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resistenze1

Cambiamenti all'interno della struttura dell'imperialismo

Prabhat Patnaik*

Per lungo tempo si sono potute distinguere le valute del mondo in tre distinte categorie: (i) la moneta leader, tipicamente appartenente alla potenza imperialista principale, oggi gli Stati Uniti, considerata "buona come l'oro" dai possessori dei patrimoni mondiali; (ii) le altre valute della metropoli imperialista in base alle quali i possessori di patrimoni mondiali detenevano parte della loro ricchezza, ma che, proprio per non essere considerate "buone come l'oro", dovevano mantenere un certo valore stabile nei confronti della moneta principale attraverso il perseguimento di appropriate politiche macroeconomiche, comprese le politiche di contrattazione nei rispettivi paesi; e (iii) le valute del terzo mondo che, a prescindere dalle politiche macroeconomiche perseguite, erano destinate generalmente al deprezzamento nel tempo del loro valore relativo nei confronti dei suddetti due gruppi di valute, sia in termini nominali che in termini reali (anche quando fossero presi in considerazione i tassi differenziali di inflazione tra questi paesi e le economie metropolitane); per cui i possessori di patrimoni evitavano di detenere una parte della loro ricchezza in quelle valute e se i ricchi locali dei paesi in parola, lo hanno fatto, ciò è dovuto a inerzia o coercizione (ossia l'esistenza di un sistema di controlli che ponevano restrizioni allo spostamento della ricchezza all'estero).

Queste valute, pertanto, tendevano a svalutarsi nel tempo rispetto alla moneta primaria, cosa che a sua volta giustificava l'aspettativa che si sarebbero deprezzate sempre e perciò introducendo una tendenza a una spirale viziosa verso il basso nei relativi valori. L'economia capitalistica mondiale ha così operato in modo che la tendenza tra i possessori di patrimoni, compresi quelli del terzo mondo, era di trasferire la ricchezza in valute metropolitane e potendo anche dislocandoli in aree metropolitane, a meno che non fosse impedito (è questo il motivo per cui i controlli di scambio sono stati considerati essenziali per le economie del terzo mondo).

Per illustrare il punto, il valore della rupia poco prima della svalutazione del 1966 in India era di 5 Rs a dollaro statunitense e con quella particolare svalutazione divenne circa 7,5. Poiché l'India ha perseguito una politica di cambio fisso con solo svalutazioni occasionali, questo valore aveva raggiunto appena le 13 rupie alla vigilia della liberalizzazione economica quando venne svalutata a 20, prima di lasciarla fluttuare; ora è intorno ai 65 Rs per un dollaro. Nessun cambio di valuta in alcun paese avanzato contro il dollaro oggi si colloca a tredici volte quello di mezzo secolo fa, il che sottolinea la differenza tra le situazioni valutarie del terzo mondo rispetto al primo.

Un'implicazione di questa tendenza verso il deprezzamento persistente delle valute del terzo mondo era che il costo di quella manodopera era continuamente deprezzato rispetto alle prime economie mondiali. Quindi, ironicamente, lo spostamento della ricchezza dal terzo mondo ricco verso paesi "più sicuri" dei centri metropolitani ha avuto l'effetto di ridurre il valore del proprio lavoro nei confronti di quello delle metropoli, il che significa il peggioramento cronico dei prezzi relativi dei loro prodotti. Questa è una delle ragioni per cui anche al giorno d'oggi molti governi del terzo mondo, compresa l'India, hanno almeno alcune restrizioni al trasferimento della ricchezza locale: per esempio, la rupia non è ancora una valuta completamente convertibile.

L'intero quadro tuttavia sta cambiando. In conseguenza della lunga crisi economica mondiale i tassi di interesse nei paesi capitalisti avanzati sono stati spinti verso livelli prossimi allo zero in un'ottica di rilancio di tali economie; e questo ha significato un flusso di capitali da quelle economie verso alcune economie del terzo mondo, compresa l'India, dove i tassi di interesse sono molto più alti. Tale flusso ha assunto la forma di azioni e prestiti. Alcuni di questi prestiti dai paesi del terzo mondo sono stati contratti in valuta estera e alcuni in valuta locale, destinati in parte ai governi e in parte ad alcune aziende pubbliche e private. L'effetto di tutto ciò è che i possessori delle ricchezze nella metropoli imperialista, a differenza del passato, hanno iniziato ad assumere valute e patrimoni stimati nelle divise del terzo mondo.

Questo costituisce un importante cambiamento strutturale nell'ambito dell'imperialismo perché implica che i possessori di patrimoni metropolitani non possono ora essere indifferenti al deprezzamento delle monete del terzo mondo. Non sono solo i ricchi locali che perdono ricchezza in termine di controvalore in dollari dei loro patrimoni quando la valuta locale si deprezza, ma anche i ricchi metropolitani. E poiché anche quando una valuta, come la rupia, non è completamente convertibile, i possessori di patrimoni metropolitani possono comunque in regime neoliberale prelevare i loro fondi quando lo desiderino, ogni deprezzamento della moneta locale genera un esodo di capitale e una serie di insolvenze interne (poiché diverse aziende locali hanno contratto prestiti in valuta estera per finanziare assets locali).

Ciò implica fondamentalmente che i governi locali cerchino di prevenire il deprezzamento dei tassi di cambio. Le valute di questi paesi del terzo mondo, di cui l'India è un esempio prominente, come le valute delle economie metropolitane non leader, come l'eurozona e il Giappone, devono essere mantenute ad un valore relativamente stabile rispetto al dollaro USA. Il fatto che durante quasi tutto l'ultimo decennio la rupia non si sia deprezzata rispetto al dollaro USA, a differenza del passato, è indicativo di questa modifica di scenario.

Questa modifica ha due importanti implicazioni, una ovvia e una meno evidente. L'ovvia implicazione è che, dal momento che il consueto strumento utilizzato dai governi quando l'economia si trova ad affrontare un problema di bilancia dei pagamenti, vale a dire la svalutazione del tasso di cambio, viene tolto dalle loro mani, ora devono contare di più su altri strumenti, come la compressione della domanda interna e la deflazione salariale (cioè un taglio dei salari monetari) per ottenere lo stesso risultato. Ma, anche se sia il deprezzamento dei tassi di cambio che la deflazione salariale hanno l'effetto di spremere i lavoratori, le manovre del primo tipo agiscono indirettamente mentre le seconde agiscono direttamente.

Ciò implica diverse cose (consentitemi per semplicità di ignorare qui qualsiasi considerazione sulla compressione generale della domanda con altri mezzi): (i) una svalutazione del tasso di cambio del 10% non significa necessariamente un calo del salario reale del 10 per cento entro un determinato periodo di tempo, mentre una deflazione salariale del 10% si; (ii) per questo motivo, una svalutazione del tasso di cambio del 10% suscita meno resistenza immediata dei lavoratori rispetto a una deflazione salariale del 10%; per questo l'imposizione di una deflazione salariale è sempre accompagnata da un attacco ai sindacati per rompere questa resistenza.

Si può citare qui un famoso antecedente storico. Durante la Prima Guerra mondiale, la Gran Bretagna era uscita dal Gold Standard, ma vi rientrò nel 1925, ai livelli pre-guerra, sotto la pressione dei potenti interessi finanziari britannici che volevano quella parità tra sterlina e oro. Ma i possedimenti coloniali a disposizione della Gran Bretagna negli anni precedenti alla Prima Guerra mondiale non erano gli stessi del dopoguerra (per esempio, il Giappone stava penetrando notevolmente sul mercato indiano britannico), cosicché la sterlina risultava sopravalutata rispetto la parità pre-conflitto e la Gran Bretagna dovette affrontare problemi di bilancia dei pagamenti. Come risultato, la Gran Bretagna cercò di imporre una deflazione salariale sui suoi lavoratori con l'obiettivo di rendere le proprie merci più economiche all'estero e riducono anche l'assorbimento interno, migliorando così il saldo dei pagamenti. Ciò tuttavia diede origine al famoso General Strike in Gran Bretagna del 1926, a pochi mesi dal ritorno al Gold Standard. Quindi, sebbene sia la svalutazione del tasso di cambio che la deflazione salariale abbiano l'effetto di spremere i lavoratori, quest'ultima è una misura diretta che ha un carattere politico diretto.

L'implicazione meno evidente del fatto che i possessori di patrimoni metropolitani posseggano ora ricchezze nelle valute del terzo mondo, che escludono svalutazioni dei tassi di cambio, è che le decisioni dei possessori di patrimoni metropolitani abbiano un effetto diretto sui diritti sindacali del terzo mondo e quindi sulla democrazia del terzo mondo. Se i possessori di patrimoni metropolitani iniziano a trasferire la loro ricchezza fuori da un paese, allora il paese in questione deve imporre una deflazione salariale attaccando i sindacati (oltre a cercare di attrarre i capitali metropolitani per farli restare e offrire gli assets nazionali per il solito ritornello, la "denazionalizzazione" delle attività nazionali). Inoltre, se gli Stati Uniti decidono un aumento del loro tasso di interesse, anche questo minaccia una deflazione salariale in un paese come l'India per scongiurare la fuga di capitali, accompagnando necessariamente tale misura a un attacco ai sindacati, ai diritti democratici dei lavoratori e sulle istituzioni democratiche in generale (oltre alla già menzionata "denazionalizzazione").

Questa nuova situazione si differenzia da quella precedente in due modi importanti: in primo luogo, in assenza di un'importante patrimonio metropolitano in valuta locale, cioè quando solo i possessori di patrimoni del terzo mondo detenevano la ricchezza nella divisa locale, essi erano in qualche misura assoggettati al controllo da parte dello Stato; ma lo Stato del terzo mondo in un regime neoliberale ha poco controllo, anche in assenza di convertibilità di valute, sui possessori di ricchezza metropolitani. In secondo luogo, lo strumento della svalutazione del tasso di cambio utilizzato in precedenza, che ovviava fino a un certo grado l'attacco diretto sui lavoratori, sui sindacati e sui diritti politici dei lavoratori, ora non è più praticabile.

In breve, nei paesi come l'India i cambiamenti che si verificano all'interno della struttura dell'imperialismo servono a rafforzare l'autoritarismo già evidente. La domanda di introduzione di "flessibilità nel mercato del lavoro", un eufemismo per un attacco ai sindacati, è sicuramente in grado di raccogliere lo slancio nei prossimi giorni del governo Hindutva, che data la sua sanguinosa attitudine e la sua totale mancanza di comprensione delle insidie del neoliberismo sarà certamente strumento volontario per soddisfare questa richiesta.


* peoplesdemocracy.in
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

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