Print Friendly, PDF & Email

filosofiaenuovisentieri

Realismo capitalista. Un saggio di Mark Fisher

di Gabriella Putignano*

Ad un anno esatto dalla morte, la neonata collana Not ha dato alle stampe uno dei testi di capitale importanza dello studioso britannico Mark Fisher (1968-2017): Realismo capitalista.

Fisher è stato un vero intellettuale in grado di spaziare fra linguaggi plurali e molteplici, di legare la riflessione teorico-politica all’orizzonte musicale e cinematografico. Questa abilità ermeneutica la si coglie in toto nel libro, libro che si basa su un assunto fondamentale: oggigiorno non solo le forze politiche, ma lo stesso inconscio collettivo ha introiettato l’idea che “there is no alternative” al di fuori dello scenario capitalista. Non c’è via d’uscita, non c’è scampo, ed occorre dunque – per dirla con Carlo Michelstaedter – «adattarsi alla sufficienza di ciò che è dato» [La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 2007, p. 104], rassegnarsi al cinismo della disperanza [Cfr. M. Galzigna, Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2013], allo squallore della sopravvivenza e della diseguaglianza.

Tale modus vivendi strangola alla radice il pathos liberatorio, corrode lo slancio prospettico del futuro e della speranza militante nella stagnazione di un eterno presente, nel deserto di una mortifera ʻretrotopiaʼ [Cfr. Z. Bauman, Retrotopia, tr. it. di M. Cupellaro, Laterza, Bari 2017].

Il tetto delle nostre aspettative – ricorriamo anche noi al linguaggio musicale – si fa così talmente basso da poterlo toccare, la vita media di una prospettiva una mera campagna elettorale [N. Fabi-D. Silvestri-M. Gazzè, “Il padrone della festa”, in Il padrone della festa, Columbia Records 2014].

Questo realismo, secondo Fisher, è maledettamente subdolo, poiché è un’atmosfera che pervade ogni interstizio dell’esistenza: dal lavoro all’educazione fino alla produzione culturale, e s’intreccia, soprattutto, con un pericoloso e dogmatico processo di naturalizzazione. Scrive il Nostro: «Per come lo concepisco, il realismo capitalista non può restare confinato alle arti o ai meccanismi semipropagandistici della pubblicità. È più un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l’educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione» [p. 50].

Si tenta di rendere il capitalismo neoliberista qualcosa di ovvio e di far passare, quindi, l'”ontologia imprenditoriale” come eternamente data. È, questo, un meccanismo ideologico, in quanto – Karl Marx docet – nulla è radicato nella natura umana in un modo aprioristico o granitico, nulla può essere astratto dalla rete di condizioni storiche e materiali; spesso chi ricorre all’ipostasi dell'”eterno” lo fa per consolidare taluni rapporti di forza ed assolutizzare come necessità metafisica un certo (ed ingiusto) ordine sociale.

Pertanto, il primario compito che Mark Fisher si propone nel libro è quello di squarciare il velo delle false ed ideologiche naturalizzazioni del realismo capitalista. Quali sono queste naturalizzazioni? Lo scrittore e critico britannico ne individua tre:

  1. La catastrofe ambientale, assunta quale destino ineluttabile. Vi è, piuttosto, una relazione causale fra capitalismo e disastro ecologico: la necessità di espandere costantemente il mercato, il feticcio della crescita – come più volte sottolineato anche da uomini quali il compianto Alex Langer e il francese Serge Latouche – sono del tutto contrari ai parametri della sostenibilità.

  2. La burocrazia, che ha sì acquisito un aspetto diverso rispetto al socialismo reale, diventando decentralizzata, ma che ci inchioda alla corsa frenetica, costante e febbrile di determinati status symbol, di aggiornamenti/target mai ritenuti sufficienti e sempre differiti. E questo ci conduce alla comprensione della terza forma di naturalizzazione, forse – per Fisher – la più importante e decisiva:

  3. La salute mentale. Ancora una volta – alla stregua del clima – si cerca di trattare il fenomeno a moʼ di fatto naturale, di privatizzare la sofferenza mentale, con i suoi lividi di depressione, ansia e panico, nella solitudine della propria coscienza. Occorre, invece, cogliere la correlazione fra i nostri «infarti psichici» [B.-C. Han, La società della stanchezza, tr. it. di F. Buongiorno, Nottetempo, Roma 2012] e la società in cui siamo immersi, una società che, tanto a scuola quanto sul posto di lavoro, ci “sfarina” dentro la tossicità della competizione e della prestazione. Per questo, secondo il filosofo coreano Byung-Chul Han, le malattie del XXI secolo non sono più caratterizzabili in senso batterico o virale, bensì in senso neuronale. Siamo soggetti stuprati dal bubbone della prevaricazione, ai quali si chiede di essere infallibili, perennemente flessibili e manipolabili. Pena il marchio di ʻfallitoʼ, di good for nothing.

Quanto mai utile ed opportuno ricordare, a riguardo, un amaro articolo scritto da M. Fisher, una sorta di suo testamento finale:

Scrivere della propria depressione non è facile. La depressione è in parte costituita da una beffarda voce “interiore” che ti accusa di auto-indulgenza – non sei depresso, stai solo cercando scuse per te stesso – e tale voce rischia di assumere maggiore importanza rendendo pubblica la propria condizione. Naturalmente, questo richiamo “interiore” è anche l’espressione interiorizzata delle forze sociali presenti, alcune delle quali hanno tutto l’interesse a negare qualsiasi collegamento tra la depressione e la politica. La mia depressione è stata sempre collegata alla convinzione che ero letteralmente un buono a nulla. […] Un doppio legame vizioso del tutto particolare viene imposto ai disoccupati di lunga data nel Regno Unito: per tutta la vita è stato detto loro che sono dei “buoni a nulla” e allo stesso tempo possono fare qualsiasi cosa vogliano? Allo stesso modo è comprensibile l’accettazione fatalista delle politiche di austerità da parte della popolazione del Regno Unito: esito di una depressione collettiva deliberatamente coltivata dal potere. Questa depressione si manifesta nella convinzione (indotta) che la situazione peggiorerà (per tutti, eccettuata una piccola élite), che siamo fortunati ad avere un qualsiasi posto di lavoro (quindi non dobbiamo aspettarci, per esempio, una dinamica salariale che stia al passo con l’inflazione) e che non possiamo pretendere uno stato sociale pubblico e universale. [Buono a nulla (Good for Nothing)].

Per queste ragioni potremmo, altresì, connotare il realismo capitalista come un’atmosfera di ʻmal-animaʼ [Malanima è parola utilizzata da F. Bifo Berardi nel suo L’anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia, DeriveApprodi, Roma 2016. Sul rapporto fra società prestazionale e psicopatologie v’è una ricca bibliografia. Si vedano quantomeno: A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, tr. it. di S. Arecco, Einaudi, Torino 2010, C. Dejours, La Souffrance au travail, Éditions du Seuil, Paris 1998, F. Berardi Bifo, Heroes. Suicidio e omicidi di massa, Baldini&Castoldi, Milano 2015, B.-C. Han, La società della stanchezza, ed. cit.], ove gli esseri umani recidono il tessuto dei rapporti sociali e comunitari, cessano di guardarsi, inghiottono quotidiane dosi di solitudine [Cfr. J. Cacioppo-W. Patrick, Solitudine. L’essere umano e il bisogno dell’altro, Il Saggiatore, Milano 2009] e diventano freddi lupi performativi e narcisisti. Esplode, così, l’impasse temporale a cui prima s’accennava: da un lato, l’esaurimento del futuro; dall’altro, la chiusura in una securitaria ed aproblematica illusione retrospettiva. Un’antinomia temporale che comporta, invero, lo sradicamento dell’orizzonte della storicità e l’affermazione di punti-ora caotici, nervosamente frenetici, segnati dall’impotenza riflessiva, nonché dall’orribile ed asfissiante sensazione di “star perdendo sempre qualcosa”.

Siamo crollati in un anno-zero, nella fine della storia di fukuyamana memoria, da cui paradossalmente – scrive nel finale Fisher – può schiudersi uno spazio di rinascita: la crisi può essere, infatti, una straordinaria sfida speculativa, lo stimolo per riattivare i giochi del tempo e le trame della speranza. Non è affatto sufficiente a riguardo l’«anticapitalismo gestuale», tipico di una certa cultura musicale hip-hop, che si limita soltanto a denudare il mondo e a mostrarlo “per quello che è”: una guerra hobbesiana di tutti contro tutti. Bisogna puntare in alto: riaccendere l’immaginario, riappropriarsi del circuito desiderante, caduto nel tritacarne dell’ontologia manageriale, e soprattutto politicizzare la malattia mentale, indirizzarla verso la vera causa: il Capitale. Sui modi, non ben esplicitati ed approfonditi, attraverso cui riattivare tutto questo si situa, credo, il limite teoretico del libro, ma di certo Fisher è un autore che riesce tanto a scavare nel buio della società, quanto a ricordarci di non accettare in noi la paura di inventare il futuro, perché farlo significa già morire. E ci ricorda, infine, forse con la sua stessa tragica vita, che alle ferite della competizione, al loro bullismo etico, capace di ammanettarci al guscio di ruoli pietrificanti e di sbeffeggiarci facendoci sentire ʻbuoni a nullaʼ, occorre rispondere con la rivendicazione appassionata di un unico, meraviglioso diritto: il diritto alla tenerezza. [Per un approfondimento di questo diritto, rimando al testo di L.C. Restrepo, Il diritto alla tenerezza, tr. it. di D. Gambini, Cittadella Editrice, Assisi 2007].


* Gabriella Putignano (Bari, 1987), laureata in Scienze Filosofiche presso l’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” con una tesi in Filosofia Teoretica su Carlo Michelstaedter, è dal 2013 docente di Filosofia e Storia nei Licei. È autrice di una monografia su Carlo Michelstaedter (L’esistenza al bivio. La persuasione e la rettorica di Carlo Michelstaedter, Stamen, Roma 2015) e di una su Raoul Vaneigem (Quel che resta di Raoul Vaneigem, Petite Plaisance, Pistoia 2016), nonché di numerosi papers su rivista e in volumi collettanei, in cui ha trattato il pensiero di Giuseppe Rensi, Albert Camus, Arthur Schopenhauer, Henrik Ibsen, Aldo Capitini. Ha, inoltre, pubblicato contributi sulla P4C e curato i libri Filosofare dal basso (Sentieri Meridiani, Foggia 2015) e Cantautorato & Filosofia. Un (In)Canto possibile. (Petite Plaisance, Pistoia 2017). Di prossima pubblicazione una sua antologia dal titolo Maestri italiani sommersi, ove oggetto di studio privilegiato è una certa filosofia italiana novecentesca, disincantata e nonviolenta, ma per lo più rimossa.

Comments

Search Reset
0
massimo terli
Sunday, 03 June 2018 00:27
la tenerezza tenerezza è detta
se tenerezza cose nuove detta

sandro penna, poesie
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit