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Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Italian Job, di Maurizio Di Fazio

di Militant

Da pochi giorni è in libreria questo veloce pamphlet sugli orrori del mercato del lavoro italiano. Un testo agevole, giornalistico, polemico, senza dati né riferimenti, solo testimonianze dirette dei nuovi schiavi della moderazione salariale, della precarietà contrattuale, del produttivismo e della competizione liberistica. Senza occorrenze né sintesi statistiche è difficile dare a un testo del genere valore scientifico. L’autore, d’altronde, se ne tiene a debita distanza. Nonostante ciò, giunti alla fine del libro la sensazione è quella della sconfitta generazionale: salutata la fine del fordismo come liberazione dalle catene (di montaggio), il futuro si è trasformato in un ritorno all’ancien regime. Ci sono però alcuni dati su cui ragionare, e in questo senso il libro invita (implicitamente) alla riflessione. In primo luogo, le caratteristiche del mercato del lavoro italiano sono comuni al resto dell’Unione europea. Il padronato ha colto, nella parola crisi, l’etimologia cinese: una (grande) opportunità. L’opportunità di trasformare alla radice il mercato del lavoro. Uno stravolgimento che ha riguardato tutti i paesi, dai più problematici, come l’Italia, ai più ricchi, in primo luogo la Germania. Non a caso si accumulano lavori sulle deficienze del mercato del lavoro tedesco, assunto dal resto della classe imprenditoriale e politica europea come modello di riferimento.

Lavori come La quinta Germania, oppure Ricca Germania, Poveri tedeschi, solo per dirne due dei più divulgativi e in italiano, smascherano la presunta ricchezza dei lavoratori tedeschi. La produttività tedesca è fondata sul lavoro povero, non pagato, nero, iper-precarizzato e, ça va sans dire, migrante. Non a caso la Germania vede la propria domanda interna in stallo permanente. Ma questa è una realtà che molti faticano a metabolizzare, convinti di una presunta “aristocrazia operaia” teutonica opposta ai poveri lavoratori italiani.

Eppure una certa aristocrazia operaia esiste davvero, dalle forme e contenuti diversi dalla vulgata sinistrese. In realtà, quello che è avvenuto dapprima in Germania, successivamente nel resto dei paesi Ue, è stata una “dualizzazione” del mercato del lavoro. Le aziende – tutte quante, ma soprattutto le multinazionali – hanno proceduto in questo ventennio a esternalizzare la gran parte delle proprie maestranze lavorative. Da una parte hanno ridotto notevolmente i lavoratori direttamente impiegati e contrattualizzati con l’azienda madre, a cui in compenso hanno elargito livelli salariali e garanzie contrattuali crescenti; dall’altra, la grande massa dei lavoratori necessari ad abbattere i costi di produzione (la mitica competitività, o produttività) è stata data in subappalto a ditte esterne, sovente cooperative monomandatarie, di fatto esternalizzazioni di parti dell’azienda madre. Ne parla a fondo un lavoro capitale di questi ultimi anni, Il nuovo spirito del capitalismo, di Luc Boltanski ed Eve Chiapello.

Ma emerge anche dalle testimonianze raccolte da Di Fazio:

«Il mio magazzino [Mondo Convenienza, nda.] è affidato alle cooperative. Una maniera per lavarsene le mani, per abbattere i costi, non solo del personale. Agisce a mo’ di assicurazione sui materiali rotti durante le numerose movimentazioni delle merci che avvengono nel corso della giornata, tra uno stoccaggio e uno spostamento. Prima queste spese vive erano a carico di Mondo Convenienza. Adesso gravano direttamente sulle cooperative, e noi subiamo multe. Il termine tecnico di questa prassi è “anomalie coop”. Lo sbaglio ricade sempre su di noi. Siamo noi che ne paghiamo le conseguenze ultime. Le cooperative vengono sottoremunerate, perciò a noi viene prescritto di lavorare di più e sempre più velocemente per cercare di recuperare lo svantaggio di partenza. Tutto questo pone seriamente a repentaglio la nostra salute e la nostra incolumità fisica. Accordi economici sbagliati in partenza, che si riproducono sull’ultima ruota del carro. Noi lavoratori. […] Le cooperative sono nate per fini nobili, ma il loro senso è ormai degenerato. Non servono ad altro che a “terzializzare” il lavoro, a darlo in outsourcing. Sono ricettacoli di sfruttamento, e chi rimane ogni volta col cerino in mano è sempre lui, il lavoratore. Cioè noi».

Più il mercato del lavoro è duale, più questo è fondato sull’export. Anche qui non a caso, i due principali paesi esportatori della Ue sono Germania e Italia, paesi dal mercato del lavoro molto più simile di quanto sia a prima vista ipotizzabile. E questo perché un sistema di relazioni economiche fondato sulle esportazioni non ha necessità di sostenere una propria domanda interna in linea con l’andamento della produzione e del prodotto interno lordo. Aumenta la competitività aziendale, aumenta produzione ed esportazioni, ma gli stipendi rimangono fermi. Il paradiso del capitalismo mercantilista, che però funziona solo se, allo stesso tempo, esistono altri luoghi del mondo disposti a comprare le merci prodotte dalla supercompetitività occidentale. In attesa della classe media cinese, sono sempre e soltanto gli Usa a garantire il naturale sfogo di questa produttività geneticamente modificata, e infatti la bilancia commerciale Usa vede un rosso costante di 400 miliardi di dollari, a fronte di un saldo positivo di Italia (+50 miliardi, dato 2016) e Germania (+250 miliardi, dato sempre 2016). Ma questo descrive anche la “natura imperialista” dello Stato nordamericano, che è tale proprio perché compra più di quello che vende.

Senza dilungarci oltre, il testo in questione non fa che tracciare, tramite esempi, testimonianze, interviste, racconto indiretto, piccoli e concreti episodi di quotidiana servitù, il paesaggio lavorativo italiano. Lo fa senza alcuna ambizione di sintesi. Eppure ci rimane un piccolo strumento d’agitazione, un grimaldello fatto di uomini e donne in carne e ossa, delle loro miserie e della loro dignità calpestata. E’ poco, ma è già qualcosa, a seconda di chi lo saprà maneggiare.

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