Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Estetiche del turbocapitalismo

di Salvatore Bravo

Forma e sostanza non sono mai state tanto lapalissiane quanto nell’epoca mediatica, dell’ipercinetica dell’immagine: l’estetica, l’immagine, il fenomeno ad un’attenta lettura svelano e rivelano il noumeno. Per estetica intendo il fenomeno che appare kantianamente nella sensibilità. Ora l’ipercinetica delle immagini, la ridondanza delle stesse, fa assomigliare il mondo sempre più alle vetrine parigine descritte da Benjamin: panciuti luoghi dell’abbondanza che svela nella carne dell’apparire il contenuto olistico del turbocapitalismo. Hegel affermava che la quantità cambia la qualità, ovvero l’esponenziale presenza di un dato ne altera la verità qualitativa. Il turbocapitalismo, sostenuto dall’incontenibile disseminazione del culto dell’immagine, rende palese la sua essenza attraverso la circolazione delle immagini e mediante la qualità delle immagini con la loro densità omologata ed omologante. E’ in atto una vera paideia dell’immagine, una sorta di perversione di ogni contenuto formativo, mediante la dismisura della produzione dell’immagine. Non si assiste al materializzarsi del bello kantiano per il quale il bello ha un contenuto etico, in quanto espressione e proiezione dell’aspirazione all’armonia interiore, dell’equilibrio tra intenzione e volontà, ma si sta materializzando il regno del terrore nel sublime dinamico.

Intendo che, mentre per Kant il sublime è giudizio riflettente la cui effettualità comporta prima lo spavento dinanzi ai fenomeni naturali che ci sovrastano, ma poi rende l‘essere umano in grado di recuperare la propria dignità, poiché pensa il sublime che gli porge un senso di infinito, oggi il sublime è solo terrore. La quantità immensa delle immagini reca con sé il culto dell’immagine nel micro, nel quotidiano, casa per casa, attimo per attimo, mercato per mercato. Nel pulviscolo della competizione dell’immagine, si afferma e si solidifica la frustrazione collettiva. Non si è mai abbastanza perfetti in qualsiasi qualità somatica, poiché il senso della circolazione dell’immagine non solo sollecita il narcisismo personale ed il disimpegno verso ogni forma di socialità, ma specialmente costruisce la sostanza del capitalismo attuale: l’impotenza generalizzata. Le immagini ci assediano, ci inseguono, siamo stimolati a produrle fino al punto da scambiare gli idola, le immagini, per la sostanza, per l’identità. La reificazione è dunque totale, è la legge del sistema, che non teme neanche di nasconderla, di celarla, tale è la forza ostentata, in assenza di ogni opposizione. In questa rincorsa senza limiti e confini, in cui la competizione, è l’altra parola sostanza del turbocapitalismo, si afferma un mondo di sconfitti, a turno ciascuno è superato dall’immagine ostentata dell’altro, ogni immagine ha un contenuto di violenza, in quanto ha il fine di portare il silenzio nel chiasso pornografico del nuovo assoluto. Dunque non è iscritto in tale logica il recupero della propria dignità di persona pensante, ma si dev’essere solo individui, atomi, e non persone, il cui valore passa attraverso uno scatto velocissimo presto superato dall’infinito della circolazione delle immagini. Sublime senza riscatto, terrore senza possibilità escatologica, condannati alla maniera di Sisifo ad essere oggetto di operazioni ripetute prive di senso. La cultura-culto dell’immagine ci relega nella caverna platonica. Il mito del VII libro della Repubblica ci insegna che la tragedia degli schiavi è la loro incapacità di rappresentarsi la caverna come afferma Blumenberg in Uscite dalla caverna. Lo schiavo è tale perché non ha i mezzi per intenzionare la caverna, pertanto aggredisce il liberatore, Socrate, non può credergli in quanto l’abitudine a subire il mondo delle immagini, ed ad assumere la postura esistenziale in funzione del loro culto ha annichilito ogni capacità teoretica. Per lo schiavo prono al culto del falso ritenuto l’unico mondo possibile il mondo non esiste, in quanto il mondo è rappresentazione, relazione di pensiero, trascendenza. Dinanzi ad una umanità la cui caverna è la mente adattata al buio dell’immagine ogni dialogo pare impossibile, ogni comprensione di un’alterità appare come violenza. Si rovesciano i ruoli, gli schiavi si sentono aggrediti dalla verità, minacciati dall’incomprensibile, credono fideisticamente ed ossessivamente nell’immagine. Condizione molto simile al culto dell’immagine della contemporaneità che associata alla competizione, all’incultura di un linguaggio sempre più depotenziato delle sue capacità teoretiche produce in modo evidente un’umanità immiserita dalla storia effettiva del turbocapitale. L’armigero con cui il capitale domina ed utilizza ogni individuo trasformandolo in mezzo di diffusione del narcisismo consumistico è la cultura dell’immagine. Perversione capitalistica della comunicazione, l’immagine da essere veicolo di significato, metafora del concetto, analogia tra concetto ed immagine come è descritta in la Poetica di Aristotele, o polisemica attività del pensiero secondo Ricoeur, è solo veicolo della competizione, della cultura imprenditoriale: la prima merce da vendere non è il prodotto, ma se stessi. Lo sbattere delle spade, si rende operativa con l’immagine che sostituisce le identità delle persone non più formate ad essere persone, ma merce dal valore di scambio variabile come le turbolenze ricattatrici dello spread. La vittoria del capitale è nell’arretramento della lingua, meno lingua più immagini, con il conseguente tramonto del pensiero critico. Il mondo, in quanto rappresentazione dell’assenza del dato percepito mediante la parola, è sostituito dall’abbondanza paurosa del cattivo infinito delle immagini. La loro quantità è tale che val bene, in questo caso, quanto affermato da Hegel nella critica a Schelling, ovvero viviamo in un infinito in cui tutte le vacche nere si confondono nella notte delle immagini. Nello splendore del supplizio delle immagini, la loro quantità oscura tutto, o meglio l’una oscura l’altra in una crudele rincorsa tra abbaglio ed ombra. La notte è scura per l’indifferenziazione delle immagini, a ciò contribuisce non solo la quantità ma anche la rincorsa verso modelli dell’apparire sempre più eguali. Vedasi le meteorine della politica e dello spettacolo, ciascuna rincorre tra palestre, diete, chirurghi, modelli dell’eguale, lottano all’ultimo sangue, e non è una battuta o iperbole lessicale, per sembrare sempre più.. ma tutti allo stesso modo, fino al ridicolo venato d’orrore nell’assistere a visi paralizzati nell’espressione, all’anestesia facciale, a labbra voraci di tutto…tranne che di pensiero. Lo spettacolo dell’orrore estetico-apparire rende concreta la verità del turbocapitalismo. Plotino, racconta un suo discepolo, non voleva che si disegnasse la sua immagine per timore che si scambiasse il corpo per la sua essenza. Oggi più che mai, pur col rischio dell’indifferenza, è necessario contrapporre alla notte delle immagini, in cui tutte le vacche sono nere e le persone sono trattate come se valessero meno dei bovini, la cultura dell’impegno sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine. Dal mito della caverna possiamo imparare ponendoci un quesito, ovvero che forse l’attività liberatrice di Socrate ha sbagliato nei tempi. Prima di poter intavolare il dialogo con i cavernicoli del capitale, forse bisogna impegnarsi in una lenta diffusione della cultura della parola, contro il culto liturgico dei rituali mediatici. I tempi potrebbero essere lunghissimi, ma la sovraesposizione mediatica rischia di portare l’opposizione teoretica all’interno della sublime violenza mediatica. Ripartire dal logos, dalla parola, per poter argomentare e mostrare con l’esempio vissuto che un’altra vita è possibile. Parlare, dialogare, comunicare per diffondere, per porre le condizioni della parola teoretica. Davide contro Golia, così appare la sfida, eppure dinanzi all’evidenza della sostanza del turbocapitalismo, la sfida dev’essere sperimentata, ognuno nelle sue possibilità. La caverna è la condizione prima della nascita, il buio prima dell’apertura alla nascita. Identità non nate, ma esposte al circolo mediatico, questa è la realtà dei giorni, dinanzi alla quale non possiamo fatalmente affermare come Heidegger “Solo un dio ci può salvare”. La Filosofia ha insegnato che la salvezza è possibile, la prassi è logos, trasformazione e nascita delle vite, siamo chiamati a sottrarci al gioco dell’apparire per vivere la pratica dell’agorà.

Add comment

Submit