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palermograd

Un'Europa da conquistare

di Angelo Foscari

In mezzo a tanto parlare – a vanvera, il più delle volte – di Sovranismo e Populismo, è senz’altro il caso di rimettere a fuoco, come fa Domenico Moro nel suo ultimo libro, i concetti di ‘Popolo’ e di ‘Nazione’, anziché lasciarli pigramente in mano alle demagogie di Destra e di Centro. Seguitiamo infatti a dire “Lavoratori di tutti i paesi unitevi”, sapendo al tempo stesso che, per esempio, se la Grecia avesse avuto la possibilità effettiva di abbandonare l’euro onde sfuggire ai ricatti della Troika, tale uscita - pur trattandosi necessariamente di una svolta prima facie “nazionale” – sarebbe stata una vittoria per le classi subalterne di tutta l’Europa.

Moro osserva subito che l’idea “moderna di nazione non ha certo un carattere e un’origine di destra o reazionaria (…) Né la Rivoluzione francese, e tanto meno il governo giacobino, possono essere identificati con un governo nazionalista o reazionario o di destra” (pp.39-40). Nell’Ottocento tuttavia “si verifica una divaricazione dell’idea di nazione in due concezioni diverse e per molti versi opposte. Una è quella naturalistica, l’altra è quella volontaristica. La concezione naturalistica pone alla base della nazionalità caratteristiche specifiche dovute a fattori fisici, climatici e naturali, che formerebbero il carattere delle nazioni.

Questa concezione ha un nucleo indubbiamente reazionario e persino razzista e xenofobo” (p.40, corsivi miei). Sull’altro versante, la “concezione volontaristica della nazione è, invece, tipica della Francia [rivoluzionaria]e dell’Italia [risorgimentale]. Qui i fattori fisici hanno avuto un’importanza secondaria o sono stati del tutto assenti. La concezione volontaristica ritiene che la nazione e la nazionalità siano il prodotto storico prevalentemente di forze morali e spirituali, come l’educazione e la vita politica (…) la nazione diventa volontà”. (p.41). “Tuttavia” prosegue l’argomentazione di Moro “anche la concezione francese e italiana mostrano dei seri limiti. Il popolo e la volontà che esprimono la nazione non sono, in realtà, condizionati in modo sempre più preponderante da una parte specifica del popolo? Il popolo, infatti, è concetto generale e generico, includente classi diverse. All’interno di esso è la grande borghesia che assume un ruolo sempre più centrale”; di qui l’internazionalismo dei marxisti e la necessità di valutare “caso per caso” i processi di aggregazione/disaggregazione territoriale, verificandone di volta in volta il segno di classe.

Nello specifico, stando a Moro - è questo l’assunto di fondo del libro – l’Integrazione Europea è stato “strumento dell’élite economica transnazionale” (p. 7). L’affermazione in questi termini è discutibilissima: lo vedremo meglio tra un attimo. Ma se anche se le cose stessero esattamente come sopra, è la stessa caratterizzazione da parte di Moro, in questo stesso volume, delle vicende che condussero alla nascita della Nazione Italiana a sollevare forti dubbi sulla bontà dell’opzione politica annunciata già nel sottotitolo del libro, in copertina, per cui uscire dall’euro sarebbe “internazionalista e di sinistra”. A p. 59 si spiega infatti che il “Risorgimento fu egemonizzato dall’élite borghese del Nord, alleata con l’élite agraria del Mezzogiorno, e in opposizione alle masse subalterne”. Cos’avrebbe proposto - ci si chiede immediatamente - un Domenico Moro dell’Ottocento? Il ritorno al tarì, onde mandare a monte i piani delle élite?

Ma veniamo all’integrazione europea, come storicamente si è data.

Essa non inizia nel 1992 a Maastricht, con la formazione dell’Unione Europea: casomai nel 1957, con il Trattato di Roma, che istituisce la Comunità Economica Europea (CEE). Tale processo, lungi dal ridursi alla Parata Trionfale di un “neoliberismo” inizialmente privo di nome, è stato a lungo condizionato e plasmato dalle alterne vicende del tiro alla fune, dell’equilibrio conflittuale tra le classi, tipiche del trentennio che in Europa precede la cosiddetta “rivolta delle élite”. Guardiamo ad esempio a un documento di coordinamento delle politiche economiche CEE come il Piano Barre, che è del 1969, in compagnia di Alessandro Somma, uno degli autori del volume Rottamare Maastricht[1]: “Lì si individuavano i principali obiettivi di una politica economica e di bilancio coordinata, tra i quali spiccavano l’’incremento della produzione e dell’occupazione’…oltre all’istituzione di un ‘meccanismo di cooperazione monetaria’ (…) Tutti, poi, avevano il dovere di soccorrere chi era in difficoltà, dal momento che ‘è nell’interesse comune evitare o correggere quanto più rapidamente uno squilibrio’”: non è il programma del Comintern, ma è senz’altro musica ben diversa da quella cui le istituzioni europee ci hanno abituato in seguito.

Allo stesso modo, la vicenda del neoliberismo in Italia va ricostruita puntualmente, e non si può scrivere (in un libro che altrove si fa apprezzare per uno sforzo di rigore argomentativo) come fa Moro a p. 52: “Mentre fino a qualche tempo fa esistevano interessi comuni tra l‘élite economica e i settori subalterni” (corsivo mio), dove la vaghezza serve a tentare di spostare in avanti, al dopo-Maastricht, la fine dell’”equilibrio conflittuale” di cui sopra, avvenuta in tutta evidenza molto prima.

Detto questo, rimane incontrovertibile il fatto che la Troika è avversario strategico dei popoli europei; e indubbiamente l’euro costituisce una delle frecce della faretra “ordoliberista”. Resta tuttavia da dimostrare che uscire dalla moneta unica sia oggi una scelta vincente e progressiva: Moro qui lo dà per scontato, ma come sappiamo all’interno della sinistra la questione è assai controversa.[2]

Per concludere: anziché parlare genericamente (e speranzosamente) di “sovranità popolare”, non sarà meglio chiarire che il compito odierno è quello di produrre (attraverso le lotte, l’organizzazione, la solidarietà, la battaglia teorica) un’idea e una prassi alternative, popolari - nel senso delle classi subalterne - di processi di integrazione conflittuali e controversi, che ovviamente, inevitabilmente sono oggi segnati dalle dinamiche dell’assetto neoliberista[3] , ed egemonizzati finora dalle élite continentali?

Oggi è necessaria insomma – e qui intendo valorizzare la parte condivisibile della trattazione di Domenico, quella per cui l’esistenza di una nazione è “un plebiscito di tutti i giorni”[4] - una Volontà di Europa, contro le élite e secondo la logica delle parole purtroppo inascoltate di Benedetto Croce: “la guerra mondiale…ha accomunato nell’intimo loro i popoli, che si sono sentiti eguali nelle virtù e negli errori…Sospirosi dei medesimi amori, travagliati da medesimi dolori…si assiste [perciò] al germinare di una nuova coscienza, di una nuova nazionalità…perché le nazioni non sono dati naturali, ma stati di coscienza, formazioni storiche; e a quel modo che, or sono settant’anni, un napoletano dell’antico Regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l’esser loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri s’innalzeranno a europei e i loro pensieri si indirizzeranno all’Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, o dimenticate già, ma meglio amate”. [1]


Note:
[1] Ed. DerivApprodi, 2016, pp.60-61.
[2] Una visione del problema che condivido largamente è quella di R.Bellofiore, F.Garibaldo e M.Mortagua, A credit-money and structural perspective on the European crisis: why exiting the euro is the answer to the wrong question, in Review of Keynesian Economics, Volume 3, Issue 4, pp. 471-490 (ottobre 2015).
[3] Mutuo questa espressione da Mario Valentini.
[4] Cfr. p. 42. Qui Moro cita Ernest Renan.
[5] Si tratta della conclusione di Storia d’Europa nel secolo decimonono (1931).
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