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Corea: Washington infiamma la crisi

di Mario Lombardo

A pochi giorni dalla prima visita in Asia orientale del presidente americano Trump, gli Stati Uniti stanno spingendo rapidamente la crisi nordcoreana verso il punto rottura. Il rischio di una guerra nella penisola di Corea è infatti aumentato ancora di più questa settimana con il posizionamento di ben tre portaerei USA (USS Nimitz, Theodore Roosevelt e Ronald Reagan) e l’inevitabile intensificarsi della retorica del regime di Pyongyang.

La presenza contemporanea delle tre navi da guerra in uno scenario di crisi è piuttosto rara ed è chiaramente da inquadrare nell’escalation di minacce americane contro la Corea del Nord e nei preparativi per un attacco militare, nonostante il capo di Stato Maggiore, generale Joseph Dunford, abbia parlato nei giorni scorsi di “dimostrazione di routine dell’impegno USA nella regione”.

Quest’ultima decisione dei comandi militari americani si aggiunge alle esercitazioni navali con la Corea del Sud di settimana scorsa che hanno coinvolto sottomarini nucleari e decine di imbarcazioni da guerra. Sempre nei giorni scorsi, poi, un’altra notizia relativa alle iniziative belliche del governo americano aveva generato preoccupazione in tutto il mondo, cioè il possibile reintegro dell’ordine di allerta in un arco di tempo di 24 ore dei bombardieri nucleari B-52, cancellato alla fine della Guerra Fredda nel 1991.

A questo proposito, in un’intervista al sito Defense One il capo di Stato Maggiore dell’aeronautica militare, generale David Goldfein, aveva spiegato come sia necessario studiare modalità con cui utilizzare le armi nucleari non solo in funzione di deterrente ma anche “in combattimento”.

I toni più minacciosi nei confronti della Corea del Nord sono stati però ancora una volta quelli del presidente Trump. Quest’ultimo, in un’intervista a FoxNews, ha assicurato che gli Stati Uniti sono “pronti a tutto” per fronteggiare la crisi coreana e, anzi, i media e l’opinione pubblica resterebbero “sconvolti” se conoscessero il livello “assoluto” di preparazione del governo e dei militari per un possibile conflitto.

Se i rischi di una guerra nella penisola di Corea vengono discussi apertamente dai media occidentali, il dibattito sulla questione continua a essere in sostanza impostato nei termini voluti dal governo americano. Il presupposto è cioè che il regime di Kim rappresenti una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti o degli altri paesi della regione e che le armi nucleari nordcoreane saranno prima o poi utilizzate anche senza nessuna ragione apparente.

La Corea del Nord va perciò fermata in un modo o nell’altro. La strada della diplomazia va percorsa fino in fondo, ma al termine di essa, in definitiva, sono in molti a vedere come possibile se non addirittura doverosa un’azione di forza.

La realtà, al di fuori degli schemi ufficiali, vede piuttosto gli Stati Uniti come paese aggressore. Basti considerare lo schieramento di forze in Corea del Sud e al largo della penisola, così come le continue provocazioni nei confronti di Pyongyang e le minacce militari, compresa la preparazione di piani per la “decapitazione” dei vertici del regime.

La Corea del Nord, al di là della retorica, non rappresenta una reale minaccia per gli USA o i suoi alleati in Asia e la corsa al nucleare è di natura principalmente difensiva, vista anche la sorte dei leader di paesi finiti nel passato più o meno recente sulla lista dei nemici americani, da Saddam Hussein a Gheddafi.

Nelle analisi della crisi nordcoreana non viene infine mai spiegata la ragione per cui il regime che governa un paese impoverito e isolato dovrebbe colpire la prima potenza militare del pianeta o uno dei suoi alleati, se non in risposta a un’aggressione reale o percepita, visto che un’azione di questo genere innescherebbe un’immediata ritorsione dagli effetti letteralmente devastanti.

A riprova che le minacce americane non fanno che irrigidire la posizione del regime di Kim Jong-un, ad ogni modo, nel corso di un’insolita intervista alla CNN rilasciata a Pyongyang un esponente del governo nordcoreano ha avvertito questa settimana che l’ipotesi, avanzata durante l’assemblea generale dell’ONU a settembre dal ministro degli Esteri Ri Yong Ho, di testare una bomba all’idrogeno nel Pacifico è da prendere sul serio. La dichiarazione del numero uno della diplomazia del regime era arrivata dopo il discorso di Trump di fronte all’assemblea generale nel quale aveva minacciato di distruggere la Corea del Nord.

Nell’intervista alla CNN è stata anche smentita l’esistenza di canali diplomatici sotterranei tra Washington e Pyongyang, come aveva invece sostenuto recentemente il segretario di Stato americano, Rex Tillerson. Il capo della diplomazia USA era stato in quell’occasione ripreso ufficialmente da Trump, il quale in un “tweet” lo aveva invitato a non sprecare tempo con un negoziato che, a suo dire, non avrebbe portato a nessun risultato.

La parte più interessante dell’intervista al network americano dell’esponente del regime nordcoreano, Ri Yong Pil, ha riguardato le implicazioni dell’atteggiamento iper-aggressivo degli Stati Uniti e l’illusione che le continue pressioni possano alla fine portare la Corea del Nord al tavolo delle trattative.

Ri ha spiegato che “gli USA parlano di opzioni militari, mettono in atto esercitazioni” e “ci fanno pressioni su tutti i fronti”, applicando tra l’altro sanzioni punitive sempre più pesanti. Se, però, gli americani pensano che tutto ciò possa “condurre a un negoziato”, ha ammonito Ri, “si sbagliano di grosso”.

L’amministrazione Trump non ha in realtà alcun interesse nel cercare una soluzione diplomatica a una crisi per il cui precipitare si è essa stessa adoperata e continua ad adoperarsi. L’unico sbocco pacifico della vicenda nordcoreana sarebbe, per il governo USA, la resa preventiva e totale di Pyongyang alle condizioni imposte da Washington sotto la minaccia della guerra.

Fin dall’ingresso alla Casa Bianca, Trump ha cercato di mettere con le spalle al muro il regime di Kim, promuovendo un’escalation militare e di minacce che ha spinto la Corea del Nord a perseguire con ancora maggiore determinazione l’obiettivo di dotarsi di armi nucleari a scopo difensivo.

Ciò ha inevitabilmente aggravato la situazione nella penisola di Corea fino a portare il pianeta sull’orlo di un conflitto nel quale potrebbero essere trascinate le principali potenze nucleari, a cominciare dalla Cina. Il rischio di guerra è evidentemente alimentato dalla sensazione del regime – del tutto reale e giustificata, visto il dispiegamento di forze ai propri confini e le ripetute provocazioni – di essere sul punto di subire un attacco preventivo da parte americana.

La pericolosità della situazione è direttamente connessa anche ad almeno altri due fattori. Il primo è la crisi politica interna che sta attraversando l’amministrazione Trump, così che per allentare le pressioni su di sé il presidente potrebbe promuovere una nuova aggressione militare, anche se in questo caso dalle conseguenze enormemente più gravi rispetto alle precedenti.

L’altro fattore ha a che fare invece con il reale obiettivo della campagna anti-coreana di Washington, ovvero la Cina. L’inarrestabile espansione dell’influenza e del peso economico cinese viene vista sempre più con orrore dagli ambienti di potere negli USA e, come hanno avvertito molte analisi più o meno recenti di “think tank” americani, ogni anno che passa uno scontro diretto con Pechino diventa sempre meno evitabile anche se più difficile da vincere.

Soprattutto sui siti di informazione alternativa, proprio in questi giorni è circolata con insistenza la notizia dell’intenzione del governo cinese di utilizzare a breve la propria moneta al posto del dollaro nelle transazioni petrolifere. Ciò potrebbe avvenire anche negli scambi con l’Arabia Saudita, vero e proprio fulcro del sistema basato sui “petrodollari” che dal secondo dopoguerra garantisce di fatto l’egemonia statunitense nel pianeta.

Se questa evoluzione non fa che riflettere i cambiamenti negli equilibri internazionali avvenuti negli ultimi decenni, è estremamente improbabile che gli USA decidano di accettarli in maniera pacifica senza lanciarsi in un conflitto militare per ostacolare il riallineamento strategico globale in atto.

La sola ipotesi di una guerra contro la Corea del Nord continua comunque a incontrare l’ostilità non solo della grande maggioranza dell’opinione pubblica internazionale ma anche di ampie fasce della classe dirigente americana ed europea, nonché degli alleati degli USA in Asia.

Il governo sudcoreano, ad esempio, essendo in prima linea nel caso di una devastante ritorsione del vicino settentrionale a un attacco americano, mostra frequenti segnali di inquietudine nonostante una posizione ufficiale di perfetto allineamento con l’amministrazione Trump.

Un segnale del comprensibile disagio di Seoul lo ha riportato il quotidiano Korea Times, secondo il quale i ministri della Difesa di Corea del Sud e Cina hanno discusso in un recente summit regionale nelle Filippine della situazione nella penisola. L’incontro sarebbe anche servito ad aprire la strada a un possibile vertice tra il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, e quello cinese, Xi Jinping.

Malgrado le resistenze, il calcolo dell’amministrazione Trump potrebbe però essere quello di forzare il superamento di divisioni e dissensi con un’operazione militare preventiva che costringerebbe i nemici interni e i paesi alleati a prendere posizione a fianco di Washington.

Gli eventi delle ultime settimane sembrano dunque avvicinare sempre più il momento della resa dei conti nella penisola di Corea e, salvo iniziative a breve scadenza tutt’altro che da escludere, l’imminente visita di Trump in Asia servirà forse a misurare lo spazio eventualmente ancora esistente tra una difficilissima pace e una guerra dalle conseguenze incalcolabili.

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