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mauro poggi

Di battaglie, perse e da vincere

di Mauro Poggi

Sulla pagina facebook del professor Francesco Esparmer trovo la seguente riflessione:

“Politicamente le serate sono state neutralizzate. Anche i miei contatti più impegnati e lucidi le trascorrono a fare polemiche, spesso condivisibili ma del tutto inutili, contro la spazzatura che hanno visto in televisione, nei talk show in particolare, con conduttori squallidi e altrettanto squallidi ospiti. Così si fa il gioco del potere liberista, che intenzionalmente offre squallore in modo che lo squallore diventi l’unico oggetto del pensiero. Oppure non vi siete accorti che le loro cazzate stanno occupando le nostre menti e condizionando i nostri discorsi, tenendoci sulla difensiva e appiattendo i ragionamenti al livello infimo a cui li vogliono tenere?

La forza del marxismo fu proprio il suo proporsi come visione del mondo attiva, modellizzante, che costringeva anche chi gli si opponeva ad accettarne il linguaggio. Perché a contare davvero non è chi vince la battaglia ma chi decide il modo in cui vada combattuta”.

A dire il vero l’ultima frase andrebbe corretta: in realtà conta chi vince, eccome; però è vero che chi vince ci riesce proprio perché è capace di imporre le condizioni di combattimento che gli sono più favorevoli.

Il liberismo ha vinto perché ha saputo costringere l’avversario ad accettare il proprio modello cognitivo, costruito intorno a specifiche mitopoiesi, specifici valori, specifico linguaggio. Ha cominciato a vincere quando ha saputo far prevalere la sua visione, pervasiva e conformante, e le forze progressive hanno cominciato a perdere quando, accettandone la logica, lo hanno legittimato.

È successo con il sistema di mercato capitalistico, i cui meccanismi di relazione e produzione sono diventati l’unico orizzonte di possibilità pensabile; succede con la globalizzazione, che ne è la logica conseguenza e sarebbe “antistorico” avversare; succede con l’Unione europea, tanto comunitaria quanto monetaria, che della globalizzazione è solo un caso particolare e come la globalizzazione è quindi irreversibile.

La pretesa ineluttabilità di questo modello (perché il modello è uno solo, variamente declinato) è sostenuta dal mito della sua appartenenza all’ordine naturale delle cose, una condizione che lo rende tutt’al più perfettibile ma mai abrogabile. Senza più alcun controcanto che lo argini a sinistra, oggi ingombra gli spazi mentali come una certezza di fede.

Come spiega il linguista americano George Lakoff, le forze progressive hanno rinunciato a costruire una convincente narrazione autonoma. La rinuncia alla proposta di un progetto sociale alternativo, sostituito con un’offerta governamentalista dell’esistente, ha depotenziato il loro linguaggio e con esso, fatalmente, l’immaginario e la carica emotiva che doveva suscitare.

Se è così di moda oggi affermare che non ha più senso la contrapposizione fra destra e sinistra, è perché la sinistra – come soggetto politico portatore di istanze sociali antagonistiche – è uscita di scena, dopo un meticoloso processo di “cattura cognitiva” iniziato decenni fa.

Il recente risultato elettorale non ha fatto che certificare questa assenza, e molte delle “analisi” che sono seguite ne sono la desolante riprova.

La buona notizia è che in ambito sociolopolitico non esistono sconfitte definitive perché non esistono guerre: ci sono solo battaglie. E le battaglie perse hanno questo di buono: contengono sempre ammaestramenti che offrono opportunità di vittorie successive.

Vero è che attualmente le intelligenze a disposizione per raccogliere tali ammaestramenti sembrano piuttosto scarse; ma non è detto che sarà sempre così.

Dopotutto la “fine della storia”, annunciata con grande clamore da Fukuyama quasi trent’anni fa, si è dimostrata esser solo una smisurata, arrogante fake-news.

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