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ilsimplicissimus

Heil, mister Trump

di ilsimplicissimus

L’elezione di Trump è stata una manna: ci mostra l’America com’ è, senza gli abiti dell’imperatore, senza il bon ton politico ideologico, senza mitologie e leggende accumulatesi in un secolo. Ci mostra l’America di Monroe e della sua dottrina, quella di Benjamin Harrison che ne mise a punto gli strumenti, quella di William McKinley che inaugurò con la guerra cubana un colonizzazione tanto più tracotante quanto più dissimulata; ci indica gli States di Woodrow Wilson e la sua prima riduzione in ceppi dell’Europa o quelli di Coolidge che portarono al Crollo di Wall street o quelli di Eisenhower, di Johnson, della famiglia Bush. Lincoln e Roosevelt giacciono come soprammobili, fanno da alibi alle teorie dell’eccenzionalità americana, ma  alla fine salta fuori per bocca del presidente che “rimarremo sempre il paese più potente al mondo!”. Heil.

La crisi coreana se così la vogliamo chiamare mette finalmente allo scoperto tutto questo verminaio: si minaccia la distruzione atomica per chi volesse mettere a punto armi potenzialmente in grado di colpire gli Usa, già questo basta per costituire una minaccia e giustificare l’Armageddon. Poco importa se queste minacce abbiano solo una remotissima probabilità di realizzarsi e siano anzi una dimostrazione di debolezza,  il fatto centrale della vicenda è che la tracotanza americana non risponde a minacce dirette, è completamente gratuita e ormai non ha nemmeno bisogno di pretesti per manifestarsi. Ma non è nemmeno originata dalla rozzezza di Trump il quale alla fine non fa che interpretare le sanzioni votate quasi all’unanimità dal congresso. Francamente non riesco a capire perché il solo possesso di armi di nucleari di cui dispongono ufficialmente o meno (vedi Israele) ormai molti Paesi debba essere di per sé  una minaccia. Se così fosse allora gli Usa stessi, che sono fra l’altro gli unici ad averle effettivamente usate, dovrebbero guardarsi come una minaccia se solo fossero in grado di guardarsi allo specchio senza le lenti di un’ipocrisia e di una favola senza limiti. E dire che questi, seguiti dall’intero occidente, costituirebbero il mondo libero e democratico, l’impero del bene e dei valori universali che poi si  concretizza in guerre, stragi, menzogne, in capitalismo petrolifero e semplice vecchia rapina come quella dei conquistadores.

Tutto questo non data da ieri, ma oggi si spalanca senza più freni in un manicheismo a doppia faccia, ridicolo nelle sue pretese infantili e ottuse, tragico nelle sue conseguenze e che rassomiglia molto a una sorta di Armageddon giocato al computer. Purtroppo la progressiva infatilizzazione delle popolazioni occidentali, necessaria alla lotta  di classe al contrario e all’intaurazione di oligarchie globali, rende tutto questo efficace perché solo giocando scioccamente al bene e al male si può indurre a credere sul serio che il capitalismo è un buon sistema, che Cuba è un gulag tropicale, Assad  peggio di Hitler e che la Corea del Nord minaccia il mondo: siamo alla barbarie che vuole sconfiggere la barbarie come assicurato da intellighentie che rassomigliano più a capi scout , ovvero cretini vestiti da bambini e che tengono bordone alla straordinaria avidità dei ricchi e dei complessi militar-industriali. Naturalmente il risultato di tutto questo lo pagheranno le persone comuni, quelle che ingenuamente continuano a credere, per inveterata pigrizia e passività da televisione, intorpidite dal politically correct, a questa presunta intimità con il bene e all’ America benefattrice o comunque bene intenzionata.

E’ proprio questo fattore che rende molto arduo l’allontanamento degli americani da queste orrende logiche e che finisce per paralizzare ogni inziativa in questo senso. Un documentario di Lionel Rupp presentato di recente al festival di Locarno e incentrato sulla campagna per la nomination di Bernie Sanders restituisce in maniera immediata e vivida la sconfitta della buona volontà quando essa non riesce ad organizzarsi dal basso e rimane prigioniera delle logiche volutamente esclusive sia (in questo caso) del Partito democratico sia della eccezionalità Usa. Così  la “rivoluzione politica” sperata si è arenata sulla ricomposizione del profondo scollamento tra le fasce popolari e il bipartitismo istituzionale. E ora siamo di nuovo alla Corea, voluta dal congresso.

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