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senso comune

Una classe politica imbrogliona. L’esempio veneto

Enrico Padoan

I referendum consultivi che si terranno in Lombardia e Veneto il 22 ottobre e che chiederanno ai cittadini delle due regioni se “vorranno godere di ulteriori forme di autonomia”, hanno attratto una grande attenzione fra l’opinione pubblica. In questo articolo farò riferimento al caso veneto, analizzando il merito della questione e gli insegnamenti che possiamo trarre a livello politico da questi mesi di campagna referendaria.

Sarò di parte. Milito nel Comitato Veneti per l’Astensione che ha ricevuto il pieno appoggio di Senso Comune. Ritengo che si tratta di un referendum inutile per i veneti ed utile per i partiti. Un referendum non necessario per l’avvio della trattativa Stato-Regione per la cosiddetta “autonomia differenziata” ex art. 116.3 Cost. Un referendum che Zaia ha spacciato per “vincolante”: un “vincolo” auto-imposto che esplicitamente lega una trattativa istituzionale alla buona riuscita di un plebiscito personale. Una trattativa che arriva con 16 anni di ritardo, durante i quali Lega Nord e Forza Italia – le forze politiche che governano il Veneto da 22 anni – hanno governato per 8 anni a Roma, senza ottenere (né seriamente perseguire) alcun risultato concreto. Si sono invece intestardite in complessi iter di riforma costituzionale (bocciata nel 2006 dai cittadini italiani) ed in tentativi (goffi e naufragati) di dare seguito all’art. 119 Cost. (sul c.d. “federalismo fiscale”), anziché perseguire la strada più facile e comoda, ovvero il percorso per l’”autonomia differenziata” attraverso una trattativa fra istituzioni del medesimo colore politico. Nel mentre, si è ben pensato di dare inizio ad un lungo percorso di tagli finanziari a Regioni ed Enti Locali (valutati in 40 miliardi di euro nel periodo 2008-2015), stroncando dunque ogni velleità “regionalista”.

Le mie convinzioni a riguardo dell’architettura istituzionale in tema di decentramento amministrativo e fiscale sono del tutto simili a quelle esposte da Stefano Poggi in un articolo su questo stesso blog, per cui non mi ci soffermerò troppo. Aggiungo che, secondo dati ITANES del 2006, il 35% dei veneti indicava nell’”Italia” la propria principale fonte di identità territoriale, seguita dal “Comune” di appartenenza (23%), dalla Regione (15%), dall’”Europa” (13%) e dal “Mondo” (13%). L’identificazione regionalista era leggermente più diffusa fra l’elettorato di destra. Un recente sondaggio di Demos & PI continuava a evidenziare che l’identificazione municipalista era più diffusa rispetto a quella regionalista, nonostante il clima referendario. Insomma, il “popolo veneto” pare una costruzione un po’ forzosa, pur se comunque sentita a livello emotivo. Ma le vicende politiche a livello regionale continuano ad essere poco seguite (chi, fra i veneti, e fra gli altri cittadini italiani, può dire di conoscere il nome di almeno due assessori della rispettiva giunta regionale?), poco legittimate (in Veneto l’affluenza alle ultime regionali fu del 53% rispetto al 75% delle politiche), per cui poco controllate dal basso e dunque prone a malversazioni e mala gestione (vedi Mose, vedi Pedemontana, vedi scandalo delle banche popolari venete, vedi commissariamenti bancari, vedi rivolte dei medici di base contro la Regione). Se regionalismo dev’esserci, deve trattarsi di un livello di gestione territoriale aperto alla partecipazione ed al controllo popolare. Analogamente, se municipalismo dev’esserci, deve trattarsi di un livello in cui i cittadini siano provvisti di strumenti istituzionali per la partecipazione e la gestione, e non di un vago ed autoritario “potere ai Sindaci” come spesso propugnato da forze reazionarie.

Si è parlato di questi temi in campagna referendaria? Si è aperto un serio dibattito sul concetto di autonomia? No. Si è parlato di “residuo fiscale”, di “Veneto a statuto speciale”, di “trattenere i soldi sul territorio”, di “Catalogna”. Cioè di cose che nulla hanno a che vedere con il quesito referendario: non avremo “soldi in più”, non avremo lo statuto speciale (peraltro aspetto già chiarito dalla Corte Costituzionale), e la Catalogna non c’entra un fico secco. I cittadini veneti andranno a votare bombardati da una propaganda truffaldina, pagata a caro prezzo (14 milioni di euro – sottratti al diritto allo studio ed alla mobilità locale – per l’organizzazione del plebiscito, più un altro milioncino e mezzo per la campagna comunicativa “istituzionale”). I cittadini saranno chiamati ad un plebiscito per dare un assegno in bianco a Zaia – senza essere consultati sugli unici aspetti che meritavano un consultazione: quali competenze verranno chieste? Come intenderete farne uso?

La visione centralista di Zaia & co. è ben esemplificata dalla storia del referendum provinciale bellunese, che verrà effettuato lo stesso 22 ottobre affinché la Regione riconosca le “specificità” del territorio montano. Già nel 2011, quando il Consiglio Provinciale bellunese paventò il passaggio al Trentino, Zaia bollò l’iniziativa come “provincialista”, quando invece “è il momento del federalismo [Venezia-centrico]”. Numerose perplessità sulla consultazione bellunese sono state sollevate dall’assessore leghista Bottacin, peraltro… ex presidente della Provincia di Belluno. Insomma: noi leghisti non vogliamo più schei per i territori, ma vogliamo decidere a porte chiuse su come spendere questi schei.

Per questo, quando i leghisti parlano di “autonomia”, proprio quando la loro trasformazione in partito di estrema destra è ormai compiuta, ci stanno imbrogliando. “Imbroglio”, del resto, è un lemma italiano che deriva dal veneto. Deriva da “In-Brolo”, cioè “nell’orto/giardino” all’esterno di Palazzo Ducale, ove le potenti famiglie della Serenissima si riunivano per “imbrogiar”, cioè per spartirsi cariche in segreto (oggi si direbbe “inciuciare”) e per tramare ai danni dell’interesse generale e a difesa del “particulare”. Nulla è cambiato, da allora. Ce l’avranno nel DNA.

Ma ciò che più preoccupa è l’atteggiamento tenuto dalle altre forze politiche in Regione. Un atteggiamento che è la cartina di tornasole dell’inadeguatezza politica e degli opportunismi di una classe dirigente nazionale. Il PD veneto si spertica in lodi per il referendum. Lo stesso PD che, in dieci mesi, ha completamente modificato il proprio pensiero circa l’architettura istituzionale della Repubblica Italiana. Cioè, mica bruscolini. Dieci mesi fa il PD sosteneva la iper-centralista riforma costituzionale renziana. Oggi, chiacchiera di autonomie. Il tutto perché, parole ascoltate con le mie orecchie dal segretario del PD regionale, “Zaia ha un gran consenso. Non ci potremo mica mettere a contrastarlo su questi temi?”. Del resto, per un partito che ha interiorizzato la retorica berlusconiana dei “lacci e lacciuoli” da togliere alle imprese – vedi articolo 18, vedi Jobs Act, vedi incentivi alle imprese – il cambio a 180 gradi sulla questione istituzionale non può sorprendere.

Che dire dei 5 Stelle? I quali, in un sondaggio fra gli iscritti in vista dell’elaborazione del programma nazionale per le politiche del 2013, votarono in massa per “l’abolizione delle regioni”? Ho sentito personalmente da esponenti grillini frasi come “bisogna lasciare che la locomotiva veneta corra da sola”. Ora, premettendo che ciò nulla ha a che vedere con il quesito del 22 ottobre, bisognerebbe ricordare agli esponenti del partito di Grillo che a breve ci saranno le regionali in Sicilia. Che i cittadini siciliani sappiano che questo partito ha un programma variegato, probabilmente in ognuno degli 8000 comuni italiani. Che questo partito manca dunque ad oggi di un progetto serio per il Paese.

È questo il modo di intendere la parola “opposizione”? Porsi sullo stesso piano ideologico e comunicativo delle forze dominanti? Se così è, ed è così, allora il progetto politico di Senso Comune è quanto mai necessario ed urgente. Sulle questioni istituzionali, sulle questioni del lavoro, della scuola, della sanità, degli investimenti, serve che si cominci ad ascoltare il Senso Comune, e non ci si basi più sulle chiacchiere opportuniste e sulle misure antisociali di una classe politica che ha identificato nel cittadino il proprio nemico giurato.

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