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sinistra

La guerra perduta nel Sahel

di Mauro Armanino

Niamey, gennaio 2018. - I migranti sono un pretesto per militarizzare lo spazio del Sahel. In effetti, da tempo immemorabile, questa area di raccordo col deserto del Sahara è stata un luogo di scambi commerciali e di migrazioni umane. Fino ai nostri giorni l’Africa occidentale è tra le zone del mondo a più alta percentuale di mobilità umana. La maggior parte degli spostamenti si realizza peraltro all’interno dell’area citata. Una minima parte dei migranti si avventura verso il nord Africa e una parte ancora più ridotta cerca di transitare in Europa.

La guerra contro i migranti non è cominciata oggi. Uno sguardo anche superficiale ai vari ‘Summit’ dell’Unione Europea hanno creato e accompagnato le politiche di controllo e di esternalizzazione delle dinamiche migratorie. Fin dagli anni 2000 si registra il blocco del transito verso le isole della Spagna o il Marocco a Nouhadibou, in Mauritania. Una presenza della ‘guardia civil’, di mezzi di dissuasione aerea e terrestre hanno praticamente bloccato la libera mobilità in questa porzione dell’Africa.

E’ stato poi il turno della Libia di Gheddafi con l’Italia, il Marocco, con l’accordo di Rabat, poi quello di Roma, chiamato anche accordo di khartoum con lo scopo di controllare i movimenti nel Corno dell’Africa. Infine, last but not least, l’incontro di Malta del 2015 che ha posto le basi per il controllo del Sahel. In questo incontro congiunto tra Unione Africana e Unione Europea sono stati messi sul tavolo gli argomenti del dibattito: soldi in cambio del controllo delle migrazione ‘irregolari’.

In questa operazione si è andata precisando una strategia mercantile che prevedeva impegni da ambo i lati del Mediterraneo. Gli stati africani interessati si ingegnavano a controllare le frontiere, a riaccogliere i migranti ‘indesiderati’ e quando richiesto ad ospitare centri di ‘filtraggio’ per rifugiati e migranti. L’Europa si impegnava a dare soldi, formazioni agli agenti di frontiera e ad andare ‘alle radici profonde delle cause delle migrazioni’. Quest’ultimo punto implicava dei fondi, chiamati ‘fiduciari’, per progetti di ‘sviluppo’ locale.

Detta strategia dell’Unione Europea, fallimentare fin dal concepimento, con lo scopo di controllare la mobilità umana. Gli altri aspetti erano funzionali a questo obiettivo dichiarato. I fondi per gli aiuti economici erano ormai legati alla ‘docilità’ degli stati africani a controllare i migranti ‘sospetti’e a riprendere sul territorio statale gli eventuali espulsi dalla Comunità Europea. Si trattata di un ricatto che non faceva che mettere in risalto il ruolo subalterno dei paesi africani in tutto il processo apena descritto.

Il Niger, paese strategico per la sua collocazione geografica e geopolitica, si è visto assegnare un ruolo di primo piano nell’applicazione della guerra contro i migranti. In effetti, il Paese si è dotato di una legge contro il traffico dei migranti ‘irregolari’ che non casualmente è stata approvata nel 2015. Chiedendo e ottenendo aiuti, il Niger, si è gradualmente trasformato in una azienda che si è vista ‘appaltare’ il controllo della mobilità umana. Questo è avvenuto ‘bloccando’ in modo fisico i migranti. Agadez ne è la frontiera.

Malgrado esista un accordo di libera circolazione di mezzi e persone nell’area dell’Africa Occidentale, chiamato spazio CEDEAO, la mobilità umana si ferma ufficialmente ad Agadez, a mille kilometri dalla frontiera esterna del Niger. Il blocco della mobilità, coinciso col perdurare dello stato caotico della Libia (distrutta dall’operazione della NATO nel 2011) si è drasticamente ridotto ma non fermato. La caccia ai migranti si sviluppa anche attraverso il controllo dei pozzi d’acqua. Uno di questi si chiama Speranza.

I pozzi sono essenziali per sopravvivere nella traversata del deserto. Gli autisti dei mezzi, per non farsi arrestare, abbandonano, in caso di pericolo i migranti. Diverse decine sono morti e altre decine ‘salvati’ dal mondo umanitario che come sempre gioca su due fronti. Con una mano carezza e l’altra ‘schiaffeggia’, cioè si pone al servizio del ‘controllo’ e del tentativo di ‘sconsigliare’ le migrazioni chiamate ‘irregolari’. Di questa guerra poco nascosta contro i migranti una tappa ulteriore è quella di militarizzare il territorio.

La Francia, da buona potenza coloniale, continua il dominio sulla zona e i giacimenti di uranio che costituiscono la base del suo potere nucleare sono intoccabili. Ci sono gli americani coi droni armati e centinaia di militari, i tedeschi con una base militare e in arrivo i militari italiani. Nel vicino Mali si prepara la forza chiamata del G5, che si propone di combattere il terrorismo,il commercio di droga e il traffico dei migranti. Si prefigge di ‘proteggere’ le risorse di cui è ricco il paese. La guerra è la politica con altri mezzi.

Il tutto nel contesto della globalizzazione e del ruolo crescente della Cina. Quest’ultima è sempre pù padrona dell’Africa. Difficile capire il ‘successo’ e la durata di Boko Haram e dei gruppi ‘djhadisti’ nello spazio del Sahel senza prendere in considerazione le nuove geopolitiche delle risorse. Tutto ciò permette di occupare lo spazio per giustificare una neocolonizzazione armata. Il pretesto sta nella difesa della sicurezza (delle risorse utili ai poteri). In questa transizione i migranti sono un elemento in più del gioco delle parti.

Quanto denunciato in Libia, le schiavitù dei nostri giorni, in sé sono un fenomeno conosciuto, accettato e riprodotto dal sistema. In tutto il Maghreb i neri sono ‘schiavi’ e così anche nei ‘nostri’ civili campi di raccolta di pomodori, arance, ortaggi e altre amenità simili. Il controllo di ‘una parte’ dei migranti è funzionale all’economia neoliberale dell’occidente e degli accoliti africani. Lo sfruttamento rende i migranti ‘oggetti docili’ nelle mani del potere spietato del capitale. Siamo organizzati per fare ‘salvataggi umanitari’.

Molto meno, invece, nel leggere con lucidità e contrastare queste e simili politiche di ‘apartheid’ globale. C’è chi può muoversi a piacimento. Il business del turismo è senza limiti mentre per la buona parte del mondo muoversi è una condanna. C’è un’esile parte del mondo che decide le sorti dell’altra, di gran lunga più numerosa e importante. E’ dunque per garantire la spartizione del mondo, delle sue ricchezze e risorse che si perpetua il sistema di controllo della mobilità umana, malgrado sia essa riconosciuta tra diritti umani.

Come passare dalla constatazione dei fatti, dalla ‘carità’ che accompagna la crescita esponenziale dei ‘corridoi umanitari’, dalle chiusure di tipo razzista stile ‘fortezza europea’, ad una realtà dove la memorie delle nostre ‘mobilità’(la migrazione italiana e europea) ci obbliga a considerarla come la ‘normalità’ della storia umana. Vivere è migrare. Assumere con rispetto giuridico e solidario questa evidenza come specchio della nostra civiltà potrà aiutare a costruire un altro mondo o meglio, un mondo altro.

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