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Che cos'è il Neurocapitalismo e perché ci siamo dentro

Antonella Di Biase

Siamo nel bel mezzo di quella fase geologica chiamata Antropocene. Abbiamo ribaltato le sorti del pianeta e dell'ecosistema al punto da diventare tanto potenti quanto la tettonica a zolle o l'era glaciale. I fattori che hanno portato a questo processo sono essenzialmente due: la stupidità umana e la tecnologia. E se la stupidità umana è una costante nella storia, senza l'aiuto della tecnologia degli ultimi secoli non saremmo mai riusciti a fare cose mirabolanti come riempire l'atmosfera terrestre di agenti chimici.

A suo modo, comunque, anche la tecnologia è una costante della nostra esistenza. L'uso di strumenti è una delle caratteristiche che ci hanno allontanati progressivamente dalla scimmia. Oggi i telefoni sono il perno della nostra vita sociale, i computer i nostri principali strumenti di lavoro e le biotecnologie come il pacemaker hanno letteralmente potere di vita o di morte. Più la società si fa evoluta e complessa, più gli strumenti tecnologici si intrecciano con le dinamiche sociopolitiche, economiche e culturali.

Nel libro Neurocapitalismo (Mimesis, 2016), Giorgio Griziotti mette in luce il ruolo sociale della nostra simbiosi con la tecnologia: da un lato strumento indispensabile al progresso e di potenziale ribellione, dall'altro di controllo e sottomissione. Il libro—attualmente in traduzione in inglese, francese e spagnolo—rivede il concetto di capitalismo, generalmente legato a un mondo antico di plusvalore e strumenti di produzione,

in una chiave contemporanea che tende al post-umano: se l'avanzamento tecnologico ci ha permesso di cambiare così profondamente il mondo, chi ci dice che non stia cambiando altrettanto noi stessi?

Ho incontrato Giorgio in un pomeriggio assolato per parlare del suo libro, di Apple, di semafori e di transumanesimo. Ci teneva che gli dessi del tu perché, nonostante i capelli bianchi, è ancora quel giovane militante di sinistra degli anni Settanta costretto a un esilio in Francia per motivi politici.

* * * *

Motherboard: Com'è nata l'idea di Neurocapitalismo?

Giorgio Griziotti: Il libro è nato dalle mie passioni più grandi: la politica e la tecnologia. Mi sono occupato di software fin dall'inizio dei miei studi, ho studiato ingegneria informatica quando queste tecnologie erano ancora agli albori e ho lavorato per anni in questo campo. Ma sono sempre stato molto interessato e implicato nella politica (che mi ha permesso di girare il mondo, ride…), e mi piaceva l'idea di studiare i legami tra questi due interessi.

Nel periodo in cui studiavo, all'Università di Berkeley nasceva il movimento storico che combatteva la guerra nel Vietnam, e nello stesso ambito nasceva lo spirito del free software. Così ho intuito quanto questi due aspetti fossero profondamente connessi.

 

Tecnologia e politica?

Sì, la tecnica ci influenza da sempre, modifica le nostre soggettività sin dalla preistoria. All'inizio del libro cito, fra l'altro, la famosa scena della scimmia in 2001 Odissea Nello Spazio che, afferrando un osso per farne un'arma, crea il primo oggetto tecnico.

Dagli anni Novanta in poi, però, la tecnologia è diventata per così dire più invasiva, sono nate delle vere e proprie soggettività ibride. La tecnologia non è più soltanto uno strumento, una mediazione con il mondo, ma diventa parte integrante della soggettività.

 

Che cos'è il neurocapitalismo nello specifico? Chi dobbiamo temere?

Possiamo dire che se Marx parlava di capitalismo industriale, oggi siamo in una fase di capitalismo cognitivo o biocognitivo. Le fabbriche esistono, ma non sono più il perno politico centrale. Siamo passati da un'epoca in cui il motore era l'accumulazione in senso fisico a una società basata sulla rendita e sullo sfruttamento della vita in senso più ampio. Passare il proprio tempo davanti a uno schermo è una forma di produzione, e il capitalismo cognitivo la sfrutta.

La nostra economia si basa sulla conoscenza e sull'informazione. Il capitalismo della Silicon Valley, parte integrante della macchina finanziaria, basa il proprio potere proprio sulla sua maestria algoritmica nel manipolare le dinamiche dell'attenzione e dello spazio-tempo.

 

Qualche tempo fa nella città di Ausburg, in Germania, sono stati installati dei semafori a terra per facilitare i pedoni che hanno la testa sullo smartphone. Cosa ne pensi? È un ulteriore incoraggiamento del 'sistema' a restare attaccati ai device?

In un certo senso. Di sicuro non è un invito ad avere un atteggiamento critico. In un passo del mio libro scrivo del tempo che divora il territorio: al capitalismo cognitivo non interessa certo che noi guardiamo il paesaggio...

Gli smartphone sono anche un modo di lavorare di continuo. Storicamente, la rottura della barriera tra vita e lavoro finisce con la fabbrica, con l'inizio del lavoro autonomo e del precariato. Tra produrre e vivere c'è un'osmosi continua veicolata, appunto, da queste tecnologie.

 

Eppure Apple, nella famosa polemica contro l'FBI, agli occhi del mondo è emersa come 'paladina della privacy'. Ma in fin dei conti sono stati loro a inventare lo smartphone...

A mio giudizio quella di Apple era più che altro una posizione di facciata. Anche perché è un'azienda che pratica il software proprietario e che appartiene a una categoria essenzialmente conservatrice. Nonostante ciò, Apple cerca, in modo maldestro, di rappresentare la parte libertarian o anarco-capitalista del dibattito, secondo cui la libertà individuale è preponderante rispetto al collettivo. E io, onestamente, non sono d'accordo con questa visione.

 

Il tuo discorso si inserisce nel dibattito della biopolitica, no?

Sì, la trilogia di Impero di Hardt e Negri e il pensiero di Foucault in generale sono state alcune delle mie fonti di ispirazione principali. Rifacendomi ai loro concetti ho riflettuto sul nostro rapporto con lo smartphone e con le tecnologie simili. Foucault per esempio non poteva immaginare, all'epoca, le incredibili evoluzioni in questo campo.

Ho coniato il concetto di Bioipermedia che ho descritto come "l'ambito in cui il corpo nella sua integralità si connette ai dispositivi di rete in modo talmente intimo da entrare in una simbiosi in cui avvengono modificazioni e simulazioni reciproche".

I vecchi centri di calcolo di ieri, o gli stessi computer di oggi, coinvolgono la sfera razionale del cervello, l'emisfero sinistro. Oggetti come smartphone e smartwatch, invece, entrano direttamente in risonanza con l'emotività e con il corpo. Nel discorso che faccio in Neurocapitalismo, insomma, la biopolitica di Foucault assume una valenza tecnologica. Il controllo dei soggetti, con i device, si estende ai sensi e alle emozioni, diventa granulare—vedi il controllo operato attraverso i Trojan di Stato.

 

Quali sono le ripercussioni del neurocapitalismo sulle persone, secondo te?

Come dicevo, gli uomini e le tecnologie si stanno ibridando. Siamo in un'epoca in divenire, quasi un divenire macchina—ma per ora non abbiamo certezze sul futuro. Il concetto di postumano della filosofa Rosi Braidotti è un ottimo esempio di ciò che intendo: l'identità dell'essere umano, alla luce del progresso tecnologico, sta subendo una profonda mutazione. La visione di Rosi mostra però un ottimismo un po' indiscriminato: se il postumano prevede la formazione di una nuova soggettività, è possibile ma non scontato che si sviluppi un'etica anti-capitalistica in cui reddito e profitto non siano i motori.

Ma nel contesto attuale ogni competenza ogni capacità creativa è una merce. Se c'è un progetto e tu vieni assunto per parteciparvi, la tua competenza corrisponde a una merce che viene pagata poco a te e rivenduta con profitto. Nulla garantisce che si sviluppi un'etica diversa, anzi, senza presa di coscienza e lotte che creino delle linee di fuga opponendosi al neoliberismo, anche il postumanesimo, ammesso che ci si arrivi, resterà sotto il segno della razionalità economica che domina attualmente.

 

Cosa pensi allora del transumanesimo, che invece esalta questo aspetto di ibridazione in senso ottimistico?

Il transumanesimo è una filosofia che accompagna bene il neoliberismo della Silicon Valley. Un recente articolo di Le Monde lo definiva addirittura Religione 3.0: la visione del divenire macchina diventa un divenire dio (a questo sottende l'immortalità che si otterrebbe integrandoci alle tecnologie).

Sotto un altro punto di vista, il transumanesimo riprende la tradizione illuminista che io critico all'inizio del libro, considerandola ormai tramontata. Questo non significa che non si possano utilizzare le tecnologie per migliorare, potenziare o allungare la vita, ma come ci insegnano psichiatri e psicologi, una visione degli umani come onnipotenti e immortali è foriera di gravi patologie... Direi, per concludere, che non bisogna sottovalutare il dibattito sulle finalità etiche, politiche e sociali delle loro utilizzazioni.

Comments

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claudio
Saturday, 02 September 2017 13:25
qui si celebra un "Tutti" che è in realtà solo una minoranza esigua della forza lavoro mondiale.
una visione a dir poco elitaria e biancocentrica delle dinamiche di sfruttamento contemporanee.
lo snobismo dell' intellettuale opportunista.
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