanto innegabile che solo “la coscienza che lavora giunge all’intuizione di se stessa come indipendente”. Ed è proprio in questa direzione che si dischiude una possibilità di approfondimento che vada oltre questa “incessante elaborazione del lutto” e questa surdeterminazione del Male, cui l’ideologia etica dominante costringe, e in cui rinserra, le “menti prigioniere”. Economicismo ed eticismo, nel loro reciproco richiamarsi, esprimono allora l’incapacità, caratteristica del mondo contemporaneo, a nominare e a volere un’alternativa allo stato di cose esistente, rompendo i confini di un universo dominato da una combinazione singolare di rassegnazione al necessario (= economia capitalistica, UE, subordinazione permanente all’imperialismo) e di una volontà puramente negativa, unicamente distruttrice (= populismo, anarchismo “da gran signore”, "Linksmelancholie" e, in definitiva, decadentismo), laddove è assai chiaro che la volontà puramente negativa è il doppione di una necessità cieca. Coraggio, si torni a nominare e a volere il Bene, chiamandolo con il suo vero nome: il socialismo, il comunismo, la grande speranza di tutti coloro che soffrono e che lavorano. E Lei, caro Acerbo, lasci perdere i 'cattivi maestri' dell'intellettualità post-trozkista e tenga presente che la teoria marxista è generosa con chi non le volta le spalle.
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