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paroleecose

Una consacrazione impropria. Guadagnino, Chiamami con il tuo nome e l’inconscio imperiale dei semicolti

di Daniele Balicco

Last Week Tonight with John Oliver è una trasmissione statunitense di satira politica. Il conduttore è un comico britannico quarantenne, una versione sulfurea del nostro ben più rassicurante e qualunquista Maurizio Crozza. La puntata dello scorso 26 febbraio è stata interamente dedicata alle elezioni politiche italiane. Il video gira in rete da una settimana e vale la pena guardarlo. Non tanto perché faccia ridere. Anche se un po’, a dire il vero, lo fa. Quanto perché condensa molto bene quel miscuglio di aggressività e inconsistenza con cui l’Italia viene spesso osservata dagli emissari del nuovo patriziato imperiale. Di fatto, senza rendercene bene conto, siamo diventati in questi ultimi vent’anni il capro espiatorio della decadenza politica delle istituzioni dell’Occidente. Ci abbiamo messo del nostro, non c’è dubbio. Eppure, i deprecabili onorevoli che da domani torneranno a tormentarci dagli scranni di Montecitorio non sono più pittoreschi dei vari Trump o Boris Johnson o Marine Le Pen. Sono solo meno pericolosi. Il potere reale da cui dipende la nostra vita – lo sappiamo tutti – sta altrove e parla altre lingue. Come ci dice sarcasticamente John Oliver, chi domina il mondo ci considera ormai poco più che un’insulsa e caotica semi-colonia. Di questo prima o poi bisognerà parlare seriamente, se si vorrà ricominciare a fare politica davvero.

Altrimenti, lasciamo che l’Italia torni ad essere, proprio come in Call me by your name di Luca Guadagnino, una semplice espressione geografica. Forse non è un caso, del resto, che proprio questo film, pensato e costruito a tavolino per un pubblico internazionale, sia stato candidato a quattro premi Oscar – fra cui quello per miglior film dell’anno. Come sappiamo ne ha portati a casa solo uno, quello per la miglior sceneggiatura non originale a firma, ahimè, duole dirlo, James Ivory. Non c’è dubbio che alcune scene del film siano esteticamente potenti, come per esempio il lunghissimo primo piano finale. Ottima, del resto, è anche l’interpretazione del giovane Timothée Chalamet che va a controbilanciare quella, all’opposto imbarazzante, di Armie Hammer. Call me by your name è un film fragile, d’atmosfere rarefatte, a tratti noioso a tratti mellifluo. In un clima ovattato, senza conflitti significativi, il film racconta i tormenti di un giovane adolescente ebreo cosmopolita. Elio suona Bach come lo avrebbe suonato Busoni. D’estate, nella casa di campagna dei suoi genitori, si innamora di Oliver, un giovane ebreo americano, dottorando in archeologia, che legge – senza davvero capirlo – Heidegger su i presocratici, a bordo piscina in costume da bagno. Lo spettatore è dunque avvertito: se ama la vita, eviti la sala. E invece, quasi all’unanimità, critica, stampa internazionale di settore, e perfino Pedro Almodovar e Xavier Dolan, hanno parlato di vero e proprio capolavoro. E così Call me by your name è stato candidato all’Oscar per miglior film dell’anno, avendo per altro già incassato in sala oltre 35 milioni di dollari. Un successo vasto, dunque. Di pubblico e di critica. Ed è su questo che cercherò di ragionare, sulle cause implicite di una consacrazione impropria. Sarà necessario domandarsi: che cosa si desidera realmente in questo film? Lo spettatore – necessariamente non brechtiano – che se ne innamora, con cosa, nel profondo, si vuole identificare? Con quale tipo di vita? È difficile immaginare infatti che un successo così vasto sia attivato esclusivamente dall’empatia per lo struggimento di un amore adolescenziale; vissuto, per altro, senza alcun conflitto e ostacolo significativo. C’è probabilmente dell’altro. Vediamo meglio.

La prima considerazione da fare è quasi ovvia. L’oggetto del desiderio di Call me by your name, come del resto dei due lavori precedenti di Guadagnino, è una precisa classe sociale. Al nostro regista palermitano interessa infatti la vita dell’alta borghesia internazionale, quella sorta di patriziato urbano colto (anche se rappresentato con tutti i cliché con cui i semi-colti pensano la cultura), cosmopolita, poliglotta, ricchissimo, liberale nei costumi e nella politica. Di fatto, una classe imperiale che gode di privilegi e libertà pressoché assoluti e che è ben consapevole che nessun conflitto reale può minare, nel profondo, la sua granitica stabilità. Nell’immaginario di questa élite, l’Italia gioca e ha sempre giocato un ruolo importante, dal Grand Tour fino ad oggi. Non certo per la sua storia moderna, che al contrario turba e verso cui prova disprezzo; quanto per essere un altrove edenico, una somma vertiginosa di arte e cultura, concentrata in uno spazio tutto sommato innocuo, perfetto per autocelebrarsi come gaudente aristocrazia dello spirito. Un magnifico teatro, insomma, su cui proiettare deliri di onnipotenza, angoscia e dissacrazione.

Colpisce, infatti, di questo film altrimenti evanescente, la violenza con cui è continuamente aggredito il contesto geografico e storico. Se guardiamo Call me by your name film nella versione originale scopriamo, quasi subito, che la lingua ufficiale della campagna cremasca è – ohibò – il francese. Le amiche che si innamorano di Elio e che corrono in bicicletta, ignare, conversano fra loro e con il giovane musicista con un perfetto accento parigino. Del resto, si sa: l’Alliance ha sempre fatto ottimi affari nella bassa padana. Per contro, la servitù, che non merita neppure un’inquadratura di rilievo e che appare e scompare fugacemente dallo schermo, emette enigmatici suoni gutturali in un oscuro dialetto lombardo. La realtà e il presente restino incomprensibile come la lingua di questi plebei.

Ma la deformazione è soprattutto storica, più che linguistica. Alcuni esempi. Le campagne industrialmente coltivate della bassa padana sembrano uscite da una pagina di Carlo Levi: terre un po’ magiche alla fine del mondo, popolate quasi esclusivamente da vecchi contadini rimbambiti. Girando in bicicletta, i due protagonisti trovano qua e là immagini nostalgiche del Duce. Ad Oliver che si sorprende, Elio risponde laconico: «gli italiani sono questo». Poco importa che il film sia ambientato all’inizio degli anni ’80 e che un italiano su tre – soprattutto in quelle campagne – voti ancora per il PCI. E poco importa che l’Italia stia per diventare la quinta potenza economica del mondo. Guadagnino sa bene che per questo patriziato borghese (e per lo spettatore che sogna di farne parte) la storia reale non conta. La forza della sua operazione estetica sta tutta nella conferma di questo punto di vista patrizio e cosmopolita per cui l’Italia non esiste, se non come incantato rifugio periferico o come oggetto nobilitante, da possedere e da ostentare.

A dire il vero, però, ad un certo punto del film, la realtà storica cerca faticosamente di fare irruzione. Alla tv passa uno spettacolo di Beppe Grillo, velata allusione obliqua al presente. Poco dopo assistiamo addirittura ad un pranzo di famiglia dove si discute di politica. La madre ha invitato due amici italiani, non a caso imbarazzanti. Con loro prova a decifrare i problemi dell’Italia, ma è difficile ragionare con persone paonazze che urlano, litigano in continuazione, farfugliano concetti vaghi. Il tema che li preoccupa è il maledetto compromesso storico che ha portato al potere Craxi. Già, il compromesso storico…. Peccato che con il governo di Craxi non c’entri proprio niente. Ma d’altronde, come si dice all’inizio del film, siamo «da qualche parte nel Nord Italia» e, potremmo anche aggiungere, «in un qualche tempo indistinto di questa pittoresca penisola». Del resto, alle semi-colonie non deve appartenere pienamente né lo spazio, né il tempo. E un’ultima scena, a questo proposito, è emblematica. Il padre di Oliver, che è un famoso professore di archeologia, porta figlio e dottorando americano sul lago di Garda per assistere al ritrovamento di una statua romana che, magicamente, affiorerà di lì a poco dall’acqua. La statua, che viene afferrata con le mani, senza alcuna protezione, come se fosse un luccio, viene deposta sulla spiaggia. E i due nostri incerti amanti, ma già sicuri padroni del mondo, si divertiranno a giocare con il fragilissimo reperto appena trovato. Poco importa se si rompe. La storia non serve a nulla. È solo un gioco.

Call me by your name è sicuramente un film sul desiderio. Ma non, come è stato scritto, sulla sua natura erotica, tortuosa e indecifrabile. Quanto sulla sua natura infantile, innocente e prevaricatrice. È il desiderio di possedere il mondo; è il desiderio di distinguersi, come anime elette e libere, da una sempre più sterminata plebe senza nome. Questo è il vero centro magnetico del film e la ragione ultima del suo successo. Del resto, la distruzione del ceto medio di cui siamo tutti testimoni, sta facendo riemergere una distinzione sociale antica. Quella fra una minuscola élite, rapace e cosmopolita; e un nuovo infinito popolo plebeo. Call me by your name mette in forma questa mutazione neo-oligarchica, rimuovendone il contenuto. Spostando cioè nei tormenti illusori di un desiderio erotico omosessuale conciliato, privo di veri ostacoli e tabù, il delirio di onnipotenza di una nuova classe patrizia predatoria. Fa male pensare che un film così aggressivamente classista abbia sfiorato la possibilità di vincere l’Oscar, come miglior film dell’anno. Così come fa impressione pensare che l’Italia diventi, nel nuovo inconscio imperiale dei semi-colti, uno degli spazi elettivi di questa vistosa involuzione post-democratica.

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