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La crisi del Mezzogiorno, un tema attuale per la sinistra

di Luigi Pandolfi

L'ultimo Rapporto della Svimez, le cui anticipazioni sono state presentate lo scorso luglio, offre un quadro meno catastrofico sulle prospettive economiche del Mezzogiorno. I ritardi e i problemi rimangono, ma qualche spiraglio di luce incomincia a intravedersi, sembra voler suggerire il documento. Tutto a posto, allora? Neanche per sogno.

A dieci anni dagli eventi americani che hanno innescato la più grave crisi economica mondiale dopo quella del 29', anche il Sud "aggancia" la ripresa, facendo registrare nel 2016 una crescita addirittura maggiore rispetto al resto del paese (Campania sul podio con un +2,2%). Dietro questa performance c'è una leggera crescita dei consumi e degli investimenti, ma soprattutto la ripartenza dell'export. Il segnale, tuttavia, è stato molto più vistoso che altrove perché negli anni che vanno dal 2008 al 2014 la caduta della domanda interna, sia pubblica che privata, e dei livelli occupazionali, al Sud era stata più marcata, più rovinosa.

Parlare di "consolidamento" della ripresa sarebbe pertanto azzardato: le previsioni per l'anno in corso parlano già di rallentamento della stessa e questo farà sì, come la stessa Svimez riconosce, che il Mezzogiorno (forse) recupererà i livelli pre-crisi soltanto nel 2028, dieci anni dopo il Centro-nord. Livelli pre-crisi, beninteso, quelli che facevano del Sud, comunque, un'area economica periferica e a ritardo di sviluppo.

Valgano a tal riguardo i dati, molto indicativi, che afferiscono al mercato del lavoro. Il tasso di occupazione (numero di occupati in rapporto alla popolazione) in Italia si attesta al 58,1% (undici punti in meno rispetto alla media europea), nel Mezzogiorno al 46% (dodici punti in meno rispetto alla media italiana). Intanto, l'emorragia di giovani – per studio e lavoro - continua, interi territori e borghi interni rischiano spopolamento ed estinzione, bassa rimane la qualità dei servizi pubblici essenziali e delle infrastrutture di base. Niente di nuovo, potremmo dire, ricordando che il divario nord-sud non è un prodotto dell'ultima crisi.

Imputabili alla crisi, e alla sua gestione (austerità, nuove norme sul lavoro, riduzione di tutele e diritti), sono invece i mutamenti intervenuti nella struttura e nella qualità dell'occupazione. Si è accentuato il divario generazionale e, soprattutto, è cresciuto il lavoro precario. In percentuale, dall'inizio della crisi, la contrazione del tempo pieno e del tempo indeterminato è stata più marcata al Sud che nel Centro-nord. Più contratti part-time, più lavoro a chiamata, più sfruttamento, meno reddito. È anche per questo che la piccola ripresa, e lo stesso miglioramento del dato occupazionale, non hanno inciso significativamente su alcune emergenze sociali, a cominciare dalla povertà. Anzi: ancora nel 2016, circa il 10% dei meridionali era in condizione di povertà assoluta, contro il 6% dei cittadini del Centro-Nord (nel 2007 erano rispettivamente il 5 e il 2,4%). Percentuale che schizza al 46% se si considerano tutti quelli che rischiano di scivolare nella povertà assoluta.

Aumenta complessivamente la ricchezza (crescita del Pil), insomma, e al tempo stesso la povertà e l'esclusione sociale. Sono i segni di un modello di sviluppo strutturalmente imperniato sulle disuguaglianze: bassi salari e precarietà da un lato, competitività e massimizzazione del profitto dall'altro. Il contributo del Sud alla bilancia commerciale italiana è stato importante nell'ultimo periodo, per intenderci, ma i meridionali non ne hanno beneficiato. In verità, anche per i cittadini del Nord il dividendo è stato magro, ma al Sud questo ha significato accumulare altro ritardo.

Un modello insostenibile, per il paese e per il Mezzogiorno.

Si può parlare ancora di "questione meridionale"? Non nei termini in cui se n'è parlato in passato (la crisi ha modificato anche il paesaggio sociale e, in parte, l'economia del Nord), ma, in linea generale, certamente sì. Intanto, perché la forbice tra Nord e Sud non si è ridotta, ma, addirittura, si è allargata in questi anni, complice anche la crisi. Dagli indici di povertà e di esclusione sociale, dai livelli occupazionali e di reddito pro-capite, fino alla qualità dei servizi (sanità, scuola, trasporti), in tutti i rapporti più recenti continuano a emergere (almeno) due tipi di Italia. Poi, perché quella del Sud continua ad essere una gigantesca questione nazionale: fino a quando non ci sarà un sostanziale, apprezzabile, riequilibro tra Nord e Sud in termini economici, a risentirne sarà l'economia nazionale nel suo complesso.

Ma che fare?

Negli ultimi anni, gran parte del mondo accademico e della politica, economisti, storici, giornalisti, si sono detti d'accordo sull'improponibilità di una strategia improntata allo spirito del vecchio "intervento straordinario". Eppure, la straordinarietà della situazione del Mezzogiorno, richiederebbe, ancora, interventi mirati e aggiuntivi rispetto a quelli ordinari. Di più. Nonostante il fallimento (il divario non è stato colmato), almeno su grande scala, delle strategie e degli interventi posti in essere fino agli inizi degli anni Novanta, alcune intuizioni contenute nell'ultima legislazione in materia andrebbero addirittura riprese e rilanciate. Tra queste, il concetto di "programmazione partecipata", richiamato nella legge n. 64 del 1986, per una nuova politica industriale e di coesione. Un nuovo protagonismo dello Stato e dei territori, dei cittadini. Anche perché l'alternativa allo sviluppo calato dall'alto non può essere l'abbandono a se stessa della parte più debole del paese, spacciando tutto questo per "sviluppo autocentrato" (viene in mente la retorica speciosa sugli "imprenditori di se stessi").

Programmazione e partecipazione degli attori locali ai processi decisionali, dunque. A maggior ragione oggi, questa sembra l'unica via perseguibile per invertire la rotta nel Mezzogiorno e far tesoro delle esperienze positive che si riscontrano nei vari territori. Cambiando radicalmente l'agenda degli ultimi trent'anni (privatizzazioni), il Mezzogiorno dovrebbe diventare il laboratorio di un nuovo intervento pubblico in economia, che non escluderebbe, insieme al sostegno verso iniziative autonome, la creazione d'industrie statali in settori innovativi e ad alto valore aggiunto (es: robotica, software, componentistica), capaci di reggere la concorrenza internazionale. Un piano industriale, senza giri di parole.

Parallelamente, coinvolgendo gli attori locali, si dovrebbe puntare sulle filiere produttive legate alla natura, al paesaggio, all'ambiente e alla cultura, incrociando, valorizzando, potenziando le esperienze già attive e di successo sviluppatesi in questi ambiti. Rigenerazione urbana, recupero del degrado ambientale e del dissesto idrogeologico, agricoltura di qualità, turismo sostenibile, accoglienza, solo per citarne qualcuna, coniugando sostenibilità ambientale delle attività poste in essere e sostenibilità economica dei percorsi d'intrapresa, grazie alla mano pubblica. Inutile ricordare, poi, che il sostegno alla domanda interna e la creazione di nuova occupazione nel Mezzogiorno avrebbero effetti positivi sull'intera economia nazionale, rendendo stabile e duratura la ripresa, trainando, ben oltre l'export, l'industria del Nord, imperniata sul capitale privato. Un tema da sviluppare.

Si potrebbe obiettare: ma questo è incompatibile con i vincoli di finanza pubblica imposti dall'Europa e, probabilmente, anche con le regole a tutela della concorrenza nel mercato unico! Sì, ma proprio qui sta la sfida. È ormai evidente che la disciplina del Patto di bilancio europeo e l'intera architettura pro-mercato dell'Unione sono in contrasto con la nostra Costituzione, che invece subordina l'iniziativa privata al principio della "utilità sociale" e impegna lo Stato a perseguire l'obiettivo dell'uguaglianza sostanziale dei cittadini. Applicare la Costituzione significa mettere in mora i Trattati. O viceversa. E questo vale anche per la "questione Sud".

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