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soldiepotere

Franceschini, l’Attila della cultura

di Carlo Clericetti

E’ una potente cannonata quella che un nutrito gruppo di intellettuali e ambientalisti ha sparato contro il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. In un manifesto firmato da personalità tra le più autorevoli in questo campo si denuncia l’intera politica del ministro, accusato per di più di intimidazione nei confronti di soprintendenti e direttori, che “non possono assolutamente fare dichiarazioni, denunciare lo stato di confusione fra Soprintendenze, Poli Museali e Fondazioni di diritto privato, di depotenziamento strutturale, di esasperata burocratizzazione in cui versano gli organismi e gli uffici”. E infatti in calce al Manifesto le firme di soprintendenti ci sono, ma solo degli “ex”, che ovviamente non sono più soggetti a eventuali ritorsioni.

Tra i promotori ci sono esponenti di associazioni ambientaliste, ex – appunto – soprintendenti e alti dirigenti del settore, archeologi e altri docenti universitari, magistrati, urbanisti, storici dell’arte. Alcuni tra i nomi più noti al grande pubblico: il magistrato Gianfranco Amendola, gli ex soprintendenti per l’archeologia a Roma Adriano La Regina e a Napoli Giorgio Nebbia, il giornalista e scrittore Corrado Stajano, l’urbanista Vezio De Lucia, l’architetto Pier Luigi Cervellati, lo storico dell’arte Tomaso Montanari, l’economista Salvatore Bragantini e il giornalista e saggista Vittorio Emiliani. Il manifesto è stato pubblicato da vari siti (per esempio qui).

Che cosa si contesta a Franceschini? Praticamente tutto, ma soprattutto di aver concentrato tutta la sua azione sulla “valorizzazione” (cioè su come aumentare gli introiti da beni culturali). Si dirà: e che c’è di male a voler ricavare il più possibile dal nostro patrimonio artistico? Nulla, se non fosse per il fatto che è stata invece completamente abbandonata la tutela. In pratica, è come se con la propria auto si volessero fare più chilometri possibile, ma spendendo tutti i soldi per la benzina, anche quelli che servirebbero per fare i tagliandi e per cambiare l’olio. Si capisce bene che in questo modo l’auto farà una brutta fine.

Il ministro deve aver accusato il colpo, visto che, a due giorni dalla diffusione del manifesto, si è affrettato a presentare il rapporto dell’ufficio statistico del ministero sull’andamento delle visite ai musei: cifre record, hanno titolato tutti i giornali, superati i 50 milioni di visitatori e quasi 200 milioni di incassi. Accuse ingiuste, allora? No, semplicemente un tentativo di distogliere l’attenzione dal problema sollevato. Vedi quanti chilometri faccio fare all’auto?, dice Franceschini. Ma la critica era: così la stai distruggendo.

Che poi, il fatto che i visitatori dei musei siano aumentati non è così eccezionale, visto che il turismo sta andando a gonfie vele. “Il 2016 anno record per il turismo”, titolava l’Istat un suo rapporto. E l’anno appena finito, di cui si conoscono i dati del primo semestre, ha migliorato ancora: +4,6% gli arrivi e +6% i pernottamenti. E i turisti, che scelgono sempre più l’Italia che finora è rimasta immune dagli attacchi terroristici, che vuoi che facciano? Vanno nei musei e nei siti archeologici. Le statistiche di Franceschini prendono come base il 2013 per illustrare i successi. Come mai? E’ ancora lo studio sul turismo dell’Istat che ci aiuta a capirlo: “Dopo la crisi degli anni 2012 e 2013, si consolida la ripresa del settore che si era già manifestata negli anni immediatamente successivi”. Cioè, il 2013 era il momento peggiore degli ultimi anni e partire da più in basso possibile fa risaltare i progressi.

Il ministro ha parlato di ricavi, ma non di quanto si spende per la cultura, e non a caso: per questo capitolo l’Italia è terzultima in Europa, con lo 0,4% del  Pil, davanti solo e Irlanda e Romania. Franceschini potrà replicare che negli ultimi anni è stata aumentata, ma questo è successo dopo i tagli feroci che hanno toccato il culmine con il governo Berlusconi nel 2011, quando si era arrivati a dimezzarla: oggi siamo tornati appena ai livelli del 2000, che, appunto, fanno una ben misera figura nel confronto europeo.

Ma non sono solo questi i problemi denunciati nel manifesto. Dove si dice che, per giunta, quei pochi soldi in più vengono spesi male, spesso per iniziative che puntano a maldestre spettacolarizzazioni che con la cultura non hanno nulla a che vedere. “Si organizzano gare di canottaggio nella vasca della Reggia di Caserta o si propagandano al suo interno prodotti tipici della zona e intanto la vasca risulta ingombra di rifiuti e l'intonaco cade a pezzi in una sala importante. Mentre, tanto per corroborare i vantati incrementi degli ingressi, si organizza al grande Museo Archeologico Nazionale di Napoli una mostra sul Napoli Calcio con magliette, ricordi e gadget di Maradona”.

Se questi – e tanti altri – sono episodi di una gestione che mostra di ignorare il valore del bene culturale in sé, ancora più preoccupanti sono le linee strutturali della politica degli ultimi anni, come “la sottomissione delle Soprintendenze, decisamente indebolite, ad un organo di governo locale come la Prefettura”. E qui dietro Franceschini si intravvede l’ombra di Matteo Renzi. Nel manifesto non ve n’è nessun accenno, per capirlo bisogna leggere il libro recentemente pubblicato da uno dei promotori, Vittorio Emiliani (Lo sfascio del Belpaese. Beni culturali e paesaggio da Berlusconi a Renzi – ed. Solfanelli), dove si parla dell’insofferenza – per usare un eufemismo – del segretario del Pd per le Soprintendenze. Nel libro, come annuncia il titolo, si ripercorre la storia di questi anni drammatici per il nostro patrimonio culturale e paesaggistico. La gestione di Sandro Bondi è stata così disastrosa che era difficile fare peggio, ma – secondo Emiliani – Franceschini è riuscito in questa ardua impresa. Vale la pena di leggere il libro per la puntigliosa descrizione, settore per settore, di tutti i danni perpetrati. Dal consumo di suolo all’indifferenza per la mancata elaborazione dei piani paesaggistici da parte delle Regioni (solo 3 su 20 sono in regola), dall’abbandono del patrimonio archivistico e delle biblioteche alle carenze di un personale con un’età media intorno ai 55 anni e dove i trentenni non arrivano al 2%.

Non stupisce, insomma, che tante personalità abbiano ritenuto necessario un intervento da tono così duro, e abbiano sentito il bisogno di richiamare al rispetto della Costituzione, che recita all’articolo 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

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Mario Galati
Monday, 15 January 2018 21:15
Regressivo, non repressivo, come corretto dal t9.
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Mario Galati
Monday, 15 January 2018 21:13
È illusorio appellarsi alla buona volontà di chi protegge interessi antitetici, borghesi, richiamando la Costituzione. Ma il richiamo alla Costituzione non è un appello ai miscredenti perché si convertano, è un mezzo per scardinare i pregiudizi dei meno coscienti e rompere il fronte avverso.
Gramsci riteneva che il regolamento carcerario dovesse essere utilizzato e che fosse utile utilizzarlo per limitare la forza e l'arbitrio dello stesso stato che lo teneva in carcere. Altrettanto constató Paietta in carcere: si rese conto, affermava, del valore sostanziale delle garanzie formali. In questo momento storico non solo è utile, ma è spesso necessario richiamare la Costituzione per poter esprimere certe posizioni, vincendo l'ostilità pregiudiziale di persone soggette alle influenze del pensiero dominante che è molto più repressivo di quello contenuto nella Costituzione.
Brecht ha ragione nel sostenere che le contraddizioni devono svilupparsi compiutamente perché si realizzi la rivoluzione. Ma un rivoluzionario non può attendere passivamente questo momento.
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Eros Barone
Monday, 15 January 2018 18:02
Lamentare la scarsa sensibilità del ceto governativo borghese rispetto ai temi della politica culturale è come lamentarsi che uno storpio non possa correre o un cieco non possa vedere: gli esponenti di quel ceto sono interessati a ben altro che alla cultura, la quale, peraltro, ai loro occhi, così come nella pratica concreta di un buon numero dei cosiddetti operatori culturali, coincide con una mera politica di immagine o, come usano dire i nostri raffinati amministratori, con il ‘marketing culturale’…
Ancora una volta conviene prendere le distanze dalla sfera illusoria e spettrale della riproduzione, in cui si situa e si esaurisce questo tipo di problematica, e assumere una prospettiva più ampia e più profonda, come quella che ci suggerisce Bertolt Brecht. A questo proposito, vi è un testo del 1932, incluso nel volume «Scritti sulla politica e sulla società», tradotto in lingua francese ma non disponibile in italiano, che merita di essere segnalato per il modo in cui l’autore affronta il nodo cruciale della distruzione e di un nuovo inizio. Al centro di questa urticante pagina brechtiana vi sono le categorie della grande cultura borghese, di cui viene registrato l’esaurimento in una fase storica in cui non si è ancora manifestata una nuova cultura. Le domande che Brecht si pone sono dunque le seguenti: quando si produrrà l’avvento di una nuova cultura? E come essere certi di tale avvento in un’epoca in cui è arduo distinguere, data la loro mescolanza, gli ultimi baglior del tramonto dalle prime luci dell’alba? La parola chiave è perciò “quando”.
Ed ecco il testo in parola: «In breve: quando la cultura, in pieno crollo, sarà coperta di sozzure, quasi una costellazione di sozzure, un vero deposito d’immondizie; quando gli ideologi saranno diventati troppo abietti per attaccare i rapporti di proprietà, ma anche troppo abietti per difenderli, e i signori che avrebbero voluto, ma che non hanno saputo servire, li scacceranno; quando parole e concetti non avranno quasi più niente a che vedere con le cose, con gli atti e con i rapporti che designano e si potrà sia cambiare questi ultimi senza cambiare i primi, sia cambiare le parole lasciando immutati cose, atti e rapporti; quando, per poter sperare di uscirne vivi, si dovrà essere pronti a uccidere; quando l’attività intellettuale sarà stata ristretta al punto che ne soffrirà lo stesso processo di sfruttamento; quando il tradimento avrà cessato di essere utile, l’abiezione redditizia, la stupidità una raccomandazione; quando non ci sarà più niente da smascherare perché l’oppressione avanzerà senza la maschera della democrazia, la guerra senza quella del pacifismo, lo sfruttamento senza quella del consenso volontario degli sfruttati; quando regnerà la più cruenta censura di ogni pensiero, che però sarà superflua, non essendoci più pensiero; oh, allora la cultura potrà venir presa in carico dal proletariato nel medesimo stato della produzione: in rovina.» Mi rendo conto che quella brechtiana, almeno nell'immediato, non è una critica costruttiva (è infatti una critica rivoluzionaria), ma pensare di appellarsi alla Costituzione per porre rimedio al degrado, all'incuria, all'ignoranza e alla rovina è, per citare ancora Brecht, altrettanto insensato quanto voler mettere ordine in un porcile.
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Mario Galati
Saturday, 13 January 2018 21:40
Valorizzare i beni culturali non significa far soldi, ma diffondere il loro significato e valore culturale, al fine di promuovere la cultura e la ricerca, come dice il primo comma dell'art. 9 Cost. La tutela del patrimonio culturale e paesaggistico, tra l'altro, è finalizzata alla realizzazione delle finalità del primo comma.
Questo concetto si trova persino nel Codice dei Beni Culturali approvato in questa fase politica e culturale ultramercatista. Ma ministri e uomini di cultura vari sembrano ignorarlo, promuovendo un uso dei beni culturali incompatibile con la loro natura, lesivo della loro finalità, del loro prestigio, del loro decoro, sino a ridurli a veicolo commerciale per sponsor, persino.
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