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Il 'benicomunismo' e la deriva destrorsa delle culture di sinistra

di Carlo Formenti

Il dossier sulla colonizzazione delle culture di sinistra da parte del pensiero liberale si arricchisce di un nuovo contributo con la pubblicazione del libro di Gianni Porta (“Buchi nell’acqua. Sinistra ed egemonia liberale nel movimento acqua bene comune”, Mimesis ed.). Il corposo (più di 400 pagine) lavoro di Porta, docente di scuola media superiore e dottore di ricerca in Filosofie e Teorie sociali, è diviso in tre parti, la prima e la seconda delle quali potrebbero essere lette come due opere indipendenti. Prima di illustrare (nella seconda parte) gli esiti d’una ricerca empirica condotta intervistando una serie di militanti del movimento Acqua Bene Comune, l’autore propone infatti (nella prima parte) una dettagliata analisi storica dell’evoluzione delle culture di sinistra dal 1968 a oggi. In particolare, seguendo un percorso analogo a quello tracciato qualche anno fa da Boltanski e Chiapello, Porta ne evidenzia il progressivo slittamento a destra – slittamento che interessa tanto il versante socioantropologico (il ceto emerso dal 68 appare in larga misura integrato/riciclato nelle classi dirigenti del capitalismo postfordista), quanto il versante politico-culturale.

È sul secondo piano che si è prodotta la convergenza fra, da un lato, le élite dirigenti dei settori capitalistici più dinamici (comunicazione, reti digitali, industria culturale, ecc.), portatori di atteggiamenti “ribelli” (anche se sarebbe più adeguato definirli bohémien), anarchicheggianti (vedasi l’apologia della “classe creativa” da parte di Richard Florida), dall’altro lato, quella sinistra “nietzschiana” che celebra i valori “positivi” del desiderio, dell’autonomia individuale e della democrazia partecipativa e che, dopo il crollo del socialismo, depone le velleità sovversive e individua nello Stato il nemico e in una mitica “società civile” il protagonista di un cambio di civiltà (“un nuovo mondo è possibile”). I “nuovi movimenti” che si succedono nel corso del tempo (no global, onda studentesca, girotondi, popolo viola, social forum) esprimono valori orientati all’orizzontalismo spontaneista, all’individualismo, a una partecipazione dal basso ispirata al rifiuto delle gerarchie (e quindi dei partiti politici, anche se appartenenti alla sinistra radicale), al metodo del consenso, al principio dell’<<uno vale uno>>. Un processo che, come confermano le interviste della seconda parte, raggiunge l’acme nel movimento Acqua Bene Comune.

L’autore spiega di aver scelto di studiare questo movimento proprio perché “vincente” ma, al tempo stesso, rifluito rapidamente senza residuare un abbozzo di strutture e progetti alternativi alla realtà esistente. Alle debolezze strutturali e ideali che stanno alla radice di tale riflusso è dedicata la terza parte, nella quale Porta si concentra in particolare sul concetto “ameba” di beni comuni, un termine sovraccarico di contenuti contraddittori, argomenta, in cui convivono ecletticamente suggestioni liberali (Elinor Ostrom), postoperaiste (Negri) e narrazioni sui nuovi diritti (Rodotà). Contro questo calderone “benecomunista”, dove le visioni “naturaliste” (che danno per scontata l’esistenza di risorse “per natura” comuni) si mescolano al tentativo di superare l’opposizione pubblico/privato in nome di un diritto universale dei singoli e dell’umanità tutta (Beck, Rodotà e altri), o alla velleità di piegare il capitale alle esigenze delle nuove soggettività produttive cooperanti (Negri), l’autore chiama in causa la critica di Dardot e Laval: non esistono risorse per natura inappropriabili ma solo risorse che non devono essere appropriate, ed è solo l’attività politica di un soggetto collettivo “istituente” che può legittimare questo dover essere. Ma ciò, aggiungo io (anche se Dardot e Laval non sarebbero d’accordo), rimette in gioco categorie “classiche” come sovranità, stato e partito (nella versione che il pensiero di Antonio Gramsci ci ha lasciato in eredità!).

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