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manifesto

Togliatti sta a Renzi come la cultura politica al marketing

di Paolo Favilli

L’intervista rilasciata sabato scorso da Emauele Macaluso a questo giornale merita una riflessione attenta. Non solo per la grande storia di cui Macaluso è stato protagonista, onorevolmente protagonista, ma proprio perché il problema della forza dei numeri ch’egli pone è ben reale e va presa in seria considerazione anche se non si è d’accordo con le sue proposte e con la sua analisi del momento attuale.

Le riflessioni da cui muove Macaluso derivano da una parte da uno dei modi di concepire la politica di derivazione togliattiana che ha profondamente innervato tutta la vicenda storica del Pci, dall’altra da una seria preoccupazione per la rinascita impetuosa della destra italiana ed europea.

Penso di poter comprendere appieno un modo di intendere la politica che, nonostante la differenza di generazioni, è stato anche il mio. Un modo centrato sempre sulle necessità di incidere sugli equilibri politici esistenti, di stare sempre dentro, ad ogni costo, nella logica degli equilibri dati per modificarli. Un modo che rifugge da ogni comportamento da «anime belle», che avversa le piccole forze, «politicamente marginali», come si dice nell’intervista.

Un modo che è stato il pendant politico dell’«aderire ad ogni piega della società civile», uno dei capolavori strategici di Palmiro Togliatti.

La realtà con cui oggi dobbiamo confrontarci rende pressoché impossibile una tipologia politica che per una lunga fase della storia repubblicana ha dato positivi risultati. I numeri, la forza, stanno per ora, dalla parte del Pd, cioè dalla parte, sono parole di Macaluso, di «un agglomerato elettorale senza più cultura politica», che «si muove solo per restare al potere»; «un assemblaggio di potere che di sinistra non ha più niente».

Parole pesanti se si pensa che vengono da una personalità che non ha mai avuto alcuna simpatia per il radicalismo di sinistra, da una personalità chiave del «migliorismo» interno al Pci.

Parole che condivido completamente, ma credo che sul problema della «cultura politica» del Pd sia necessario un ulteriore ragionamento.

Non c’è dubbio infatti che la struttura dei dirigenti-cacicchi di ogni livello si muova soltanto sulla base di logiche di potere, di interesse personale (nessuna differenza, del resto, rispetto alla grande maggioranza del ceto politico degli altri partiti). Può farlo con disinvoltura perché ha interiorizzato a fondo, e quindi non è più nemmeno in grado di percepirla come tale, proprio la «cultura politica» più adatta a quel tipo di comportamento politico: la dimensione totalizzante del neoliberismo.

Il neo-liberismo, infatti, non è una nuova riedizione del laissez-faire, del liberismo classico, anch’esso peraltro garantito in equilibrio con la sfera protezionista dalle politiche statuali. Il neoliberismo è un sistema normativo mondiale ed europeo che ormai determina comportamenti politici, economici e sociali, per certi aspetti è anche un’antropologia. Un dispositivo di regole che determina, o intende comunque determinare, qualsiasi «valore» in termini di valore di mercato. E la politica, le istituzioni politiche, sono state i soggetti fondamentali del complesso normativo.

Un edificio la cui costruzione è iniziata negli anni Ottanta del Novecento e che si è solidificato, ben prima di Renzi, in un reticolo di norme cui hanno contribuito fattivamente anche i governi ai quali hanno partecipato in posizione dominante tutte le «cose» prima del Pd.

Si tratta dunque di una «cultura politica» ormai compattata e coerente. Su queste dure fondamenta sono possibili giochi di potere senza mettere in pericolo la stabilità strutturale della rete normativa.

In tale contesto cosa c’è di più inutile, di più «marginale» davvero, che adoperarsi a sollecitare la formazione di un forza politica atta ad evidenziare «le divergenze tra Renzi e Gentiloni» per «aprire una battaglia politica interna al Pd», in vista di un’ «alleanza che si può ancora fare».?

Le «culture politiche» sono una cosa seria, e a noi è necessaria una «cultura politica» antitetica rispetto a quella dominante, quella sulla cui solida base possono esercitarsi senza paura i «ballerini» (Kundera) della politica.

Nella nostra tradizione ci sono materiali teorici di prim’ordine per la costruzione/ricostruzione. Certo vanno tradotti in politica, in numeri e questo è il realismo di Macaluso che dobbiamo tenere presente.

Un’operazione non facile né di breve durata, ma non esistono scorciatoie. Soprattutto non esiste la riproposizione di un’ennesima operazione di mutamento di scena della stessa piéce teatrale.

Se vogliamo cambiare veramente stagione, non possiamo farlo rimaneggiando lo stesso copione ed utilizzando gli stessi attori.

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