Di Maio icona pop? Riflessioni sul rapporto tra popolo ed élite
di Carlo Formenti
Prendendo spunto dall’ultima gaffe televisiva di Luigi Di Maio - nella trasmissione di Fabio Fazio ha parlato dei suoi incontri all’estero con i propri <<alter ego>> -, Goffredo Buccini (Di Maio re delle gaffe? Lo avvicinano alla gente, <<Corriere della Sera>> del 14 novembre) svolge una riflessione sul modo in cui funzionano le relazioni fra plebe ed élite. Dopo avere stilato un impietoso elenco delle performance del nostro: congiuntivi massacrati, inglese approssimativo, Pinochet che diventa venezuelano, il sociologo Luciano Gallino trasformato nello psicologo Gallini, ecc., lo <<riabilita>> rivolgendosi così agli esponenti di quella sinistra che lo sfotte: voi, con tutta la vostra cultura, siete incapaci di comunicare con la gente, mentre Di Maio, se capirà che non deve rimpannucciarsi ma sfruttare la propria vocazione di Mike Buongiorno della politica, non avrà problemi a bagnarvi il naso, convertendosi in una icona pop perché il popolo potrà rispecchiarsi in lui (come si è rispecchiato, aggiungerei, nelle barzellette di Berlusconi e nei cachinni politicamente scorretti di Grillo).
Giusto, ma è solo una parte della verità. Buccini si limita a fotografare la superficie dell’esistente, vale a dire su un sistema politico ridotto a mero esercizio comunicativo.
Proverei invece ad analizzare come siamo arrivati a questa situazione a partire da due considerazioni: 1) l’ignoranza del Di Maio è un tratto che non lo accomuna alla <<vera>> plebe – che in questo senso è messa peggio di lui – bensì a quella <<neoborghesia>> (categoria su cui ragionano, fra gli altri, sociologi come Aldo Bonomi e Giuseppe De Rita) che, anche quando ha fatto il classico (come ricorda Buccini a proposito del nostro) è spesso affetta da analfabetismo di ritorno (ho insegnato ai primi anni di università e so di cosa parlo); 2) gli esponenti della sinistra <<colta>> hanno poco da sfottere: i vecchi comunisti come mio padre (artigiano e figlio di contadini) ne sapevano dieci volte più di loro di storia, economia e politica, anche se erano autodidatti (ci pensava il partito ad educarli).
Cause di questa diffusa mediocrità intellettuale sono la crisi della scuola e dell’università e lo smantellamento di partiti e corpi sociali intermedi: a subire gli effetti del primo fenomeno sono le classi medie, mentre le vittime del secondo sono le classi subalterne. Se a questo aggiungiamo il <<tradimento>> delle plebi da parte di una sinistra <<progressista>>, ma di fatto liberal liberista, che si impegna solo sul terreno dei diritti individuali e civili e difende esclusivamente gli interessi e i valori di <<classi creative>>, nuove professioni, minoranze culturali e sessuali, ecc. si capisce perché il vuoto politico spalancato dalla crisi di consenso nei confronti delle vecchie élite venga riempito dai populismi di destra e di sinistra.
E’ vero che in questo processo contano anche linguaggi e stili di comunicazione; attenzione però: non basta essere sgrammaticati e ignoranti per ottenere un consenso di massa (e soprattutto per conservarlo). A egemonizzare i populismi di sinistra sono veri figli del popolo (come il cocalero Evo Morales o il soldato Chavez) o leader che hanno ereditato il <<saper fare>> delle vecchie sinistre di classe (come Pablo Iglesias e Jean-Luc Mélenchon). A guidare quelli di destra sono leader carismatici che incarnano la figura del self made man (come Berlusconi e Trump) adorati dal piccolo borghese che sogna di salire la scala sociale. Progetti di emancipazione collettiva o progetti di successo individuale, gli uni e gli altri comunicati con linguaggi semplici, diretti e semplificati.
Rispetto a questi modelli Di Maio non è né carne né pesce e, pur se è possibile che nel vuoto pneumatico della politica italiana riesca a catturare un significativo consenso elettorale, è certo che gli mancano i numeri per conservarlo (per ottenere questo risultato non basta sparare cazzate).
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Ricordo un vecchio compagno, il capo storico del partito comunista del mio paese, in Calabria; uno di quelli che erano alla testa del movimento dei braccianti e dei lavoratori negli anni anni del dopoguerra; un compagno che, come mio padre, aveva potuto frequentare appena le classi elementari, poi, per varie vicende, autodidatta in carcere. Costui, come gran parte della vecchia guardia togliattiana "stalinista", aveva subito l'attacco e l'azione di esautoramento dei "nuovi" entrati nel partito post togliattiano e poi berlingueriano. "Nuovi" piccolo borghesi o aspiranti tali (studenti, insegnanti, impiegati, strascichi del '68. Ceti medi e anche figli di lavoratori, magari studenti, che per debolezza forse aspiravano ad essere cooptati in questi ceti).
Ebbene, una volta, qualche tempo prima di morire, seduto su una sedia, dopo avermi recitato alcune sue composizioni, riferendosi a questi nuovi giovani mi diceva: "Non leggono, non leggono".
Questi ceti medi piccolo borghesi che hanno distrutto il partito comunista sono gli attuali lettori di Repubblica e i frequentatori dell'editoria e degli attuali luoghi feltrinelliani (dove si espongono libri sulle Pussy Riot e ciarpame di questo genere). Ceti medi "semicolti", come li definiva Costanzo Preve, pseudo colti, pseudo progressisti, pseudo sinistra. Midcult mainstream che scade al rango di vera e propria plebe intellettuale in innumerevoli sue manifestazioni (basta ricordare i cosiddetti "girotondi", ma anche molte manifestazioni più decorosamente politically correct, per citare sempre Preve).
Il falso decoro e la patina esteriore politically correct nascondono il plebeismo, non solo del brunch o dell'apericena, come per un destrorso qualsiasi, ma del non pensiero piccolo borghese, gregario e imperiale "progressista".
E poi osano ostentare disprezzo per il plebeismo "popolare" delle periferie urbane, sotto forma di inno alla legalità, al rispetto, alla tolleranza, al pacifismo.