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orizzonte48

Disinnescare le clausole di salvaguardia

Lo stato di eccezione... o di illusion€ finanziaria?

di Quarantotto

1. Finalmente, tra le tante fantasiose opzioni (e non essendo allo stato disponibile quella dello "spread!"), si è deciso quale volto dovesse assumere, in questo frangente, lo stato di eccezione che consenta, impunemente, di vanificare i risultati del voto (a volerli comprendere...): urge disinnescare le clausole di salvaguardia.

Da questo articolo sull'Huffington (del 2016) ne riportiamo la genesi e la cronistoria:

"I fatti sono, in sintesi, i seguenti:

Governo Berlusconi

Con i decreti dell'estate 2011 (decreto legge 98/2011 del 6 luglio e 138/2011 del 13 agosto) il governo Berlusconi dispone una copertura a futura memoria, assistita da una clausola di salvaguardia: se il governo (il governo che verrà) non troverà, entro il 30 settembre 2012, 20 miliardi attraverso i tagli al sociale ipotizzati da una improbabile delega fiscale-assistenziale, i soldi, già iscritti in bilancio come entrata, si dovranno trovare con un taglio lineare di tutte le agevolazioni fiscali, oppure con un aumento delle aliquote delle imposte indirette, incluse le accise.

Governo Monti

Il governo Monti, subentrato a quello Berlusconi a metà novembre 2011, riesce a disinnescare progressivamente buona parte di questa clausola (per 13,4 miliardi), ma non la previsione, di un aumento dell'Iva, a partire dal primo luglio 2013, come salvaguardia nel caso in cui non si fosse proceduto a tagli delle agevolazioni fiscali o di prestazioni assistenziali, per 6,6 miliardi di euro annui.

Governo Letta

Il governo Letta riuscirà a posticipare di qualche mese, il previsto aumento dell'Iva ordinaria, dal 21 al 22%, che scatterà a ottobre 2013. Con la legge di stabilità 2014 lascia però in eredità al governo Renzi una clausola di salvaguardia con cui si dispone che, qualora la spending review non raggiunga gli obiettivi previsti, rispettivamente per 3 miliardi di euro per l'anno 2015, 7 miliardi per l'anno 2016 e 10 miliardi a decorrere dal 2017, si faccia fronte con una diminuzione delle detrazioni e delle agevolazioni vigenti (tax expenditures ).

Governo Renzi

Il governo Renzi, con la legge di stabilità per il 2015, sterilizza l'operare della clausola di salvaguardia ereditata per il 2015, e la riduce di circa 3 miliardi per gli anni successivi, ma al tempo stesso, introduce una clausola di salvaguardia, aggiuntiva, a copertura delle misure intraprese, che consiste in un incremento automatico delle aliquote Iva e delle accise, che può essere evitato con interventi di revisione della spesa, per 12,8 miliardi nel 2016, 19,2 miliardi nel 2017 e 22 miliardi dal 2018. Nel 2016, grazie alla flessibilità ottenuta in sede europea (e che non avrebbe potuto ottenere se i governi Monti e Letta non avessero reso possibile la chiusura della procedura di infrazione per deficit eccessivo, avviata contro il governo Berlusconi nel 2009) sterilizza le clausole per il 2016 e riduce quelle degli anni a venire. Restano in piedi i previsti aumenti automatici delle imposte indirette per 15,1 miliardi nel 2017 e 19,6 miliardi dal 2018".

 

2. Aggiungiamo che, attualmente, dopo la legge di stabilità per il 2018, che è stata blandamente disapprovata dalla Commissione UE esclusivamente per motivi di prudenza preelettorale (tanto che Moscovici torna regolarmente all'attacco dell'Ital-tacchino quasi ogni settimana, non appena passato il 4 marzo), gli aumenti dell'IVA, portandone l'aliquota al 25%, nonché delle accise, sono quantificati in un gettito tributario aggiuntivo, rispetto all'attuale pressione fiscale su PIL, di 12,5 miliardi per il 2019 e 19,1 miliardi per il 2020.

 

3. In sostanza, come si può agevolmente capire, si tratta di mere previsioni di legge che impegnano a futuri consolidamenti fiscali in quanto si ritenga, secondo una pedissequa accettazione delle ipotesi della Commissione Ue, la realizzabilità di una diminuzione del rapporto debito/PIL (v. l'ultimo Country report annuale UE sull'Italia) tramite una riduzione (sperata) del deficit del bilancio dello Stato.

L'ipotesi centrale dunque è sempre quella dell'austerità espansiva e della sostanziale inesistenza di un moltiplicatore fiscale superiore a 1 (in particolare per la spesa pubblica).

Oggi (così come negli anni passati), disinnescare le clausole, significa dunque adottare delle norme di legge, previste da una mera precedente legge, che garantiscano un'equivalente minor spesa o un'equivalente maggior imposizione, o un equivalente mix di entrambi.

E questo impegno programmatico a obiettivi fiscali prociclici, dissimula la supernormatività incondizionata del pareggio di bilancio, come principio prevalente su ogni altra norma fondamentale della Costituzione italiana.

Gran bel problema che si stenta ancora a comprendere...

 

4. Queste sono infatti, secondo il Corsera, le idee che avrebbero i principali partiti:

"Nessuno vuole evitare un aumento delle imposte alzandone altre, e di fatto non restano che i tagli. Forza Italia, con Renato Brunetta, sollecita una maxi revisione della spesa pubblica, che per 40 miliardi di euro transita fuori dai canali degli acquisti centralizzati della Consip. Per Forza Italia bisognerebbe riprendere privatizzazioni e dismissioni immobiliari, per avere almeno 5 miliardi l' anno.

Anche Di Maio, Salvini e il Pd confidano sulla revisione della spesa. Per i 5 Stelle è possibile un risparmio di 30 miliardi l' anno, di cui uno dai costi della politica. Il partito di Grillo, il centro destra e il Pd, con più prudenza, continuano a tenere nel mirino le famose "tax expenditures", cioè detrazioni e deduzioni fiscali, che sono giunte a costare 313 miliardi l' anno".

Insomma, gli italiani, più che l'applicazione delle clausole di salvaguardia, devono temere i rimedi per disinnescarle. Ma la loro finalità è proprio questa: creare un'ansia tale - da illusione finanziaria pura- che il danno temuto sia sostituito da un danno certo.

 

5. Ma qual è la ragione di fondo di questa storia che inizia nell'estate del 2011?

Ovviamente, a livello di enunciato formale, il raggiungimento del pareggio di bilancio, mediante un percorso (per obiettivi strutturali intermedi) che tenesse conto dell'output-gap (cioè della minor crescita del PIL rispetto al potenziale di pieno impiego dei fattori della produzione nazionali), e (confusamente, nell'intendere il ciclo economico) degli effetti della recessione; e poiché quest'ultima andava curata con l'austerità fiscale, che tenesse conto, in sostanza, degli effetti delle stesse misure fiscali imposte dall'€uropa sul livello di occupazione.

Siamo in piena applicazione del fiscal compact, considerato il supremo strumento di crescita e stabilità finanziaria nell'eurozona. Ma rammentiamo anche che, essendo esso imperniato sul pareggio di bilancio, questo obiettivo è in realtà di gran lunga precedente alla sua ratifica, avvenuta nel 2012 (come dimostra il fatto che le clausole originarie vengono innescate da Tremonti), e per la verità precede persino la "crisi del debito pubblico" nell'eurozona e lo stesso trattato collaterale del fiscal compact. Tanto che nel 2008, Almunia ammoniva e Padoa Schioppa assentiva assicurando che per l'Italia che il 2011 fosse già il limite invalicabile per il raggiungimento del pareggio; v. qui pp.2-6.

 

6. Quindi la "ragione di fondo", non va ricercata in problemi di crescita e di livello di occupazione a cui porre rimedio; al contrario, lo stesso sforzo di raggiungimento del pareggio di bilancio, e di applicazione del fiscal compact, rispondono, come dovrebbe essere stranoto a tutti gli elettori italiani, a un'esigenza esclusiva di mantenimento in vita dell'euro.

Lo dice Draghi: è il funzionamento inevitabile dell'area valutaria senza trasferimenti €uro-federali tra paesi creditori commerciali e paesi debitori commerciali (ovverosia, con divieto espresso di solidarietà fiscale tra paesi aderenti) a imporre un certo tipo di aggiustamento. Il costo di questo aggiustamento è comprimere la domanda interna per ridurre le importazioni e amplificare la disoccupazione per ridurre i salari e, perciò, per aumentare le esportazioni.

Il resto della storia lo conoscete perché ne abbiamo parlato tante volte: si snoda in una vicenda di drammatico calo della produzione industriale e dell'occupazione, di diminuzione del reddito reale delle famiglie che, imprese deprivate della domanda e famiglie deprivate del reddito, convertono in una crisi creditizia che, mentre subentra l'Unione bancaria nell'eurozona, porta alle insolvenze diffuse (NPL) e al pericolo incombente di default dei nostri istituti bancari e all'espropriazione dei correntisti mediante bail-in; e, se va bene, ai salvataggi di Stato, con sforamento del deficit programmato e conseguenti piani di rientro mediante austerità fiscale aggiuntiva.

 

7. La questione è molto semplice.

Se si vogliono disinnescare le clausole di salvaguardia, e se lo si vuole fare perché si ritiene che l'Italia abbia già fatto un sufficiente aggiustamento dei conti con l'estero, - avendo un attivo delle partite correnti passato dal -3,5 del 2011 al + 2,5 attuale e avendo portato la sua posizione netta sull'estero dal -27% su PIL dello stesso anno all'attuale -8%, cioè in un ammontare di assoluta sicurezza (comparativamente agli altri aderenti all'eurozona; v. qui, p. 7)-, e che pertanto, essere gli UNICI a perseguire il pareggio di bilancio (eccettuata la sola Germania che però vìola allegramente e indisturbata le regole sul surplus annuo con l'estero dentro l'eurozona), si risolva in politiche esclusivamente dannose per la nostra crescita e si vuole invece risolvere il problema di disoccupazione e sotto-occupazione (quindi di dilagante povertà), SEMPLICEMENTE LE SI ABOLISCE CON UN SEMPLICE DECRETO-LEGGE.

 

8. Poi, si può attendere che l'€uropa apra le sue belle procedure di infrazione: magari avendo poi difficoltà a proseguirle, laddove il ritorno a una maggior crescita porti, com'è ovvio, finalmente a una diminuzione del rapporto debito/PIL.

Di certo, applicando le misure di salvaguardia, o, molto peggio, affannandosi a "disinnescarle", essendo oltretutto l'Italia già al termine delle sue chances di ottenere flessibilità fiscale ulteriore (v. qui, p.2-5 e come conferma anche l'Ufficio parlamentare di Bilancio), si otterrebbe soltanto una minor crescita del PIL, riespansione della disoccupazione e dei working poors, nonché, anche il fallimento degli obiettivi fiscali €uropei sul deficit (presuntuosamente programmato sulla carta e mai rispettato, com'è sempre accaduto ogni volta che si è applicata l'intera misura dell'aggiustamento fiscale chiesto dall'€uropa) e, naturalmente, sul debito/PIL.

Ma per aver capito queste cose, che ormai dovrebbero essere ovvie, visti i risultati costanti ottenuti dai vari governi, occorrerebbe prima aver capito come funziona l'euro. O almeno, non far finta di non aver capito come funzioni.

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