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sinistra

La rotta di Caporetto vista da un ‘nemico’ tedesco: Erwin Rommel

di Eros Barone

La mattina del 24 ottobre 1917 ebbe inizio, dopo un imponente fuoco di artiglieria durato alcune ore, l’offensiva su Tolmino, Plezzo e Caporetto (tutte località che si trovano oggi nella repubblica slovena). In quella occasione venne impiegato un gas asfissiante denominato “Croce Azzurra”, sconosciuto all’esercito italiano e contro il quale le maschere antigas in dotazione si rivelarono del tutto inefficaci. Gli effetti furono micidiali e oltre seicento furono i soldati e gli ufficiali che, là dove poté essere diffuso, passarono di colpo dalla vita alla morte (la rapidità dell’attacco fu tale che molti cadaveri furono ritrovati con le maschere non ancora indossate). Migliaia di altri militari italiani si salvarono perché altrove, a causa della nebbia che era molto fitta, gli austro-tedeschi furono costretti a rinunziare ai gas asfissianti. Tuttavia, quel muro di nebbia stagnante permise alle forze nemiche di avanzare fino a mescolarsi addirittura con le nostre truppe e a provocare uno dei più improvvisi e vasti disfacimenti di eserciti che la storia ricordi.

Il bilancio dello sfondamento del fronte italiano fu di 10.000 morti, 30.000 feriti e 300.000 prigionieri. Il 29 ottobre 1917 apparve il bollettino che il generale Luigi Cadorna, capo di Stato maggiore delle forze armate italiane, aveva stilato il giorno precedente. Esso si apriva con questa affermazione:

«La mancata resistenza di riparti della IIª Armata vilmente ritiratisi senza combattere, o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia». Lo sconcerto dell’opinione pubblica nazionale e internazionale, quando fu letta la prima versione del bollettino, indusse il governo Orlando a ritirare le copie dei giornali in cui era stato pubblicato e ad emettere un secondo bollettino, che suonava così: « La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di alcuni riparti della IIª Armata hanno permesso ecc. ecc.». Sennonché a chiunque valuti le cifre della disfatta non può sfuggire l’evidenza aritmetica della sproporzione tra il numero dei morti e dei feriti, da un lato, e il numero dei prigionieri, dall’altro. Che cosa era successo a Caporetto? La domanda è questa, ed è quindi assurdo vedere Caporetto come l’episodio di una grave crisi militare: esso fu molto di più, fu la manifestazione di una crisi politica e sociale di vaste proporzioni che era maturata nel seno stesso della guerra e che riesploderà puntualmente nel dopoguerra, coinvolgendo tutta la nazione.

Ritengo, a questo proposito, che meriti attenzione la testimonianza fornita da un ‘nemico’ che, come giovane ufficiale dell’esercito imperiale tedesco, partecipò alla prima guerra mondiale su vari fronti, tra cui quello italiano. Si tratta di un personaggio destinato a incidere il suo nome nelle pagine della storia militare della seconda guerra mondiale con l’epiteto di “volpe del deserto”. Erwin Rommel ha descritto nel suo libro intitolato “Fanterie all’attacco” (Longanesi, Milano 1972, p. 303) l’impiego della duplice tattica tedesca dell’‘infiltrazione’ e della ‘penetrazione a fondo valle’, che ribaltò radicalmente la tattica statica della conquista delle cime più alte, fino ad allora seguita in quel fronte lungo più di seicento chilometri: «Dal nemico ci separano ormai solo centocinquanta metri [siamo nella conca di Tolmino]! Poi, improvvisamente, la massa lassù comincia a muoversi [si tratta dei soldati italiani]. I soldati si precipitano verso di me sul pendìo trascinando con loro gli ufficiali che vorrebbero opporsi. I soldati gettano quasi tutti le armi. Centinaia di essi mi corrono incontro. In un baleno sono circondato e issato sulle spalle italiane. «Viva la Germania!» gridano mille bocche. Un ufficiale italiano che esita ad arrendersi viene ucciso a fucilate dalla propria truppa. Per gli italiani la guerra è finita. Essi gridano di gioia». Le acute considerazioni che Rommel ricava da quel passo del suo diario di guerra confermano pienamente la natura non solo militare, ma anche, e soprattutto, sociale della disfatta di Caporetto: «I comandanti italiani mancarono di fermezza. Non erano abituati alla nostra tattica offensiva molto agile e per di più non avevano in mano i loro soldati. A questo bisogna aggiungere che la guerra contro i tedeschi non era popolare. Molti soldati italiani si erano guadagnati prima della guerra il loro pane in Germania e là avevano trovato una seconda patria. L’atteggiamento del soldato semplice nei confronti della Gerrmania si espresse chiaramente con il grido di “Viva la Germania!”» (Idem, p. 309).

La rotta di Caporetto è stata pertanto uno spartiacque sociale, politico e ideologico di grande importanza nella storia, poiché rappresentò il corrispettivo italiano delle fratture e delle rotture che la prima guerra mondiale provocò nell’Europa e nel mondo: dalla rivoluzione russa scoppiata proprio nei giorni di Caporetto, che darà vita ad uno Stato socialista in un sesto del mondo, all’ingresso degli Stati Uniti in quel conflitto, che segnò l’inizio dell’ascesa di questo paese al ruolo di potenza egemonica. Per la borghesia italiana, che nel maggio 1915 aveva imposto con un colpo di Stato la scelta interventista ad un popolo in maggioranza favorevole alla pace, fu il segnale di una ‘riscossa’ che avrebbe puntato, con la resistenza sul Piave e con la vittoria dell’anno successivo, all’unificazione ideologica e politica di tale classe esclusivamente in funzione antisocialista. Fra i pochi scrittori italiani che capirono l’importanza decisiva di Caporetto come spartiacque storico vi fu il giovane Curzio Malaparte, che di quella disfatta détte, in significativa assonanza con l’esperienza vissuta da Rommel sul fronte italiano, una lettura sociale in chiave ‘leninista’ nel saggio intitolato “Viva Caporetto!”. Il libro vide la luce nel 1921 e fu subito proibito dalla censura. Nuovamente pubblicato nel 1923 come “Rivolta dei santi maledetti” fu nuovamente proibito. Il nome di Caporetto, passato in proverbio come sinonimo di disfatta e di ammutinamento militare, era ormai divenuto impronunciabile.

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